Note di lettura: ”Berretti Erasmus” di Giovanni Agnoloni.

11 dicembre 2021 by

di Luigi Preziosi

Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa - Giovanni Agnoloni - copertina

Con Berretti Erasmus ( Fusta editore, 2021) Giovanni Agnoloni scarta dal percorso a cui ci ha abituati, passando dalla narrativa pura e dalla saggistica finora praticate con esiti convincenti, ad una forma più intimistica di espressione creativa. Berretti Erasmus è infatti un memoir, in cui l’autore disegna vicende di fantasia (secondo quanto riporta nella nota introduttiva) acquerellandole con i colori del suo passato, e ponendosi contemporaneamente in una condizione condizione psicologica di acquisito (a volte faticosamente) distacco dal tempo raccontato.

Il racconto si snoda sul filo della memoria degli anni dell’università del protagonista, Giovanni, che agli inizi degli anni Duemila da studente in giurisprudenza partecipa ad un progetto Erasmus in Inghilterra. La prima esperienza lo entusiasma, inducendolo a  replicarla per più volte. Inizia così un’esplorazione che lo porterà in diversi paesi del Nord Europa tra cui l’Olanda, l’Irlanda, la Polonia e la Lituania. I ritorni a Firenze dove è nato e cresciuto acuiscono un senso di sottile estraneità nei confronti della città natale, contribuendo alla formazione di un particolare atteggiamento psicologico che prescinde dall’evidenza della sua bellezza: infatti Giovanni tende piuttosto a comparare le emozioni riesumabili dai ricordi dei suoi primi anni con quelle evocate da altri paesaggi urbani. Non lo affascinano tanto gli abbaglianti splendori dell’arte, quanto piuttosto le sensazioni sottili che promanano da un istante, uno squarcio nella coscienza, che per lui può aprirsi su prospettive di città nordiche, che lasciano immaginare un senso di tepore interiore pur nella visione di candidi scintillii di strade innevate o notturni illuminati dalla gelida luna boreale. Con ciò inizia a crescere nel protagonista un interesse che i soggiorni Erasmus renderanno via via più chiaro: la ricerca su se stesso per scoprire come stare al mondo nel modo più consentaneo alla sua natura.

I soggiorni all’estero enfatizzano le sensazioni, facilitando nel protagonista la conoscenza di una parte di sé forse altrimenti destinata a restare ignota, grazie in particolare alla possibilità di riempire i momenti di intimità con se stessi che a volte suscita il vagabondare in luoghi che non ci appartengono. Giovanni si arricchirà di nuovi incontri, ricercherà l’amore e lo troverà. L’idillio in Cracovia, che il tempo svelerà destinato ad una conclusione tragica, è struggente nel ricordo:  “Cracovia aveva fumi e verità: cinerini i primi, che non vedevi ma sentivi nel naso, respirando l’aria della sera come del primo mattino; a più strati la seconda, non perché equivoca, ma perché formata più livelli…C’era quel filo, quella risonanza tra il percorso che avevamo seguito finora, fin da prima di conoscerci, e insieme i fatti, che ci avevano portati qui praticamente da soli, proprio nel momento in cui, in fondo, desideravamo di più cambiare. E c’era quella mano sapiente, quasi di direttore d’orchestra capace di far esprimere al meglio ciascuno dei suoi musicisti, che sembrava levarsi su di noi dagli edifici barocchi e neoclassici, dalle chiese, dalle luci dei negozi da tutto quell’alone di vita che si faceva strada, quasi che fossimo dei prescelti e che il nostro percorso comune, per qualche imponderabile disegno cosmico, fosse importante. Era come se fossimo stati attesi.”

Sullo stratificarsi di esperienze accumulate studiando all’estero si amplia l’interiorità del protagonista, che a mano a mano intuisce, nei soggiorni che si avvicendano negli anni dell’università, un significato interiore più profondo del perfezionamento professionale, o anche di quello derivante dal turismo colto di cui pure è partecipe. Si forma in lui la coscienza del viaggiatore, fatta di esplorazione esteriore ma anche di invenzione di sé nei posti che si visitano, nei paesaggi che si interiorizzano fino diventare un’abitudine intima. Anche così si cresce, affinando la propria capacità di comprensione empatica del mondo e diventando giorno dopo giorno ciò che si è: anche così, o forse proprio così, nel caso di Agnoloni, si diventa scrittori. 

Note di lettura: “Floridiana” di Emanuele Pettener.

17 novembre 2021 by


pettener emanuele - floridiana

“Strappatemi il cuore e mettetelo sulla pagina bianca (attenzione alle sbavature di sangue). Sono un uomo vecchio e, improvvisamente, celibe. Single. Ho lasciato mia moglie a settantun anni, dopo quarantotto di matrimonio, senza contare quelli di fidanzamento. Poh! Il gesto più coraggioso della mia esistenza. Amo mia moglie. Ma mia moglie non mi ama, non mi ha mai amato, almeno negli ultimi quarantott’anni, era giusto farglielo notare, sono stanco e così – dopo l’ultima delusione – le ho detto addio.” 

L’ incipit di Floridiana, il romanzo di Emanuele Pettener recentemente uscito presso Arkadia, immette il lettore direttamente al centro tematico della vicenda narrata, preannunciando fin dalle prime righe un ritmo narrativo notevole,  che si manterrà senza particolari ripiegamenti a sostenere brillantemente l’intera vicenda. 

Tom vive agiatamente la sua vita di dentista in pensione a Boca Raton, in Florida, tra ville con piscina, giardini e barche alla fonda nel vicino porticciolo. Ha una moglie, April, docente universitaria, affascinante, intelligente e che continua a considerare il bellissima a dispetto dell’età, e quattro figli ormai adulti. Ma l’apparenza inganna. Tom ha convissuto con la strisciante frustrazione di non essere riuscito a diventare ciò che più sentiva di essere, uno scrittore, avendo troppo a lungo rimandato di impegnarsi a fondo (a parte la gioia – soprattutto la prima – incommensurabile, della sporadica pubblicazione di qualche racconto). Quando sul peso di questi rimpianti comincia ad incombere una sopraggiunta consapevolezza che la moglie non solo non lo ami più, ma non lo abbia mai amato, decide di dare una svolta alla sua vita, lasciando la sua casa e rintanandosi in un motel. Una serie di indizi lo induce a sospettare che la moglie April abbia una relazione con Juan, suo antico compagno di un corso di scrittura creativa, riapparso dal passato come ginecologo di April. Decide allora, con tre amici più o meno suoi coetanei, di aggregarsi ad un gruppo di studenti di italiano per una vacanza-studio a Venezia. Qui l’approfondimento dell’amicizia con Laura, una ragazza argentina, allargherà l’ambito delle sue riflessioni sul tempo fino ad allora vissuto, finché anche le ombre che oscuravano il rapporto con la moglie verranno dissipate.

La scrittura di Pettener rende al lettore un’impressione di complessiva leggerezza, di non definitività delle situazioni narrate. Ma leggerezza in Floridiana non significa affatto superficialità. In un rutilante avvicendarsi di metafore e suggestioni immaginifiche, di straordinarie descrizioni paesaggistiche e di di dialoghi scoppiettanti, Tom ragiona su se stesso, riepilogando momenti e scelte che, a posteriori (ah! averlo compreso prima!) si rivelano svolte esistenziali, che non consentono ripensamenti. Ma i rimpianti in cui si dibatte Tom sono in fondo anche segni di una vitalità che si mantiene intatta negli anni, di una capacità di desiderare e di progettare che non si cura del fluire del tempo e del suo progressivo consumarsi. Tom vive così l’incertezza di una discrasia esistenziale che caratterizza i nostri tempi, il contrasto tra una senilità esteriore ed il prolungato permanere, senza mutamenti sensibili, della personalità del giovane che si è stati. Di qui il suo trascorrere quasi affannoso tra le attività più diverse, dalla serata al night in cerca di ragazze ( e quali ragazze troverà…) al corso di italiano, all’immediata adesione alla proposta di entrare nel gruppo in partenza per Venezia, inizialmente composto di studenti che potrebbero essere abbondantemente suoi figli. Di qui anche lo sfogarsi delle pulsioni in ricorrenti fantasie erotiche, ma anche in un inesausto ripensare a situazioni passate, forse per porre loro rimedio, forse per trarne ispirazione. 

Finezza psicologica e maestria descrittiva: nella controllata modulazione di una scrittura assai brillante, utilizzata per sondare i caratteri dei personaggi a profondità psicologiche inaspettate, risiede non solo la principale ragione di dignità letteraria del libro, ma anche l’evidenza della consapevole sapienza narrativa dell’autore.

Note di lettura: “Il cannocchiale del tenente Dumont” di Marino Magliani.

7 settembre 2021 by

        

Il cannocchiale del tenente Dumont - Marino Magliani - copertina

Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma, mese di fiorile, anno CCXXIX) di Marino Magliani:  ecco finalmente un libro che conferma che ci si può ancora appassionare, che l’entusiasmo per ciò che si legge non è sensazione legata solo alla stagione lontana delle prime letture, quando occhi e intelligenza sono ancora esenti da intellettualismi e da ardite sovrastrutture mentali di critica letteraria, e quindi capaci di intercettare il piacere sorgivo di “essere dentro” il libro.

         Si tratta di un romanzo storico dalla robusta intelaiatura, ambientato in epoca napoleonica, che prende avvio da una impersonale Notizia relativa alla costituzione, da parte di Napoleone, di una Commissione di indagine sulle diserzioni verificatesi durante la campagna d’Egitto, nella quale figura anche il medico di origine olandese Johan Cornelius Zomer. Tre soldati della spedizione, il capitano Philippe Lemoine, il tenente Gerard Henri Dumont e il soldato basco Bernardo Gilbert Urruti hanno, come molti loro commilitoni, scoperto come lenire le angosce della guerra consumando una sostanza che gli indigeni chiamano hascisc, considerata dal dr. Zomer un viatico alla diserzione. Per sperimentare questa teoria, vengono perciò sottoposti a stretta osservazione. Imbarcatisi sulla nave Carrère per rientrare in patria, vengono destinati all’armata che partecipa alla campagna d’Italia. I tre, prevedendone erroneamente un esito catastrofico, disertano effettivamente durante la battaglia di Marengo, non a caso definita “la battaglia che alle cinque era persa e alle sette era vinta”.

            Con la fuga non cessa la sorveglianza, coordinata da Zomer, anche tramite un incaricato di nome Pangloss, che per mezzo di una rete di emissari, spie e informatori locali, riuscirà a rendere puntualmente conto dei movimenti dei tre fuggiaschi.

          Inizia una lunga marcia nell’interno della Liguria, con frequenti attraversamenti di improbabili confini che la bufera napoleonica aveva appena tracciato tra il Piemonte meridionale, la Liguria ed il Nizzardo. Il piano consiste nel raggiungere Porto Maurizio, per trovarvi un imbarco per qualche destinazione remota (Cipro, ma in ultimo si profila anche l’Argentina) dove ricominciare una nuova vita. Allo scopo di tenersi accuratamente lontani da ogni contatto con gli abitanti dei luoghi che percorrono, Lemoine, Dumont e Urruti peregrinano tra monti, pascoli e bivacchi, schivando transumanze e casolari di contadini, ma anche lebbrosari e pattuglie di eserciti tra loro nemici, che continuano in forma diversa ciò che Marengo non aveva concluso. Conducono una vita di stenti, si cibano di ciò che riescono a trovare nei boschi o a sottrarre ai pastori o ai contadini, dormono all’addiaccio. Smettono abbastanza presto di fare uso dell’hascisc, e a mano a mano si abituano alla loro nuova condizione di disertori, iniziano a conoscere il paesaggio, e non solo si adeguano alle sue forme, ma anche le adeguano al fondo oscuro delle loro riflessioni sul proprio destino.

         Li aiuta il cannocchiale del tenente, attraverso il quale scrutano incessantemente l’orizzonte sempre circoncluso da coste di colline, meraviglioso per il paesaggio da cui è colmato, ma anche sempre troppo angusto per le loro aspirazioni di libertà, e soprattutto per il loro interrogarsi sul futuro.

         L’occhio, attraverso il cannocchiale, contempla un paesaggio monotono nel suo splendore, se non per il volgere lento delle stagioni, e non incrocia quel confine che  i tre sperano di attraversare. E’ vincolato al pezzo di terra o di bosco su cui lo strumento è puntato, ma la mente dei soldati aspira ad una visione che è altra (metafora piuttosto trasparente di una specifica condizione umana di latente inquietudine esistenziale): il mare, sempre troppo lontano, ombra irraggiungibile, ma presente come visione: “il capitano diceva che non importa se il mare non appare, in Liguria; c’è lo stesso, dappertutto, è incollato alle foglie delle palme, alle pietre”. La dicotomia tra occhio e mente risalta così nella disarmonia struggente tra la visione a cui i tre anelano e la relativa immobilità del presente.

         Ed in vista del mare arriveranno, guidati da Lemoine, che, per aver combattuto nella zona qualche anno prima, ostenta una sicura conoscenza dei luoghi, espressa a volte in forme oscillanti tra il sentenzioso ed il visionario. Un segreto desiderio lo anima, forse Urruti lo conosce, ma il tenente Dumont ne resterà estraneo per tutto il viaggio. Al progressivo diminuire della sua lucidità corrisponde una crescente disponibilità di Dumont all’osservazione meticolosa del paesaggio, fino a riempirsene gli occhi, e naufragare in esso, nella tensione di cogliere ogni possibile significato da ogni suo infinitesimale elemento.

            Alla fine, la vicenda si dipanerà, per progressive accelerazioni, ci saranno conti da saldare, vite da recuperare, sentimenti da coltivare con cura: il tempo delle vicende umane scorre a velocità proprie e non prevedibili, diverse da quelle che disciplinano lo scorrere delle stagioni sulle aspre alture liguri, e ognuno dei tre soldati incontrerà un destino diverso.

         La storia ci viene consegnata come complesso narrativo originato da più fonti: la  “Cronaca di una diserzione” è il racconto della diserzione di Dumont, Lemoine, Urruti, arricchita dalle “Carte del dottor Zomer”, in forma di appunti e di epistolario; seguono “La Cronaca di Baldiueri”, personaggio dalla identità non dichiarata, ma facilmente smascherabile, e in chiusura, un “Taccuino del dottor Zomer”.

         La composizione del tessuto del romanzo, fondata com’è su documenti così eterogenei, contribuisce a rafforzare la verosimiglianza della storia narrata, ancorandola ad elementi storici (o parastorici). Unitamente all’uso del presente, ne facilita anche in via indiretta l’attualizzazione, consentendo una lettura in filigrana che supera l’ambito cronologico. Non si tratta tanto della diserzione, presumibilmente traslabile ai nostri giorni come tentazione di abbandonare schieramenti politici e culturali che non colmano le richieste di senso che i tempi sollecitano. Si tratta anche della facoltà di traguardare oltre un destino collettivo in cui pare percepirsi, allora come oggi, l’ineludibilità di un naufragio imminente.

         Ma più che per gli aspetti strutturali che lo caratterizzano o per gli itinerari interpretativi che suggerisce, il Cannocchiale impressiona per potenza di scrittura e per finezza stilistica. Magliani, infatti, marchia a fuoco l’immaginazione di chi legge, donandogli una storia epica certo non così consueta nella nostra narrativa contemporanea. La storia dei tre disertori è avventura pura, quella che toglie il fiato e occupa ogni aspettativa sul domani, e coinvolge tutte le risorse fisiche, ma anche e soprattutto psicologiche, di coloro che la vivono. Per Magliani, così come per Conrad, l’ avventura non è fine a se stessa, gusto del rischio o senso della sfida. E’, invece, occasione di svelamento di se stessi in un aspro confronto con il mondo, rivelazione esistenziale di parti di sé nascoste nel profondo. Ai tre soldati la lunga cavalcata sui monti dell’interno ligure offre il destro per aprirsi sulla loro nuova condizione di disertori, che assume significati che trascendono l’episodio contingente: “perchè disertore non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare è qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera. Un grado. A uno dovrebbero scriverlo sulla pietra. Gerard Henry Dumont. Disertore”.

         “Disertore non significa mica sbandato”: certamente è così, se oltre alla sopravvenuta insopportabilità dell’orrore della guerra, il vagabondare dei tre fuggiaschi è sostenuto dall’anelito ad una sperata nuova tollerabilità del vivere, da raggiungere, alla maniera dell’hemingwayano tenente Henry, attraverso un addio alle armi personale, come se fosse mai possibile stipulare una qualche forma di pace separata.

         Nel Cannocchiale colpisce l’equilibrio assoluto raggiunto tra l’oltranza descrittiva e il respiro epico della narrazione. La straordinaria limpidezza di scrittura di Magliani riesce a far vivere il paesaggio, gli attribuisce misteriosi rimandi  E’ evidente lo sguardo al Biamonti maestro di descrizioni di paesaggi liguri (ma anche a tratti al Boine estimatore del valore non solo estetico ma anche e soprattutto etico degli uliveti liguri). Rimane comunque ferma l’attenzione alla storia narrata, in Biamonti a volte poco più di un pretesto per dire altro; per dire le radici di un uomo nel suo mondo, la capacità di trarre dalla terra dove si nasce i modi di sentire la vita che ci circonda e nella quale siamo immersi.

         Qui c’è anche la perfezione del meccanismo narrativo, che attrae e stupisce,  che è costruito sul poco, ma che ad ogni pagina si rinnova, propone svolte nel racconto, a volte minime, a volte perfino difficilmente distinguibili.

         D’altro lato, in Magliani il paesaggio non può segnare i caratteri dei protagonisti, come in  Biamonti: nessuno di loro lo ha vissuto nell’infanzia, nessuno ha origini familiari nei luoghi narrati. Piuttosto, qui il paesaggio viene progressivamente abitato dai tre fuggiaschi, che ne divengono sia osservatori via via sempre più attenti, sia veri e propri elementi costitutivi, alla stessa stregua dei pastori e dei contadini che lo popolano, assorbendone gradatamente l’essenza aspra e scontrosa. Qualcosa di vagamente simile sperimenta anche l’ussaro Pardi di Giono, nel suo vagabondare per terre non distanti da quelle descritte in questo romanzo.

         Ed allora il paesaggio diventa desiderio, emozione, dialogo: “Un vapore annunciava qualcosa, e dietro il buio li aspettava l’aurora degli ulivi. Sono di un muschio azzurro e coprono le fasce fin sui costoni di fronte. Il mare non c’è nemmeno oggi,  in qualche  modo le onde degli alberi sostituiscono il contraltare liquido. Risaltano  strutture di diamanti, sentieri, crepe, da cui emergono gruppi di tetti di ardesia. Al mare degli ulivi manca solo il mare, ed è davvero come se fosse nell’aria, nei colori.”

         Il paesaggio, in Liguria, come insegnano anche alcuni tra i suoi autori più illustri frequentati da Magliani, forma l’uomo che lo abita: ”Qui la vita è mica nient’altro, compimento delle stesse cose severe e sofferte, un’unica attesa, in mattinata s’aspettano le campane di mezzogiorno, la sera quelle dell’Ave Maria, e il resto si fa fatica, preghiera da buio a buio. Poi a un certo punto le mulattiere assomigliano a colonne di formiche ed esce la luna”.

         Più passa il tempo, più la natura pare compassionevole verso i fuggiaschi: “lo spettacolo della natura, fin su per le fiancate, è in ciò che manca: il colpo di luna sulla rugiada; e in ciò che si sente: il filo d’acqua del corso e la brezza e poco lontano le rane…I giorni dell’attesa non si ripetono come il resto, non si danno il cambio, è solo come se allungassero un rantolo. Se sommassero paure”.

         Anche dal mare, finalmente visibile in lontananza, possono echeggiare emozioni umane, consentanee al momento vissuto: “…lo stesso avviene al largo: la pelle del mare si chiazza di terra che sale dai fondali e si sgretola dagli scogli, raccoglie i colori delle palme e degli ulivi, e delle dolcezze dei dossi prativi, delle sabbie. Della noia.”

         Magliani concentra l’attenzione sul singolo gesto, traendone significati che superano l’immediato. Il carattere dell’uomo è nella sequenza di gesti che compongono il suo agire. Magliani si compiace del gesto, vi si adagia, nella sua curvatura individua a volte una sicurezza, a volte un modo di esporre se stessi. Stare dentro il gesto è come stare dentro la vita che ci tocca, espletare un destino. “Tornati al bivacco,  Urruti affila la baionetta sulla pietra di cote, si avvicina alla riva e si rasa alla bell’e meglio. Gli stracci di divisa cantano, le labbra sempre riarse, e la ferita alla fronte che non secca, ma lui si rade lo stesso regolarmente, è la prima cosa che fa quando si fermano su una riva. Lemoine si sveglia: “le tracce della rassegnazione, basco, non le cancella una barba fatta.”  C’è,  a volte, un gesto che ci definisce, che supera il momento contingente in cui avviene, che, nella memoria altrui, può proiettarci oltre l’oblio cui siamo destinati. Per il tenente Dumont arriva quando consegna l’ultimo bottone della sua divisa: “(il bambino) se ne andò che i licheni dormivano ancora sotto la neve, e quando lo seppellimmo nel luogo recintato e pieno di crocette che l’aspettava, prima di coprirlo con la terra nera che nella notte avrebbe accolto altra neve, vidi Enrico chinarsi sulla piccola morte, mettergli in mano il bottone, e stringergli le dita.”  Anche noi, come l’autore, vorremmo credere che sia lo stesso bottone ritrovato due secoli dopo di cui abbiamo notizia dall’elenco iniziale dei materiali che hanno costituito questo racconto.

         Il cannocchiale del tenente Dumont, nonostante il fatto che la storia si dipani attraverso un percorso di avventure su sipari ottocenteschi, riesce a comprimere al minimo possibile la distanza che separa il lettore dalla materia narrata, dandoci contemporaneamente notizie, in via indiretta, del nostro vivere e suggerendo modi di leggere il mondo in cui viviamo: i paesaggi, in primo luogo, ma anche il modo di tentare di decifrare natura e stati d’animo, e di capire se e ed in quali circostanze sia possibile definire un continuum tra questi due elementi tra cui si aggirano i nostri sguardi, quello interiore e quello  esteriore. Per l’ampiezza del respiro narrativo, per l’opulenza degli spunti che ne derivano, per la straordinaria capacità evocativa di pagine che affastellano colori suoni sensazioni di un tempo che non ci appartiene ma che inopinatamente ritroviamo come nostri, Il cannocchiale del tenente Dumont può iscriversi a pieno titolo nella ristretta categoria dei romanzi imprescindibili, quelli in grado di ampliare, anche in modo appena percettibile, gli orizzonti che delimitano i nostri sguardi  di lettori.

Note di lettura: “Dante in love” di Giuseppe Conte.

25 marzo 2021 by

di Luigi Preziosi

Giuseppe Conte con questo suo Dante in love (Giunti editore, Firenze, 2021)rende al Padre della nostra lingua un omaggio tra i più originali tra i tanti che questo anno ricchissimo di rivisitazioni ci propone. “Che cosa è questa poesia (della Commedia)? È la vita umana guardata dall’altro mondo”. Potrebbe questa affermazione di Francesco De Sanctis essere all’origine dell’opera di Conte? Solo un’illazione, certo, ma la suggestione desanctisiana ben s’attaglia all’intuizione su cui Conte fonda questo suo libro, non esattamente definibile nel genere (fantastico, metastorico, storico – filosofico?), indeterminato nella misura (romanzo breve, racconto lungo), e perfino nella natura ibrida, originata dalla presenza nella seconda parte di inserzioni saggistiche illuminanti non solo per la comprensione piena della parte narrativa, ma per la lettura che un poeta del nostro tempo dedica all’opera dantesca.

L’azione si svolge tutta oggi, 25 marzo 2021.

Conte immagina che l’Altissimo, ricevendone l’anima in Cielo, disponesse che, ogni 25 marzo, giorno dell’inizio del viaggio ultraterreno di Dante, l’ombra del poeta facesse ritorno a Firenze dal tramonto all’alba, per suggerne fascino e rimpianto e ogni volta rinnovata meraviglia, finché non tornasse ad amare una donna in carne ed ossa, essendone, a sua volta riamato: “Hai scritto di aver viaggiato con il tuo corpo e le tue ossa tra le ombre dell’al di là fino al Paradiso, ora farai il viaggio opposto, viaggerai come ombra tra gli uomini in carne ed ossa…”; questo può finire ad un patto: “che una donna che tu amerai corrisponda il tuo amore”. Ben singolare contrappasso, per chi ha proclamato l’ineluttabilità della sentenza per cui “amor che a nullo amato amar perdona”.

Questa è dunque la settecentesima notte: Dante la racconta ad un ignoto interlocutore rivolgendoglisi con quel “tu” così usuale nelle sua cerchia di amici poeti, indirizzato di volta in volta o alla propria ballatetta, alla maniera di Guido Cavalcanti, o anche agli amici poeti, come Lapo e lo stesso Guido.

Da allora, ogni ritorno sulla terra è un ritorno a Firenze, cuore del suo mondo, dove staziona ogni notte davanti al Battistero, cuore di Firenze.

All’ombra del suo bel san Giovanni ha visto mutare di anno in anno costumi, oggetti quotidiani, comportamenti, e, soprattutto, la lingua, “una lingua buona come nessuna altra al mondo per contenere tutto. Tutto. Le invettive più violente e le preghiere più dolci. Le liti più feroci, più turbolente, e l’ascesa calma verso dove tutto è pace e luce.” Ma, soprattutto, nel suo soggiorno annuale sulla terra si è dedicato alla ricerca, apparentemente priva di speranza per chi ha sostanza di ombra invisibile agli umani, di una donna non solo da amare, ma capace di ricambiare il suo amore. Impresa apparentemente priva di speranza, ma certo capace di suscitare antiche emozioni per chi, in vita, ha sentito la passione amorosa con quel vigore che traspare evidente dalle sue pagine: “la passione d’amore per me è stata la prima, e col tempo ho riconosciuto che è stata la più giusta e la più vera. Cosa credi che abbia fatto, queste settecento notti?”

Nelle ultime visite incrocia sulla soglia del Battistero un giovane vagabondo, al quale di tanto in tanto una ragazza porta qualche genere di conforto. La stessa ragazza tenta invano di aiutarlo quando la polizia lo ferma, accusato di furto in un bar nelle vicinanze. Dante la osserva meglio, comincia a scrutarne il volto, tentando contemporaneamente di indovinarne qualche pur minimo tratto del carattere. La rivede nel giro di pochi minuti per tre volte: tre volte, come gli abbracci tentati durante il colloquio con Casella, a rinnovare nel tempo presente quel senso di incolmabile distanza tra viventi e defunti che nell’incontro in Purgatorio gli aveva straziato il cuore.

Tanto basta per convincerlo a lasciare l’ombra rassicurante del Battistero per seguire la ragazza attraverso i vecchi quartieri di Firenze. Non c’è un opalescente orizzonte limbale, in questa sera di fine marzo, piuttosto un senso di trepida attesa primaverile, per ciò che può essere ancora, nonostante i limiti umani che permangono oltre la morte.

La vede consolare un’amica, e nel loro dialogo ne scopre il nome, Grace (Grazia…), e poi anche respingere un’aggressione di due malintenzionati, fare una sosta nel dehors di un bar, dove l’ombra del poeta sfiora la mano della ragazza con la sua. La segue fino al suo appartamento, ed assiste ad un colloquio con un corteggiatore di assai scarsa sensibilità, che viene poi allontanato. Nel breve volgere di una sera di inizio primavera è nata ed è cresciuta, tumultuosa come allora, l’antica e sempre uguale a se stessa passione d’amore: “Avrei bisogno, mio Dio, di avere almeno una voce che risuona…per dire: Grace, sono io che ti tenevo la mano sulla tua, poco fa, sono io che ti amo”.

Infine, Grace prende un libro, iniziando a leggere ad alta voce. È il Canto V dell’Inferno, e quando chiude il libro, in preda ad una sottile commozione, bacia l’immagine di Dante sulla copertina. Dante è dunque di nuovo riamato, in una forma del tutto immateriale, per il tramite dell’emozione che scatena la poesia.

Si conclude così il patto con l’Altissimo? Dante è sciolto dal pesante dovere del perenne ritorno? Per la prima volta in settecento anni, il poeta non sembra convinto di tornare al Paradiso che l’attende, destinazione ultima del suo viaggio oltremondano, tanto da elevare al cielo una imprevedibile preghiera: “Lasciami così, Signore dell’Universo, a fianco di questa giovane straniera che dorme, per amarla come può amare un’ombra innamorata”. Ma è un attimo. Dante si abbandona alla volontà del Signore dell’universo, fiducioso che la scintilla d’amore misteriosamente suscitata in Grace valga a porre fine al suo peregrinare. Qualcosa, comunque, di questa notte del 25 marzo 2021 resterà:” non rimpiangerò da Lassù la mia vita da ombra, ma Grace, l’amore impossibile e meraviglioso con lei, come farò a non rimpiangerlo…”.

In Dante in love la passione d’amore occupa l’intera narrazione, brucia ogni altra prospettiva, si fa tensione che condiziona ogni gesto ancora da compiere. La smisuratezza della personalità di Dante, capace di ogni sentimento al grado massimo, non viene colta come possibile spunto per la monumentalizzazione del personaggio (che, data la sua statura, sarebbe scontata). Si evidenzia invece una sconfinata disponibilità ad amare, a lasciarsi pervadere dall’amore per poi restituirlo per il tramite della poesia a chiunque sia in grado di intenderlo, attraverso le relazioni che misteriose si instaurano tra chi ha calcato questa terra, e che sono capaci di attraversare i secoli.

L’emozione, su cui si gioca tutta la vicenda, si esprime con una scrittura briosa, amichevolmente colloquiale, ma anche fortemente evocativa e sapientemente qua e là riecheggiante atmosfere dantesche. Il tumultuare del cuore suggerisce momenti di forte concitazione espressiva. L’assoluta prevalenza attribuita ai sentimenti, che nella notte raccontata si scatenano senza limiti, rivela che Conte, con felice anacronismo, legge Dante alla maniera dei romantici del nostro Ottocento, che ne esaltavano la sapienza nel rappresentare sia la vastità che l’intensità della passione. Del romanticismo ripropone anche l’attenzione alle suggestioni del mito, regalandoci, oltre alle tante che già aleggiano intorno al poeta sommo, la leggenda dantesca che ancora mancava.

“Nessuno è esente da una qualche forma di male profondo”

9 gennaio 2021 by

Johann Heinrich Füssli

di Piero Melati

[Questo articolo è apparso ne il Venerdì, supplemento del quotidiano la Repubblica, l’8 gennaio 2014. Qui sopra: Convocazione satanica, di Johann Heinrich Füssli].

Il padovano Giulio Mozzi è lo scrittore dei record. Ha appena esordito nel romanzo a “soli” sessant’anni. E l’ha fatto con 355 pagine costate ventidue anni di lavoro. Un libro infinito (e atteso dagli addetti ai lavori). In gestazione già nel 1998, è stato interrotto nel 2002 e poi nel 2018, infine concluso nella primavera del 2020, «in due mesi trascorsi quasi in sogno». In precedenza Mozzi aveva scritto racconti e poesie, ma mai la “grande opera”. Lo conoscono tutti, tra coloro che bazzicano editoria e festival letterari: ha pubblicato con Mondadori e Einaudi, dal 1993 è stato consulente delle principali case editrici e, a sua memoria, ha reso libri «un paio di centinaia» di manoscritti altrui. È considerato uno degli “editor” migliori. Tanti critici hanno scritto su di lui con fervore. Gli allievi della milanese Bottega di narrazione, che dirige dal 2011, si dicono “mozziani” senza vergognarsi, come iniziati a un culto misterico. Ultimamente ha pubblicato per Sonzogno – con buon successo di vendite – due “manuali oracolari” per aspiranti autori e poeti (uno con Laura Pugno), mutuandone i titoli dall’Oràculo dello spagnolo Baltasar Gracián). Sì, avete capito bene: “oracoli” per letterati principianti. Apri una pagina a caso, nel momento del bisogno creativo, e tutto ti verrà svelato. Una provocazione? Ce ne sarebbero altre, ma qui limitiamoci alla più scabrosa: nel suo «romanzo infinito», dal titolo Le ripetizioni (Marsilio), in libreria dal 14 gennaio, Mozzi ci consegna la scena d’orrore più estrema mai scritta, a memoria di molti, in un testo letterario. Siamo dalle parti dei cosiddetti romans-charogne del gotico infernale di fine Settecento, quello caro a Mario Praz. Un vero pugno nello stomaco, dice chi l’ha sbirciato. «Ho fatto leggere le bozze in anteprima ad alcuni amici» rivela l’interessato. E che ne pensano? «C’è chi non esce da tre giorni e chi non riesce ancora a parlarmi. Speriamo bene» sussurra. Un caso spinosissimo.

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“La scena di orrore più estrema mai scritta”

8 gennaio 2021 by

Nel Venerdì, supplemento del quaotidiano la Repubblica, Piero Melati – che ringrazio – dedica due pagine al mio romanzo Le ripetizioni, che l’editore Marsilio manderà in libreria il 14 gennaio prossimo.

Cronaca di un romanzo, 3

7 gennaio 2021 by

di Giuio Mozzi

L’incontro con il quadro di Claudio Laudani Discorso attorno a un sentimento nascente (di cui ho raccontato qui) non fu privo di conseguenze. Da qualche tempo andavo scrivendo nel mio diario in rete (oggi perduto) delle storielle nelle quali appariva una (prima) trasfigurazione di Claudio, che chiamavo Grande artista sconosciuto (perché Claudio è secondo me un grande artista, ed è effettivamente sconosciuto). Erano delle storielle buffe – credo, spero -, comunque certamente non serie. Ma dopo aver visto quel quadro provai a scrivere qualcosa di veramente serio su Claudio (la seconda trasfigurazione). Uscirono così dei capitoli (in prima persona) che integrai a quanto era rimasto dell’Introduzione ai comportamenti vili, e intitolai il tutto Discorso attorno a un sentimento nascente. L’idea era di continuare a presentare il protagonista – che ora, come già ho detto, portava il mio nome – come un personaggio un po’ abulico, ma la cui vita veniva sfiorata da una quantità di vite straordinarie (nel bene e nel male). Ne avevo in mente, di vite straordinarie. Il primo episodio di “sfioramento” concerneva il Terrorista Internazionale. Il cui corpo – questo era il nocciolo dell’episodio – non recava nessuna traccia di ciò che egli era stato.

Questo fu il primo spostamento. Dalle “vite straordinarie” alle “vite che non lasciano traccia sui corpi di chi le porta”. Il tema mi affascinò per un po’. Nelle prime pagine del Jean Santeuil (così è intitolato, credo dai filologi, il primo tentativo di Marcel Proust di scrivere il suo romanzo) il protagonista, appunto Jean, incontra uno scrittore famoso, da lui molto ammirato: e si stupisce di trovarlo anonimo, quasi dozzinale, completamente diverso dall’artista che aveva immaginato a partire dai libri (cito a memoria e spero di non sbagliare). Così noi spesso ci stupiamo nell’incontrare persone che, per così dire, non assomigliano alla loro vita (o almeno: non lasciano trasparire quella che noi immaginiamo essere la loro vita vera). Ma la vita, in effetti, che tracce lascia sul nostro corpo? In tutti noi, credo, giace un’idea un tantino ottocentesca, in un certo senso lombrosiana (un lombrosismo rovesciato), per cui se una persona ha attraversato certe esperienze particolari, o addirittura eccezionali, o è stata capace di creare grandi opere, o di commettere grandi delitti, eccetera, di tutto ciò nel suo corpo una traccia *deve* esserci.

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Cronaca di un romanzo, 2

18 dicembre 2020 by

di Giulio Mozzi

Dicevo: “Stava per accadere un incontro importante. Molto importante”. Non mi ricordo esattamente il giorno e l’ora e il punto, e essere sinceri nemmeno l’anno (direi il 2000 o giù di lì), ma un bel giorno mi ritrovai a casa di Claudio Laudani, pittore. Lo guardavo lavorare. Claudio aveva preparato un fondo scuro, petrolio, su una tavola di compensato; e in quel momento ci stava facendo sgocciolare sopra degli altri colori: rosso, giallo, non so più se altro. Faceva colare il colore, muoveva la tavola, faceva andare il colore di qua e di là. Ora, io sono sicuro che se facessi qualcosa del genere riuscirei al massimo a ottenere un insieme di macchie – o, più probabilmente, un pastrocchio confusamente monocromo. Invece Claudio, con questa tecnica – lui la chiama “dripping”, appunto sgocciolamento – riesce a fare cose che a me sembrano meravigliose.

Quando apparve la figura che vedete qui sotto io uscii di testa. Intanto bloccai Claudio, che stava per fare altri interventi sulla tavola. Gli feci anche delle minacce, credo. Poi cominciai a parlare, e parlai – con Claudio che stava fermo ad ascoltare – per almeno mezz’ora. Poi me ne andai, tutto scombussolato. Qualche tempo dopo (giorni? mesi? e chi si ricorda?) Gualtiero, che di tanto in tanto fotografava i lavori di Claudio, mi fece vedere la fotografia di quella tavola lì; e mi disse che il titolo era Discorso attorno a un sentimento nascente. “Bel titolo”, dissi, “ma è strano: Claudio non dà mai ai suoi lavori dei titoli così”. “Lui dice che gliel’hai dato tu”. Da parte mia, nessun ricordo: e non ho motivi per dubitare della memoria di Claudio o di Gualtiero.

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Cronaca di un romanzo, 1

11 dicembre 2020 by

di Giulio Mozzi

Chiunque si metta in testa di raccontare il modo e la maniera in cui ha scritto il proprio romanzo deve innanzitutto prendere atto dell’esistenza del Romanzo di un romanzo, il libro nel quale Thomas Mann raccontò la genesi del Doctor Faustus: il che significa, prima di tutto, prendere atto della distanza enorme che c’è tra il proprio lavoro e il lavoro di una delle più eminenti personalità della letteratura (e della moralità, direi) occidentale del Novecento. Quindi metto le mani avanti: no, non ho nessuna intenzione di immaginare di essere più di quel che sono – un pover’uomo, come tutti -, e non pretendo nemmeno di raccontare una storia esemplare. Più banalmente: ho sfiancato per più di vent’anni le mie amiche e i miei amici – e i lettori e le lettrici di vibrisse – con la storia di questo romanzo che avevo lì, che di tanto in tanto dichiaravo “in corso d’opera” o “in traiettoria d’arrivo” o addirittura “praticamente finito”, e che regolarmente svaniva dietro ai miei “non sono soddisfatto”, “non mi piace”, “non so come fare a chiuderlo”, e tutte quelle cose là. E quindi offro la mia cronachetta a mo’ di risarcimento per la pazienza che ho chiesta, e di ringraziamento per la pazienza che ho ricevuta. Dunque comincio.

Era il 1998. Avevo appena pubblicato presso Mondadori Il male naturale. Il libro aveva avuto uno strano destino: tiepide lodi da parte della critica, qualche sostanziale stroncatura (un recensore, addirittura, attaccandosi al fatto che in calce a ogni racconto erano indicate le date di inizio e fine di scrittura, lo bollò senz’altro come libro raccogliticcio), e a un certo punto la bomba. Mi chiama una giornalista dell’Adn Kronos, mi dice che un parlamentare ha fatto un’interrogazione parlamentare sul mio libro, e minaccia una denuncia con richiesta di sequestro. Tutto era legato a un racconto, molto breve, due paginette, intitolato Amore, nel quale si descriveva un rapporto sessuale tra un adulto e un bambino (Geno Pampaloni lo definì “crudele e freddo, ma privo di compiacimenti stilistici”). Ci fu un po’ di polverone, ci fu una riunione con qualche strillo in Mondadori, e tutto finì lì (ci fu anche, mesi dopo, anche la risposta all’interrogazione parlamentare, per bocca dell’allora presidente del Consiglio dei ministri Massimo D’Alema: ma ovviamente la cosa non interessava più a nessuno). Non so se effettivamente la denuncia fu mai presentata. Tutta la storia è raccontata in appendice alla nuova edizione de Il male naturale, uscita presso Laurana nel 2012, con una postfazione di Demetrio Paolin.

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Il mio primo romanzo

9 dicembre 2020 by

Mi fa un po’ impressione dirlo così, ma è così: dopo ormai ventisette anni che faccio libri, il 14 gennaio 2021 l’editore Marsilio pubblicherà il mio primo romanzo. S’intitola Le ripetizioni. In copertina c’è il ritratto di un giovinetto, un quadro della cerchia del Giorgione che è conservato a Milano presso il museo Poldi Pezzoli.

Note di lettura: “Marca gioiosa” di Roberto Plevano.

19 novembre 2020 by
di Luigi Preziosi

Marca gioiosa (Neri Pozza editore, 2017, € 18,00) è un libro di cui si può scrivere anche a distanza di tempo dalla sua uscita, prescindendo dalle ordinarie stringenti esigenze di maggior o minore riuscita editoriale. Il suo autore, Roberto Plevano, consegna al lettore un romanzo storico tutt’altro che effimero dalla robusta impalcatura, in cui accanto ad una precisa e circostanziata ricostruzione dei modi di essere dell’epoca di ambientazione, risalta la precisa scansione dei tempi interna alla vicenda narrata, il che è in fondo una delle principali doti che si richiedono al narratore di razza.

La storia si svolge all’inizio del XIII secolo, e si dipana attraverso luoghi e vicende emblematiche dell’epoca raccontata, un Medioevo di indicibili efferatezze e di vertiginose guglie di spiritualità, di carnalità grassa e di sublimazioni del sentimento amoroso.

In Provincia, cioè in Provenza, Amalrico, il giovane protagonista, ritorna al suo paese Bézieres dopo aver studiato presso il dotto magister artium Amalrico (Amalrico di Bène) di Tolosa, per ritrovare il padre barrocciaio e gli amici di infanzia. Ma si scontra con la realtà terribile delle persecuzioni contro i Catari: la crociata contro gli albigesi sta mettendo a ferro e fuoco le campagne e le città. I Crocesignati, preceduti da fama di valorosi nelle crociate in Palestina, si dimostrano nella realtà dei fatti un’orda barbarica, gioiosamente esecutori di quell’“uccideteli tutti: Dio riconoscerà i suoi” pronunciato (probabilmente) dal legato pontificio Arnaud Amaury, in forza del quale si risparmiano il disturbo di distinguere tra cristiani e cristiani, figli tutti dello stesso Dio, anche se non lo sanno più.
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Una buona storia

14 aprile 2020 by

di Giulio Mozzi

Una buona storia è fatta di questo: di un prima e di un dopo. Di un dopo necessitato dal prima, ma anche di un prima necessitato dal dopo. Tanti anni fa, in un bar dalle parti di Macchine – uno degli edifici della facoltà di Ingegneria della mia città, Padova – ebbe luogo una furibonda discussione a causa della morte, avvenuta in circostanze assai improbabili, di una persona a tutti nota – nota a tutto quel pubblico di pensionati impegnatissimi, alle dieci del mattino, nella compulsazione dei giornali e nella verifica di qualità del bianco della casa. Le due fazioni così si dividevano: quella morte, è stata fatalità, o destino? Fatalità (la discussione si svolgeva in dialetto, naturalmente) è il caso; destino è ciò che “sta scritto”. Dopo aver lungamente e duramente discusso, unanimemente i due schieramenti pervennero alla decisione di ordinare dell’altro bianco, e di passare a un altro punto dell’ordine del giorno. Così mi venne riferito: non so se ci fu, nei giorni successivi, un secondo round.

Un sacerdote al quale volli molto bene – è morto una decina d’anni fa – per molti anni frequentò in ospedale un reparto di malati terminali. Erano, all’epoca, soprattutto persone abbastanza giovani, in preda all’Hiv. Una sera, mentre nella sua 126 rossa andavamo da non so dove a non so dove, mi disse: “Andando lì ho capito una cosa. La vita umana non ha senso”. Il che, detto da un sacerdote, potrebbe sembrare a prima vista blasfemo; in realtà è ortodossissimo. Se la vita umana come la conosciamo, se questa vita qui, sulla terra, avesse qualche chance di avere senso, a che cosa servirebbe l’immaginazione di un’altra vita, in un indescrivibile altrove? Dove non ci sarà né morte, né lutto, né dolore e, asciugata ogni lacrima, i nosri occhi contempleranno l’origine e la fine di tutto.

Il romanzo, dico il romanzo così com’è andato assestandosi nelle sue forme e dei suoi modelli dal 25 aprile del 1719 in poi, è in fin dei conti un tentativo di fare a meno del mondo che verrà. Le vite dei personaggi trovano il loro senso, quasi immancabilmente, nello spazio compreso tra la prima e l’ultima parola della narrazione. Dico quasi: perché l’illuministico sforzo, in realtà, non riesce proprio a tappare tutti i buchi. Perfino nei Promessi sposi, scolasticamente spacciato senza esitazioni come “il romanzo della Provvidenza”, nell’ultimissima pagina, nelle ultimissime righe, Renzo e Lucia giungono alla conclusione che “i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani”; o, come si direbbe oggi, “la sfiga non ha regole precise”; e tale conclusione, “benché trovata da povera gente”, pare al narratore “così giusta” da piazzarla lì, alla fine, come “il sugo di tutta la storia” (ed è chiaro che l’ulteriore considerazione, ossia che “i guai, quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”, è biecamente consolatoria).

Peraltro nel corso dell’Ottocento i romanzieri, quasi in massa, caddero in preda a illusioni positivistiche: vedi ad esempio il grande affresco sociale di Balzac o le teorie pseudodarwiniane di Zola (che a Darwin, tra parentesi, avrebbero potuto solo fare ribrezzo). Ma una teoria pseudoscientifica (e vale la pena di ricordare che il positivismo, con tutta la sua idolatrazione della scienza, fu un movimento di pensiero nei fatti antiscientifico) o l’ambizione di un “affresco sociale” (il “marxismo senza Marx”, cioè senza filosofia, di Balzac) non riescono, non ce la fanno, a prendere il posto di un’immaginazione religioso-cosmologica del mondo.

I grandi romanzi modernisti, o acquisiti nel modernismo (è il caso del Moby-Dick di Melville), sono poi o romanzi sostanzialmente mitologici (es. Ulisse di Joyce, Giuseppe e i suoi fratelli di Mann) o romanzi in qualche modo mistici (Doktor Faustus ancora di Mann, L’uomo senza qualità di Musil, I sonnambuli e La morte di Virgilio di Hermann Broch). Poi, certo, c’è Proust: che è Proust, e non mi pronuncio.

In mezzo tra questi e quelli ci stanno, giganteschi, Dostoevskij e Tolstoj: due romanzieri intensissimamente religiosi. L’ultima pagina del romanzo più bello di sempre, I fratelli Karamazov, ovvero l’ultima pagina di Dostoevskij, mette in scena uno sperdutissimo Alëša Karamazov che – al pari dei fratelli Ivan e Dimitri -, nonostante la sua profonda fede non riesce a trovare un senso alla propria vicenda, alla vicenda familiare – quindi a nulla. E Tolstoj scrive un intero romanzo, e pure bello lungo, Guerra e pace, per dimostrare che il lavoro degli storiografi è insensato, perché la vita umana è governata dal caso: peraltro le pagine in cui ci si impegna di più (quelle su Napoleone, l’epilogo “filosofico”) sono di una bruttezza indicibile, mentre laddove rimane un “senso magico”, per non dire “religioso” della vita la bellezza esplode impareggiabilmente: il ballo di Nataša, le nuvole in viaggio osservate dal principe Andrej ferito e a terra…

E’ una lotta, una lotta. Come tra le due fazioni al bar: sempre presi tra un’idea di destino – qualcosa su di noi, su tutti noi e su ciascuno di noi, “sta scritto” da qualche parte – e un’idea di fatalità – nulla ha senso, il caso domina. Questo fa, chi racconta storie: entra in questa lotta.

E questo, vi piaccia o no, è un post pasquale.

Una buona storia è fatta di questo: di un prima e di un dopo. Di un dopo necessitato dal prima, ma anche di un prima necessitato dal dopo.

(Fonti non esplicitate: storia del bar, mio fratello Pietro. Sacerdote: don Franco Geronazzo (https://tinyurl.com/vy6h65s). “Apocalisse”, 21: 3, 4 + preghiera eucaristica III. Data di pubblicazione del “Robinson Crusoe”: Wikipedia. Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” (https://tinyurl.com/sj9xek4). Emile Zola, “Il romanzo sperimentale”, Pratiche 1992. Karl Marx e Friedrich Engels, “Scritti sull’arte”, Laterza 1976. Aki Kaurismaki, “Nuvole in viaggio”. Andrea Mantegna, “Cristo morto”; Piero della Francesca, “Resurrezione”).

Dieci domande che si stanno facendo gli editori in queste settimane

6 aprile 2020 by

di Giulio Mozzi

1. Nel mese di febbraio ho fatturato tot, e grazie a questo tot la banca mi ha concesso, usabile nel mese di marzo, un fido pari a tot% di tot. Nel mese di mazo ho fatturato in tutto 96 euro: che fido avrò, in questo mese di aprile? Esisterà ancora, nella lingua italiana, la parola “fido”?

2. In realtà, ormai è il giorno 6, e dalla banca non mi hanno ancora telefonato: che siano tutti morti? O che mi abbiano dato per definitivamente morto? Non so quale sia l’ipotesi preferibile.

3. L’unico modo che ho per emettere fatture, e così ottenere un po’ di fido – almeno da pagarci, in parte, gli stipendi – è pubblicare dei libri. Ma il distributore accetterà di vedersi arrivare dei libri, e una fattura? O non potremmo metterci d’accordo, e io per intanto gli mando la fattura, e quanto a stampare davvero i libri, si vedrà?

4. E tutte le forniture dirette che ho fatto alle librerie indipendenti. Non grandi cose, ma insomma. Non una che abbia pagato. Devo attaccarmi al telefono. Ma cosa mi risponderanno? Mi risponderanno? O saranno tutti morti, malati, reclusi? O accamperanno chissà quali ragioni, peraltro buonissime? O finiremo, al telefono, a piangerci addosso entrambi?

5. Comunque, tutta questa storia finirà. Finirà, vero? E’ vero che finirà? Ditemi, c’è qualche segnale credibile di un avviamento, magari lento lento, verso una fine? Finirà magari a maggio? A giugno? A luglio? Ditemi che finirà!, vi prego.

6. Che poi: che cosa avrà voglia di leggere, la gente, quando tutto questo finirà, o piuttosto quando tutto questo comincerà a finire? Vorranno leggere cose serie, o cose fatue? Vorranno distrarsi, non pensare più alle brutte cose, o vorranno coltivare un livello superiore di consapevolezza acquisito durante la reclusione?

7. Che poi, non so, facciamo un appartamento di due camere e cucina, una coppia monoreddito e mezzo con lui vabbè, facciamo cassintegrato, lei che lavoricchia da casa, due bambini… Che razza di livello superiore di consapevolezza avranno avuto il tempo di acquisire? Sarà già tanto se non si sono scannati. E se non si sono riempiti di debiti. Se sono sopravvissuti.

8. E tutti questi contratti che ho già firmato? Ma chi se ne fotterà più di questi libri. Più li guardo, e più mi domando che senso hanno. E se me lo domando io, che volevo farci dei soldi. Ma se non li pubblico, sono soldi persi. Magari in qualche contratto ho pure la penale. Vabbè, persi per persi. Potrei pubblicarli. Almeno fatturo.

9. Che poi lo so: un po’ di librerie riapriranno, mica tutte, riapriranno le catene, a ranghi ridotti, e le indipendenti più piccole, quelle familiari, che non hanno buste paga; e i grandi editori faranno lo sforzo, l’estremo sforzo prima di crepare, e le inonderanno, queste poche librerie, di un qualche tipo di merda che andrà benissimo, un superthriller un superromanticone o che so io, e con tutto quello che gli resta dei loro fidi faranno credito credito credito alle librerie, metteranno uno due tre non più di tre titoli dappertutto, e via. Non ce ne sarà per nessuno.

10. Ma gli ebook? Finché si stava tutti rinchiusi gli ebook avevano un senso, anche per chi non ci era abituato. Ma adesso? Che poi si è visto che cosa ha comperato la gente in ebook: qualche classico, e i libri dei soliti. Idem per le vendite a distanza. Fare un nuovo libro, farlo vedere, far sì che un possibile pubblico si accorga che eissta, sarà durissima. Ce la faremo? Chi lo sa. E poi, chi è che ci ha voglia ancora di mettere il naso davanti a uno schermo?

(Non intendo dire che gli editori, tutti, si facciano tutte e solo queste domande. Ce ne sarebbero molte altre, e molto cambia da editore a editore).

“Anatomia di un profeta”, di Demetrio Paolin

5 aprile 2020 by

di Giulio Mozzi

Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin (Voland 2020) è un libro di cattivo gusto.

L’autore pretende che non sia un romanzo (“Ecco perché questo libro non è un romanzo”, p. 236) e pretende che sia un romanzo (“E quindi non è neppure così strano che questo libro sia effettivamente un romanzo”: stessa pagina!): mi toglierò il problema chiamandolo “libro”, e basta.

Il 19 dicembre del 2017 pubblica in Facebook un post piccolo piccolo, di poche righe ma con un titolo: “PUBBLICA CONFESSIONE DELL’INSEGNANTE DI SCRITTURA. – E’ un mio allievo: tutto quello che sa, l’ha imparato da me. Però l’ha capito meglio, l’ha studiato di più, e lo fa come io non sarei mai capace” (vedi). Demetrio fu il primo a commentare, stolidamente: “È il desiderio che dovrebbe guidare l’insegnamento, che l’allievo sia migliore più capace del maestro”. Non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che io, scrivendo quelle poche righe, avessi in mente lui. All’epoca avevo già letto una prima parziale stesura dell’Anatomia (che non si chiamava ancora così).

In realtà Demetrio non è mai stato mio allievo. Ci siamo conosciuti parecchi anni fa, sì, a mia memoria (ma non mi fido, per principio, della mia memoria) nel 2002, al tempo in cui io curavo per l’editore Sironi la collana Indicativo Presente: Demetrio mi aveva mandato dei raccconti, a me era sembrato che ci fosse dentro “qualcosa”, avevamo concordato di vederci. Passammo insieme forse un paio d’ore, io cercai di dirgli che cosa era quel “qualcosa” che avevo visto, e lo feci nell’unico modo che sapevo e che so: indicandogli alcune pagine nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” ci fosse, e scartandone altre – molte di più – nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” non ci fosse. Facemmo anche tante chiacchiere, un po’ imbarazzate come può capitare in un primo incontro, e in mezzo a queste chiacchiere Demetrio mi raccontò quanto segue.

Che qualche anno prima lavorava come cronista di nera, più o meno, per un settimanale piemontese. Che un giorno il suo capo lo aveva convocato, gli aveva buttato là un libro, e gli aveva detto: “Il senatore Ernesto Rossi [eletto in Alessandria] ha fatto un’interrogazione parlamentare per questo libro, ha minacciato una denuncia, sostiene che sia un libro che incita alla pedofilia. Visto che tu sei uno che legge, facci un pezzo”. Che il libro era il mio Il male naturale (quindi era il 1998), pubblicato da Mondadori. Che se lo lesse, e ne rimase folgorato.

(Poi, negli anni, Demetrio ha fatto tante cose, tante ne ho fatte anch’io, alcune ne abbiamo fatte insieme).

Tredici anni dopo, quando Il male naturale fu ripubblicato presso l’editore Laurana, chiesi a Demetrio di scrivere un breve saggio che facesse da posfazione. Demetrio acconsentì e scrisse, e tra le altre cose scrisse: questo libro è “il tentativo di mettere in chiaro il male, ma nello stesso tempo tale nitore è sadico perché infligge al lettore un dolore acuto pagina per pagina come a dire che il male può essere detto, ma l’unica esperienza di male che possiamo fare è quella del dolore fisico. Ovvero io sento il male perché ho un corpo”.

Anatomia di un profeta è il tentativo di non mettere in chiaro il male. Di prenderlo così com’è, oscuro e inspiegabile. Per questo, rispetto a quello che scrissi io, è un libro molto più forte e coraggioso.

Era da un pezzo – perché da un pezzo so di questo libro, ne ho lette due versioni e mezza, e mi sono sempre ben guardato dal dire a Demetrio che cosa me ne paresse: non volevo entrarci – che dicevo a me stesso, e dicevo a certe persone amiche, e credo di aver detto anche all’interessato: “Bisognerà che con Demetrio ci faccia i conti, prima o poi”.

Anatomia di un profeta tenta caparbiamente, pagina dopo pagina, di prendere la forma di romanzo; e continuamente fallisce. Fallisce con un certo compiacimento, direi, e anche con un certo fasto: tutta una serie di trucchi grafici e di impaginazione, palesemente mutuati un po’ dal Tristram Shandy di Laurence Sterne e un po’ dall’Anatomy of melancholy di Robert Burton sono la testimonianza del tremento sforzo sostenuto da Demetrio per dare l’illusione – è complicato da dire, ci provo – che ci sia una “forma”, di tipo “informale”, in un testo che invece è semplicemente “informe”. Un travestimento, insomma.

Ufficialmente Anatomia di un profeta è un tentativo di Demetrio (del Demetrio reale, che ha scritto il libro, attraverso il Demetrio finzionale, che vi compare dentro) di fare i conti con la morte per suicidio di un bambino, Patrick (del bambino reale, che il Demetrio reale conobbe, e del bambino immaginario, che il Demetrio finzionale instancabilmente produce e sonda); e di fare i conti con Dio. Il tramite di questa contabilità è Geremia, il profeta involontario, il profeta inascoltato, il profeta di sventura, il profeta lapidato.

Non è, Anatomia di un profeta, un romanzo spritiuale. Tutt’altro. E’ un romanzo carnale. E’ un romanzo dal quale ogni trascendenza sembra bandita. La stessa speranza della “resurrezione dei corpi” e del “mondo che verrà” (p. 138 sgg) è da un lato presentata come speranza disperata, e dall’altro rappresentata così materialisticamente da non sembrare nemmeno una speranza di un “al di là”: “io mi figuro questo tornare in vita come quando ci si sveglia dopo un sogno angoscioso: il cuore in gola, il respiro affannato, un dolore vasto lungo le membra” (p. 139). Per i Demetrio, tutti e due, una cosa è certa: che ciò che c’è è il corpo, e che non c’è nulla della persona oltre il corpo.

In fondo, nelle sue duecentocinquanta pagine Anatomia di un profeta non fa che ripetere una e una sola cosa. “Lui che si è fatto morte diventerà vita, perché Dio gli è entrato dentro” (p. 65): e potete scegliere chi sia questo “lui”, se sia il Messia o il bambino Patrick o il profeta Geremia o – per immaginazione – il Demetrio finzionale o – per desiderio – il Demetrio reale. Potete scegliere tanto fa lo stesso. La vita è morte, la morte è vita, la perdizione è salvezza, la bestemmia è lode, il Dio è il male, il dolore è il bene, la fine è…

No. In realtà non c’è scritto, che la fine è l’inizio. La fine è la fine, e poi eventualmente c’è quello svegliarsi confuso dopo un sogno angoscioso.

E tanto è il cattivo gusto che abita in questo libro, che spesso non si capisce se ci si trova davanti a un tentativo di dire l’indicibile (letteratura mistica, o giù di lì), o a una rinuncia a dirlo (idem), o a un tremendo gioco di parole, o a un vanitoso “concetto” barocco – come qui: “Ecco la salvezza del mondo: le ossa di Patrick nella terra diventeranno presto alberi e fiori. Saranno il nutrimento delle radici e lui, che ha bevuto il diserbante, diventerà nutrimento per le piante”.

Davanti a tanta sfacciataggine o spudoratezza, davanti a tanto esibizionismo, davanti a tanta mancanza di gusto, davanti a un tale orrore io – che provai, come scrisse Demetrio, a suo tempo, a “mettere in chiaro il male”, mi ritiro in un angolo. Demetrio ha superato questo bisogno – illuministico, in fondo – e ha accettato l’oscurità del male, l’incomprensibilità di Dio, l’inenarrabilità della salvezza, l’indescrivibilità del miscuglio. E infatti mentre io, qua e là, nei miei racconti, e anche nel libricino 10 buoni motivi per essere cattolici che compilai con Valter Binaghi in quello stesso 2011 in cui si ripubblicava Il male naturale, mi sono confrontato con l’immaginario biblico – riducendo così la Bibbia a una cosmologia mutevole ma in fin dei conti ordinata -, con molta più forza Demetrio si è confrontato con il testo biblico: incorporandolo, riscrivendolo, subendone l’incoerenza e la magmaticità, prendendolo per quello che è.

Forse è vero che ho insegnato qualcosa a Demetrio. Certamente è vero che lui, oggi, è molto più in là. In queste settimane (non ditelo a nessuno, per carità) sono tornato alacremente a lavorare su quello scartafaccio – le cui carte più vecchie risalgono al 1998 – che sarebbe il mio famoso romanzo; e, come faccio spesso, pur essendo lo scartafaccio ancora un cantiere aperto ho provveduto già a dotarlo di una “Notizia” finale: che rende brevemente conto del lungo lavoro, delle successive redazioni, e così via. In questa “Notizia” ho scritto anche:

“Mi fa compagnia, e mi istruisce, in questi giorni, il romanzo di Demetrio Paolin Anatomia di un profeta. Demetrio ha detto, ha scritto spesso che fu un mio libro del 1998, Il male naturale, a mostrargli che di certe cose si poteva parlare, e in quali modi si poteva parlarne; Anatomia di un profeta mi ricorda, spero definitivamente, che l’importante non è la letteratura, l’importante è la vita – e il coraggio.

Dunque: m’inchino, e sono grato.

(E un applauso a Daniela Di Sora, la signora Voland, l’editrice: che ci vuol fegato, a pubblicare un libro così).

Questo è ciò che ho saputo scrivere: non una recensione, ma un fatto privato tra me e Demetrio. Se vi interessa una recensione vera e fatta bene, leggete quella che – per conto del gatto Luigi – ha scritto Sandro Campani: è in Facebook, qui.

Fahrenheit Radio Rai 3

20 febbraio 2020 by

Mercoledì 19 febbraio 2020 si è parlato del romanzo di Marco Candida “Incendio nel bosco” nel corso della puntata di Fahrenheit su Radio Rai 3. Qui il podcast. (Un sentito special thank a Tommaso Giartosio)

Note di lettura: “Baco” di Giacomo Sartori.

9 febbraio 2020 by
Luigi Preziosi.

La produzione più recente di Giacomo Sartori, con la sola eccezione del romanzo Sono Dio, è improntata all’esplorazione, condotta privilegiando toni partecipi ed insieme oggettivi, di condizioni esistenziali di segregazione e di confinamento. Così è in Rogo, in cui le tre protagoniste sono materialmente o psicologicamente prive di libertà, così in Cielo nero, in cui la prigionia di Galeazzo Ciano, rinchiuso nel carcere di Verona in attesa della morte, si fa metafora di altre privazioni di libertà, meno storicamente note, ed anche in Sacrificio, dove un arcigno paesaggio alpino restringe gli orizzonti spirituali dei giovani protagonisti.
Anche il protagonista di Baco (Exorma, 2019) vive una condizione di separazione, non claustrofobica, come alcuni dei personaggi dei romanzi citati, ma certamente di isolamento interiore. Si tratta di un ragazzino di dieci anni, di cui non è rivelato il nome, affetto da sordità, iperattivo, a volte protagonista di intemperanze che si manifestano soprattutto in ambito scolastico. Leggi il seguito di questo post »

“Incendio nel bosco””, di Marco Candida

20 dicembre 2019 by

di Cinzia Rescia

(Recensione della dott.ssa Rescia, funzionario responsabile di biblioteca e sistema bibliotecario della biblioteca civica tortonese “Tommaso de Ocheda”. (Tortona, in provincia di Alessandria, è la città dove abito). mc)

Note di lettura: “La lingua della terra” di Giacomo Revelli.

6 novembre 2019 by

di Luigi Preziosi

L’estate che racconta Giacomo Revelli in La lingua della terra (Arkadia editore, 2019) è la stagione in cui matura il senso del cambiamento, dell’adeguamento al tempo nuovo che prima o poi tutti ci coglie. La genericità di questa formula di ingresso nel libro è dovuta alle diverse modulazioni che il cambiamento assume nei confronti dei personaggi della storia. Il principale, Bedè, è un contadino ormai quasi vecchio che nell’entroterra ligure accudisce con ostentata pervicacia il suo uliveto abbarbicato sulla costa della collina: un pezzo di terra che era di suo padre e prima ancora dei suoi nonni e che difficilmente riuscirà a tramandare ai due figli, i quali proprio nell’estate che abbraccia il racconto maturano un definitivo disinteresse a continuare l’attività di famiglia, impegnati come sono nella ricerca di altre strade: il primo, che è anche la voce narrante, affronta le formule matematiche degli esami del politecnico, mentre le forti emozioni di un primo amore estivo assorbono l’attenzione del secondo. Leggi il seguito di questo post »

Romanzi, atlanti

29 ottobre 2019 by

di giuliomozzi

Per capire che cos’è il libro Plotted: a literary atlas di Andrew DeGraff basta spendere due minuti e guardare il video qui sopra. In sostanza, contiene una serie di “mappe” di un mannello di capolavori della letteratura soprattutto anglosassone (eccezioni: Omero, Kafka, Borges). Libri che conosciamo tutti, da Moby-Dick ad Amleto passando per Orgoglio e pregiudizio e Le avventure di Huckleberry Finn. Ho messo tra virgolette la parola “mappe”, perché va intesa nel senso più largo: la “mappa” di Moby-Dick, per esempio, non riporta i viaggi della Pequod, ma illustra gli esterni e gli interni della nave e di un capodoglio; mentre la “mappa” di Amleto riporta fedelmente i movimenti di tutti i personaggi della tragedia all’interno del castello di Elsinore [e mi ha fatto venire in mente, senza possibilità di scampo, l’Amleto a fumetti di Gianni De Luca (disegni) e Raul Traverso (sceneggiatura)].

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I personaggi producono l’ambiente che li circonda

28 ottobre 2019 by

di Demetrio Paolin

La prima volta che ho visto il Compianto di Niccolò dell’Arca è stato per caso. Avevo accompagnato mia sorella a Bologna sulle tracce di Luca Carboni, quando sono entrato in questa chiesa vicino a piazza Maggiore e ho visto l’opera. Da allora, le volte che passo per Bologna e ho un tempo sufficiente da far due passi, io un momento per contemplare il compianto lo trovo sempre. Cosa mi colpisce di quest’opera? Perché da anni la guardo ma mi sfugge sempre qualcosa. Qualche giorno fa, complice una serie di ragioni accessorie, che qui non si nominano, stavo rileggendo Body Art di Don DeLillo e mentre leggevo Body Art mi sono venuti in mente Niccolò dell’Arca e il suo Compianto. Del romanzo di DeLillo ho posto la mia attenzione su quei passaggi in seconda persona che di solito stanno in testa ad alcuni capitoli, una sorta di soliloquio del personaggio principale, che potrebbero benissimo essere i pensieri di Mr. Turtle o – perché no – gli stessi penesieri del narratore. Comunque quello che mi colpiva era la descrizione dell’ambiente, intesa come somma di aria, luce, profumi, odori, luoghi, che veniva come suscitata dagli stessi pensieri di chi in quel momento prendeva la parola. L’ambiente non era seperato dal personaggio, ma il personaggio costruiva l’ambiente.

Ecco. Ora guardate il Compianto: cosa vi colpisce? Non c’è uno sfondo, un paesaggio, non c’è nulla; eppure, se guardate bene le statue, tutto emana una descrizione paesaggistica: il paesaggio non c’è eppure è totalmente interiozzato dai diversi protagonisti. La donna che si lancia con il suo grido sul corpo morto di Cristo, quella bocca spalancata e le vesti che le si allungano non danno l’idea di un momento di bufera, in cui la terra trema e il cielo si oscura? Non c’è nella disposizione dei diversi corpi, nel loro porsi a corona attorno al corpo morto, una sorta di protezione? Da cosa? Dalla pioggia che cade? Possibile, perché no?

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