Posts Tagged ‘Demetrio Paolin’

Cronaca di un romanzo, 1

11 dicembre 2020

di Giulio Mozzi

Chiunque si metta in testa di raccontare il modo e la maniera in cui ha scritto il proprio romanzo deve innanzitutto prendere atto dell’esistenza del Romanzo di un romanzo, il libro nel quale Thomas Mann raccontò la genesi del Doctor Faustus: il che significa, prima di tutto, prendere atto della distanza enorme che c’è tra il proprio lavoro e il lavoro di una delle più eminenti personalità della letteratura (e della moralità, direi) occidentale del Novecento. Quindi metto le mani avanti: no, non ho nessuna intenzione di immaginare di essere più di quel che sono – un pover’uomo, come tutti -, e non pretendo nemmeno di raccontare una storia esemplare. Più banalmente: ho sfiancato per più di vent’anni le mie amiche e i miei amici – e i lettori e le lettrici di vibrisse – con la storia di questo romanzo che avevo lì, che di tanto in tanto dichiaravo “in corso d’opera” o “in traiettoria d’arrivo” o addirittura “praticamente finito”, e che regolarmente svaniva dietro ai miei “non sono soddisfatto”, “non mi piace”, “non so come fare a chiuderlo”, e tutte quelle cose là. E quindi offro la mia cronachetta a mo’ di risarcimento per la pazienza che ho chiesta, e di ringraziamento per la pazienza che ho ricevuta. Dunque comincio.

Era il 1998. Avevo appena pubblicato presso Mondadori Il male naturale. Il libro aveva avuto uno strano destino: tiepide lodi da parte della critica, qualche sostanziale stroncatura (un recensore, addirittura, attaccandosi al fatto che in calce a ogni racconto erano indicate le date di inizio e fine di scrittura, lo bollò senz’altro come libro raccogliticcio), e a un certo punto la bomba. Mi chiama una giornalista dell’Adn Kronos, mi dice che un parlamentare ha fatto un’interrogazione parlamentare sul mio libro, e minaccia una denuncia con richiesta di sequestro. Tutto era legato a un racconto, molto breve, due paginette, intitolato Amore, nel quale si descriveva un rapporto sessuale tra un adulto e un bambino (Geno Pampaloni lo definì “crudele e freddo, ma privo di compiacimenti stilistici”). Ci fu un po’ di polverone, ci fu una riunione con qualche strillo in Mondadori, e tutto finì lì (ci fu anche, mesi dopo, anche la risposta all’interrogazione parlamentare, per bocca dell’allora presidente del Consiglio dei ministri Massimo D’Alema: ma ovviamente la cosa non interessava più a nessuno). Non so se effettivamente la denuncia fu mai presentata. Tutta la storia è raccontata in appendice alla nuova edizione de Il male naturale, uscita presso Laurana nel 2012, con una postfazione di Demetrio Paolin.

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“Anatomia di un profeta”, di Demetrio Paolin

5 aprile 2020

di Giulio Mozzi

Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin (Voland 2020) è un libro di cattivo gusto.

L’autore pretende che non sia un romanzo (“Ecco perché questo libro non è un romanzo”, p. 236) e pretende che sia un romanzo (“E quindi non è neppure così strano che questo libro sia effettivamente un romanzo”: stessa pagina!): mi toglierò il problema chiamandolo “libro”, e basta.

Il 19 dicembre del 2017 pubblica in Facebook un post piccolo piccolo, di poche righe ma con un titolo: “PUBBLICA CONFESSIONE DELL’INSEGNANTE DI SCRITTURA. – E’ un mio allievo: tutto quello che sa, l’ha imparato da me. Però l’ha capito meglio, l’ha studiato di più, e lo fa come io non sarei mai capace” (vedi). Demetrio fu il primo a commentare, stolidamente: “È il desiderio che dovrebbe guidare l’insegnamento, che l’allievo sia migliore più capace del maestro”. Non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che io, scrivendo quelle poche righe, avessi in mente lui. All’epoca avevo già letto una prima parziale stesura dell’Anatomia (che non si chiamava ancora così).

In realtà Demetrio non è mai stato mio allievo. Ci siamo conosciuti parecchi anni fa, sì, a mia memoria (ma non mi fido, per principio, della mia memoria) nel 2002, al tempo in cui io curavo per l’editore Sironi la collana Indicativo Presente: Demetrio mi aveva mandato dei raccconti, a me era sembrato che ci fosse dentro “qualcosa”, avevamo concordato di vederci. Passammo insieme forse un paio d’ore, io cercai di dirgli che cosa era quel “qualcosa” che avevo visto, e lo feci nell’unico modo che sapevo e che so: indicandogli alcune pagine nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” ci fosse, e scartandone altre – molte di più – nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” non ci fosse. Facemmo anche tante chiacchiere, un po’ imbarazzate come può capitare in un primo incontro, e in mezzo a queste chiacchiere Demetrio mi raccontò quanto segue.

Che qualche anno prima lavorava come cronista di nera, più o meno, per un settimanale piemontese. Che un giorno il suo capo lo aveva convocato, gli aveva buttato là un libro, e gli aveva detto: “Il senatore Ernesto Rossi [eletto in Alessandria] ha fatto un’interrogazione parlamentare per questo libro, ha minacciato una denuncia, sostiene che sia un libro che incita alla pedofilia. Visto che tu sei uno che legge, facci un pezzo”. Che il libro era il mio Il male naturale (quindi era il 1998), pubblicato da Mondadori. Che se lo lesse, e ne rimase folgorato.

(Poi, negli anni, Demetrio ha fatto tante cose, tante ne ho fatte anch’io, alcune ne abbiamo fatte insieme).

Tredici anni dopo, quando Il male naturale fu ripubblicato presso l’editore Laurana, chiesi a Demetrio di scrivere un breve saggio che facesse da posfazione. Demetrio acconsentì e scrisse, e tra le altre cose scrisse: questo libro è “il tentativo di mettere in chiaro il male, ma nello stesso tempo tale nitore è sadico perché infligge al lettore un dolore acuto pagina per pagina come a dire che il male può essere detto, ma l’unica esperienza di male che possiamo fare è quella del dolore fisico. Ovvero io sento il male perché ho un corpo”.

Anatomia di un profeta è il tentativo di non mettere in chiaro il male. Di prenderlo così com’è, oscuro e inspiegabile. Per questo, rispetto a quello che scrissi io, è un libro molto più forte e coraggioso.

Era da un pezzo – perché da un pezzo so di questo libro, ne ho lette due versioni e mezza, e mi sono sempre ben guardato dal dire a Demetrio che cosa me ne paresse: non volevo entrarci – che dicevo a me stesso, e dicevo a certe persone amiche, e credo di aver detto anche all’interessato: “Bisognerà che con Demetrio ci faccia i conti, prima o poi”.

Anatomia di un profeta tenta caparbiamente, pagina dopo pagina, di prendere la forma di romanzo; e continuamente fallisce. Fallisce con un certo compiacimento, direi, e anche con un certo fasto: tutta una serie di trucchi grafici e di impaginazione, palesemente mutuati un po’ dal Tristram Shandy di Laurence Sterne e un po’ dall’Anatomy of melancholy di Robert Burton sono la testimonianza del tremento sforzo sostenuto da Demetrio per dare l’illusione – è complicato da dire, ci provo – che ci sia una “forma”, di tipo “informale”, in un testo che invece è semplicemente “informe”. Un travestimento, insomma.

Ufficialmente Anatomia di un profeta è un tentativo di Demetrio (del Demetrio reale, che ha scritto il libro, attraverso il Demetrio finzionale, che vi compare dentro) di fare i conti con la morte per suicidio di un bambino, Patrick (del bambino reale, che il Demetrio reale conobbe, e del bambino immaginario, che il Demetrio finzionale instancabilmente produce e sonda); e di fare i conti con Dio. Il tramite di questa contabilità è Geremia, il profeta involontario, il profeta inascoltato, il profeta di sventura, il profeta lapidato.

Non è, Anatomia di un profeta, un romanzo spritiuale. Tutt’altro. E’ un romanzo carnale. E’ un romanzo dal quale ogni trascendenza sembra bandita. La stessa speranza della “resurrezione dei corpi” e del “mondo che verrà” (p. 138 sgg) è da un lato presentata come speranza disperata, e dall’altro rappresentata così materialisticamente da non sembrare nemmeno una speranza di un “al di là”: “io mi figuro questo tornare in vita come quando ci si sveglia dopo un sogno angoscioso: il cuore in gola, il respiro affannato, un dolore vasto lungo le membra” (p. 139). Per i Demetrio, tutti e due, una cosa è certa: che ciò che c’è è il corpo, e che non c’è nulla della persona oltre il corpo.

In fondo, nelle sue duecentocinquanta pagine Anatomia di un profeta non fa che ripetere una e una sola cosa. “Lui che si è fatto morte diventerà vita, perché Dio gli è entrato dentro” (p. 65): e potete scegliere chi sia questo “lui”, se sia il Messia o il bambino Patrick o il profeta Geremia o – per immaginazione – il Demetrio finzionale o – per desiderio – il Demetrio reale. Potete scegliere tanto fa lo stesso. La vita è morte, la morte è vita, la perdizione è salvezza, la bestemmia è lode, il Dio è il male, il dolore è il bene, la fine è…

No. In realtà non c’è scritto, che la fine è l’inizio. La fine è la fine, e poi eventualmente c’è quello svegliarsi confuso dopo un sogno angoscioso.

E tanto è il cattivo gusto che abita in questo libro, che spesso non si capisce se ci si trova davanti a un tentativo di dire l’indicibile (letteratura mistica, o giù di lì), o a una rinuncia a dirlo (idem), o a un tremendo gioco di parole, o a un vanitoso “concetto” barocco – come qui: “Ecco la salvezza del mondo: le ossa di Patrick nella terra diventeranno presto alberi e fiori. Saranno il nutrimento delle radici e lui, che ha bevuto il diserbante, diventerà nutrimento per le piante”.

Davanti a tanta sfacciataggine o spudoratezza, davanti a tanto esibizionismo, davanti a tanta mancanza di gusto, davanti a un tale orrore io – che provai, come scrisse Demetrio, a suo tempo, a “mettere in chiaro il male”, mi ritiro in un angolo. Demetrio ha superato questo bisogno – illuministico, in fondo – e ha accettato l’oscurità del male, l’incomprensibilità di Dio, l’inenarrabilità della salvezza, l’indescrivibilità del miscuglio. E infatti mentre io, qua e là, nei miei racconti, e anche nel libricino 10 buoni motivi per essere cattolici che compilai con Valter Binaghi in quello stesso 2011 in cui si ripubblicava Il male naturale, mi sono confrontato con l’immaginario biblico – riducendo così la Bibbia a una cosmologia mutevole ma in fin dei conti ordinata -, con molta più forza Demetrio si è confrontato con il testo biblico: incorporandolo, riscrivendolo, subendone l’incoerenza e la magmaticità, prendendolo per quello che è.

Forse è vero che ho insegnato qualcosa a Demetrio. Certamente è vero che lui, oggi, è molto più in là. In queste settimane (non ditelo a nessuno, per carità) sono tornato alacremente a lavorare su quello scartafaccio – le cui carte più vecchie risalgono al 1998 – che sarebbe il mio famoso romanzo; e, come faccio spesso, pur essendo lo scartafaccio ancora un cantiere aperto ho provveduto già a dotarlo di una “Notizia” finale: che rende brevemente conto del lungo lavoro, delle successive redazioni, e così via. In questa “Notizia” ho scritto anche:

“Mi fa compagnia, e mi istruisce, in questi giorni, il romanzo di Demetrio Paolin Anatomia di un profeta. Demetrio ha detto, ha scritto spesso che fu un mio libro del 1998, Il male naturale, a mostrargli che di certe cose si poteva parlare, e in quali modi si poteva parlarne; Anatomia di un profeta mi ricorda, spero definitivamente, che l’importante non è la letteratura, l’importante è la vita – e il coraggio.

Dunque: m’inchino, e sono grato.

(E un applauso a Daniela Di Sora, la signora Voland, l’editrice: che ci vuol fegato, a pubblicare un libro così).

Questo è ciò che ho saputo scrivere: non una recensione, ma un fatto privato tra me e Demetrio. Se vi interessa una recensione vera e fatta bene, leggete quella che – per conto del gatto Luigi – ha scritto Sandro Campani: è in Facebook, qui.

I personaggi producono l’ambiente che li circonda

28 ottobre 2019

di Demetrio Paolin

La prima volta che ho visto il Compianto di Niccolò dell’Arca è stato per caso. Avevo accompagnato mia sorella a Bologna sulle tracce di Luca Carboni, quando sono entrato in questa chiesa vicino a piazza Maggiore e ho visto l’opera. Da allora, le volte che passo per Bologna e ho un tempo sufficiente da far due passi, io un momento per contemplare il compianto lo trovo sempre. Cosa mi colpisce di quest’opera? Perché da anni la guardo ma mi sfugge sempre qualcosa. Qualche giorno fa, complice una serie di ragioni accessorie, che qui non si nominano, stavo rileggendo Body Art di Don DeLillo e mentre leggevo Body Art mi sono venuti in mente Niccolò dell’Arca e il suo Compianto. Del romanzo di DeLillo ho posto la mia attenzione su quei passaggi in seconda persona che di solito stanno in testa ad alcuni capitoli, una sorta di soliloquio del personaggio principale, che potrebbero benissimo essere i pensieri di Mr. Turtle o – perché no – gli stessi penesieri del narratore. Comunque quello che mi colpiva era la descrizione dell’ambiente, intesa come somma di aria, luce, profumi, odori, luoghi, che veniva come suscitata dagli stessi pensieri di chi in quel momento prendeva la parola. L’ambiente non era seperato dal personaggio, ma il personaggio costruiva l’ambiente.

Ecco. Ora guardate il Compianto: cosa vi colpisce? Non c’è uno sfondo, un paesaggio, non c’è nulla; eppure, se guardate bene le statue, tutto emana una descrizione paesaggistica: il paesaggio non c’è eppure è totalmente interiozzato dai diversi protagonisti. La donna che si lancia con il suo grido sul corpo morto di Cristo, quella bocca spalancata e le vesti che le si allungano non danno l’idea di un momento di bufera, in cui la terra trema e il cielo si oscura? Non c’è nella disposizione dei diversi corpi, nel loro porsi a corona attorno al corpo morto, una sorta di protezione? Da cosa? Dalla pioggia che cade? Possibile, perché no?

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Il quadrato di M.

24 settembre 2018

[Il 27 settembre uscirà per D editore una raccolta di racconti dal titolo Illusioni. Ovvero 13 modi di raccontare i quadri, tra i vari contributi c’è anche un non-racconto mio, che grazie al permesso dell’editore pubblico qui. dp]

di Demetrio Paolin

 

[…]Non ho più voglia di scrivere; l’ho capito questa estate al mare, mentre guardavo il cielo e l’acqua entrambi verdastri la mattina. Mia figlia e mia moglie si mettevano la crema e osservavo loro e le altre persone. Ascoltavo i loro discorsi, li registravo, notavo i loro tic, collegavo certe frasi le une alle altre, interpretavo segni, gesti, minuzie e attenzioni. Mi dicevo: ne avrei per scrivere un romanzo o un racconto, potrei averne anche per scrivere un saggio. Poi guardavo l’immensità vedastra davanti a me, la complessità dei riflessi della luce sull’acqua, la precisione con cui l’onda si infrangeva sulla battigia, il modo con cui le nuvole cedevano la loro forma sulle montagne alle mie spalle e mi dicevo: Ecco potrei scrivere una poesia, un poemetto o una frase brillante.
Invece nulla. Poggiavo la mia testa sullo sdraio e mi addormentavo per lungo tempo. […]

Continua a leggere “Il quadrato di M” di Demetrio Paolin (pdf)

Desiderare figlio non è come scolpire marmo

5 marzo 2018

di Demetrio Paolin

[questo articolo è stato pubblicato nel numero de La lettura, supplemento del Corriere della sera, in edicola questa settimana].

Gabriele Dadati con L’ultima notte di Antonio Canova (Baldini & Castoldi, 2018) ci consegna, coraggiosamente, un romanzo storico alla vecchia maniera. Siamo a Venezia nel 1822, il grande scultore Antonio Canova, prossimo alla morte, decide di raccontare al fratellastro Giovan Battista Sartori una vicenda di cui è stato protagonista e spettatore, e che riguarda l’uomo più potente del quel tempo: Napoleone Bonaparte. Nel 1810 Canova è a Fontainebleu, l’imperatore di Francia l’ha chiamato perché vuole che Maria Luisa d’Austria venga ritratta in un busto di marmo. Lo scultore, mentre è a corte, viene avvinto nelle spire di una strana congiura, che riguarda Napoleone, la sua sposa e il futuro della Francia.

L’ultima notte di Antonio Canova è un serie di cerchi via via più stretti, che corrispondono a diversi punti focali della narrazione: in primo luogo abbiamo il grande artista alle prese con la sua morte solitaria, la sua debolezza fisica, la malinconia per il tempo sprecato e i rimpianti per la gioventù. In questo contesto si inserisce un secondo quadro temporale, l’ottobre del 1810, dove nello sfarzo della corte di Napoleone lo scultore viene a conoscenza del terribile segreto, che  viene raccontato – e abbiamo qui il terzo e più importante scenario –  dal punto di vista di Maria Luisa.

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Il Dio falso [1]

9 novembre 2017

di Demetrio Paolin

Mio padre quando si alza vede
la collina davanti a lui e non pensa nulla,
fa colazione come ogni giorno la mattina:
aspetta che il caffè diventi freddo e poi mi
chiama facendomi una carezza sulla testa.
Mio padre è tutto collina quando esce e va
al lavoro, è come le rive che scendono
verso il fiume, che pare gli alberi si muovano;
si dice bosco, ma potremmo dire anche mare
che vale lo stesso, tanto si muove il verde.
Il giorno dopo che Patrick è morto, mio padre
è uguale a se stesso come una figura allo specchio;
io sento una cosa – una grana di sale
infilarsi dentro la pelle – che mi fa diverso,
mio padre mi sembra più alto con un’ombra
dietro lunghissima, che arriva fino
porta di casa che sempre alle 7.30 del mattino
chiude dietro di sé per andare a lavorare.

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Essere Mauro Corona

1 agosto 2017

di Demetrio Paolin e Giulia Blasi

Quella che segue è una conversazione sul sé in letteratura  a margine di eventi realmente accaduti

D: Ieri sui social e in televisione si è parlato di Mauro Corona e della sua folle corsa per inseguire alcuni ragazzi, colpevoli di avergli “vandalizzato” casa. Al di là dei risvolti più politici, che sono stati montati – diritto di legittima difesa, la violenza gratuita, ecc. – c’è una cosa che mi interessa, ed è legata al mio primo pensiero quando ho letto la notizia. Ho pensato: “Sarebbe un’immagine perfetta di un romanzo di Corona”. Mi spiego: quello che mi è stato raccontato sul giornale l’avrei trovato comprensibile e pure “divertente” in una sua storia, perché coerente con quello che lui ha sempre narrato, con quello che lui ha costruito come immaginario che sottende ai suoi testi. Il problema qual è? Che in questo caso non siamo in un romanzo, ma l’inseguimento, l’ascia, i ragazzi sono reali e accaduti. E così vengo alla mia prima riflessione: esiste un momento in cui lo scrittore smette di essere percepito come tale e diventa una cosa sola con le cose che scrive. Questo cortocircuito è pericoloso sia quando avviene nella mente del lettore, sia quando – come in questo caso – avviene nella mente dell’autore. Io ho avuto l’impressione che Corona abbia agito pensando a come si sarebbe comportato “Mauro Corona” scrittore e inventore di storie. C’è un bisogno diffuso, mi pare, di confondere chi scrive con cosa scrive. La letteratura diventa così una sorta di esperienza di vita altrui, mentre io credo che mettere le distanze tra sé e le cose che si scrivono è salutare, metterle se si scrive “io” lo è ancora di più: o si finisce di creare un cortocircuito come quello in cui è caduto Mauro Corona

G: Fra il Corona scrittore e il Corona persona non c’è mai stata tutta questa distanza. Corona è prima di tutto personaggio, una personalità debordante, che funziona in televisione, che colpisce. Non sparisce dentro i suoi libri, i libri sono un’emanazione di lui, sono parte della performance. Si comprano e leggono i libri di Corona per essere parte della Corona Experience, immaginarsi un po’ uomini di montagna (o donne col fazzoletto in testa e la polenta sul fuoco), immergersi in un tempo rude, spiccio, senza vanità, senza selfie e Rovazzi e rumore di fondo. Un tempo povero, in cui non dureremmo dieci minuti senza urlare “CHE PALLE RIDATEMI LA CONNESSIONE VOGLIO UN IPHONE 12 TEMPESTATO DI SWAROVSKI PER GUARDARE TEMPTATION ISLAND”, e per questo aspirazionale, perché distante da noi.

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Una chiacchierata con Ivano Porpora, 2 / E veniamo dunque al tema cristologico

25 giugno 2017

giuliomozzi conversa con Ivano Porpora

[Al romanzo di Ivano Porpora Nudi come siamo stati, da poco apparso per Marsilio, tengo particolarmente. Questa è la seconda puntata di un’intervista a puntate. La prima è qui].

E veniamo dunque al tema cristologico. Non so se a te vada bene chiamarlo così. Arsène, in Nudi come siamo stati, letteralmente prende su di sé il male di Severo. Nella sua bella recensione, Demetrio Paolin ha sostenuto che, a suo avviso, il vero protagonista del romanzo non è Severo ma Arsène: che salva Severo perdendo sé stesso, e perdendo sé stesso si salva. Certo: Arsène non sembra avere la mitezza tradizionalmente associata all’agnello; d’altra parte nemmeno Gesù di Nazareth era particolarmente mite quando addestrava i suoi discepoli o – indifferentemente – i suoi avversari a suon di gesti e parabole provocatori. Che si tratti di strategie retoriche zen (come ha proposto a es. Raul Montanari nel suo Cristo Zen) o di prescrizione del sintomo alla Erickson, si tratta sempre di un approccio aggressivo e, soprattutto, che mette a rischio chi lo esegue.

Mi va benissimo parlare di tema cristologico a un patto: che ci si riferisca al Cristo dei Vangeli e non alle sue attualizzazioni povere, così come al Dio rivelato della Bibbia e non alle sue comparsate barbute, così come alla Madonna sempre dei Vangeli e non ai messaggi insapori su pizzini che vengono da qui e là; e che al contempo, se di Severo parliamo, che gli si anteponga l’aggettivo: povero.

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Jeremy in a hole

2 Maggio 2017

di Demetrio Paolin

[Queste pagine fanno parte di una “cosa” nuova; è in fase di scrittura, si prenda questa narrazione come una prova di materiali].

Il periodo successivo all’adolescenza è stato  un apprendimento del lutto.

Leggo questa frase sulla musicassetta che trovo a casa dei miei. Sono venuto qui per cercare la mia prima copia di Geremia, quella che lessi nel 1991, subito dopo la morte di Patrick. Sono curioso di vedere cosa avevo sottolineato, cerco un appiglio che mi dica chi ero io come lettore e come ragazzo in quegli anni e dopo quella morte. Ho trovato, invece, una TDK Chrome 90 minuti. Non ci sono altre scritte se non questa che ho appuntato. Vorrei ascoltarla, ma prima cerco ancora bene tra i libri e i testi che ho lasciato a casa nel paese. Per un attimo mi fermo a guardare fuori dalle tre finestre che per i primi 20 anni mi hanno visto crescere. Chi era il ragazzo di allora? Chi è questa massa di carne che ingombra la finestra adesso? Che tipo di rapporto c’è tra loro due?

Niente è più estraneo a me stesso che il me stesso della mia giovinezza: non vedo tra me e lui nessun tipo di familiarità o di vicinanza, eppure il sangue, la carne, i capelli e i difetti di pronuncia sono miei. Sono io senza essere più io.

Il diciassettenne di allora chissà dove è finito, in quale remoto angolo della mia coscienza o del mio profondo. Io non ho nessuna intenzione di suscitarlo adesso, anche se il sole che cade sui tetti e il rumore di mia madre che rigoverna i piatti in cucina sono familiari e morbidi: quanti pomeriggi ho passato in questo modo a guardare i tetti modificare la gradazione di luce e ombra, imparando a memoria le macchie di umido sulle tegole rosse, distinguendo i ciuffi di capperi selvatici sulla muraglia dai semplici arbusti matti; e lì nella piccola porzione di cielo, che l’ovale della finestra mi mostrava, il mio naso sanguinava per i pensieri che avevo, per le cose che immaginavo, per le vergogne che si insediavano nella mia pelle.

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“Fare i conti con il ragazzo che ero e l’uomo che sono diventato”.

24 marzo 2017

[Esattamente un anno fa Conforme alla gloria veniva pubblicato da Voland e iniziava la sua vita negli scaffali delle librerie. Proprio in questi giorni Chiara Pasin ha discusso una tesi dal titolo Tra umano e disumano. Dal corpo memoria di Primo Levi al corpo-performance contemporaneo (relatore Alessandro Cinquegrani) , in cui un’intera parte, la terza e conclusiva dal titolo Tra corpo-memoria e corpo-performance: il caso di Conforme alla gloria di Demetrio Paolin, è dedicata al mio testo. La sua tesi ha come appendice una intervista che Chiara mi ha fatto nei giorni in cui completava il suo lavoro. Con il suo permesso e con molta mia gioia la pubblico qui. dp]

Chiara Pasin&Demetrio Paolin

Le pagine di Conforme alla gloria racchiudono numerosi riferimenti a fonti più o meno esplicite: Levi, Fergnani, Arendt, Kakfa, Celan, Covacich, solo per citarne alcuni, ma anche artisti e performer. Quali sono i suoi modelli più cari?

“È certamente difficile stabilire un canone letterario, ancorché personale e privato. Se dovessi dire le fondamenta sulle quali poggiano le pagine di Conforme alla gloria, direi che il primo testo di riferimento è la Sacra Scrittura. Soprattutto l’Antico Test amento e gli scritti di Paolo; credo che il Dio che compare più volte nel romanzo debba molto a queste mie letture, che sono state anche le letture della mia infanzia. […]Nello stesso tempo mi rendo conto che in Conforme alla gloria Cristo è assente, l’agnello mite e sacrificale, colui che prende e porta sulle sue spalle i peccati di tutti, non c’è. Dal punto di vista teologico, questo romanzo è stato scritto prima della nascita di Cristo, e il Dio a cui io faccio riferimento è il Dio dell’Antico Testamento e quindi concetti come colpa, peccato e male hanno nel romanzo risuonano al lettore in un modo diverso. Sono, se posso usare un termine, più tragici e originari. Hanno qualcosa che riguarda le scaturigini più profonde nel nostro essere umano.

Altrettanto fondamentali sono state per me le opere di De Sade. Dell’opera del marchese mi interessava soprattutto il trattamento dei corpi. Ovvero mi pare che in De Sade, so che sto semplificando, ma mi si perdonerà, c’è in germe l’idea del corpo asservito a una idea, anzi meglio ancora una ideologia, che è poi quello che sottolinea Pasolini – altra fondamenta del mio testo – in Salò. A me interessava questa ipotesi di corpi che passivamente diventano un luogo dove una ideologia si incarna e fa male.”

Leggi l’intervista di Chiara Pasin a Demetrio Paolin su Conforme alla gloria

Don DeLillo, “Zero K”. Appunti di lettura

31 ottobre 2016

don_delillodi Demetrio Paolin

Ci sono diversi modi per provare a dire qualcosa sull’ultimo libro di Don DeLillo Zero K (Einaudi 2016, trad. Federica Aceto). La maggior parte delle recensioni sono in realtà riflessioni molto profonde e ultime sul tema del romanzo. È vero che Zero K costringe il lettore a questo tipo di taglio speculativo visti i temi che affronta (la vita dopo la morte, i limiti etici e tecnici della scienza, il rapporto padri figli), ma proprio l’immensità di questi topoi letterari fa sì che spesso e volentieri le riflessioni sul romanzo siano più vicine a una speculazione filosofica che una effettiva ricognizione del testo.

Questi pochi e brevi appunti partiranno, invece, da una spia testuale, e spero possano essere altrettanto interessanti. Chiunque abbia avuto una lunga frequentazione dei testi dello scrittore amerciano  non può non aver avvertito un cambio radicale di stile da Underworld a quest’ultima fatica; un evento che potremmo definire: la sparizione della similitudine.

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La servitù dello scrittore

18 ottobre 2016
In periscritto.it, Marzia Tomasin ha pubblicato una lunga e interessante chiacchierata con Demetrio Paolin. Basta cliccare qui sopra.

In periscritto.it, Marzia Tomasin ha pubblicato una lunga e interessante chiacchierata con Demetrio Paolin. Basta cliccare qui sopra.

Dieci proposte per il rinnovamento della letteratura cattolica

30 settembre 2016

di giuliomozzi

1. Tempo fa commisi l’errore di procurarmi un libro che s’intitolava più o meno La letteratura cattolica nel Novecento. Dico “più o meno” perché l’ho poi dato via, e non mi torna in mente il nome dell’autore. L’ho dato via perché in quel libro si identificava la “letteratura cattolica” con (a) narrazioni in prosa, romanzi o racconti, aventi per protagonisti preti o suore; (b) componimenti poetici assimilabili al genere letterario della preghiera. La prima proposta, dunque, è: fare della letteratura cattolica che, se in prosa, non consista di narrazioni aventi per protagonisti preti o suore; se in versi, non consista di componimenti assimilabili al genere letterario della preghiera.

2. Nel 1999 Giovanni Paolo II scrisse una Lettera agli artisti. Vi si parla di arti figurative, di architettura, di musica, di poesia, di teatro, fors’anche di giocoleria e di pirotecnica, ma di romanzi no. I romanzieri, insomma, per la massima autorità dell’organizzazione ecclesiastica cattolica, non esistono. D’altra parte, mi ricordo, più o meno in quel periodo ebbi occasione, dopo la registrazione di un programma di Sat2000, di fare due chiacchiere con il cardinal Paul Poupard, allora presidente del Consiglio pontificio per la cultura: e Poupard mi disse che l’ultimo romanzo che lo aveva veramente colpito era il Diario di un curato di campagna di George Bernanos: un romanzo (molto bello, per carità) con protagonista un prete, per l’appunto, e comunque del 1936. La seconda proposta, dunque, è mandare romanzi in omaggio al papa e ai cardinali. Chissà, magari leggono. (Ve lo vedete, Bergoglio che ogni sera, a letto, prima di spegnere la luce, si legge un capitolo di Infinite Jest? Io sì).

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“Il racconto dell’apocalisse”

3 settembre 2016

di Demetrio Paolin

[Questo articolo di Demetrio Paolin è apparso oggi nel quotidiano Il foglio].

7228419_1572657Ne La ragazza selvaggia Laura Pugno continua a sviluppare il tema che è centrale nella sua poetica, ovvero il racconto dell’apocalisse. Se c’è una continuità tra il suo esordio narrativo (nel 2002 con una raccolta di racconti per Sironi) e questo suo ultimo testo, è sicuramente da rintracciare nella lunga e fedele riflessione sul tempo ultimo. La storia de La ragazza selvaggia, infatti, altro non è che il tentativo di raccontare un ritorno o, meglio, una resurrezione. Il tutto prende le mosse in un immaginario parco naturale di Stellaria (una sorta di ardito esperimento scientifico per fare sì che la natura riprenda il sopravvento senza controlli e senza regole di questi ettari di boschi, campi e monti) dove Tessa – una ricercatrice che monitora le varie fasi del ritorno al “selvaggio” – ritrova dopo dieci anni Dasha, giovane figlia adottiva di una famiglia di ricchi industriali, che due lustri prima si era perduta nel bosco ed era stata data per morta. Dasha, che incontriamo descritta come una ragazza-cagna, ha una sorella gemella, Nina, che è in coma dopo un incidente stradale. Intorno a queste due vicende si muovono tutti i fili di una storia che ha il suo fulcro in due domande, mai dichiarate apertamente, ma che aleggiano nelle pagine. Può ciò che è morto ritornare alla vita? Si può “ritornare” alla vita – Dasha rappresenta appunto un revenant – e che conseguenze ha questo ritorno? La risposta della Pugno è negativa. Sin dalle prime pagine, l’immagine della foresta e del bosco che prendono possesso con silenziosa tenacia delle case abbandonate, delle strutture lasciate in disarmo, rinfoltiscono boschi, cancellano sentieri in una sorta di paradiso vegetale, che ricorda certe suggestioni de La carta e il territorio di Houellebecq, si affianca al suo progressivo fallimento. Non è possibile sostenere i costi del parco e del suo inselvatichimento, molto meglio una “selvaticità” controllata e farlo diventare un parco turistico.

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Il sermone di Tobia

21 luglio 2016

di Demetrio Paolin

[In questi giorni è uscito in libreria il nuovo numero (il  quinto) di Effe. Periodico di Altre Narratività. Otto scrittori, alcuni al loro esordio altri già pubblicati, per otto illustratori per otto “storie inedite narrate attraverso stili diversi e diversi respiri ma accomunate dalla voglia di rendere omaggio alla narrativa di qualità e al genere del racconto”. Di seguito il racconto di Demetrio Paolin con l’illustrazione di Silvia Rocchi]

illustrazione[…] Il corpo dei morti continua a sognare come se una parte del defunto non morisse del tutto, ma rimanesse appiccicata alle ossa e alla carne. Sogna cose belle: luminose giornate, piante rigogliose e verdi, caldo, fiumi d’acqua dolce. Poi il corpo si disfa e si disperde nella terra e nelle radici degli alberi. In questa consistenza c’è Dio, che trattiene, testardo e debole, gli atomi sognanti degli amati corpi fino alla fine dei tempi. Vi ricordate la polvere che c’era quel giorno, appena crollate le case, e che è rimasta ostinata per mesi sulla nostra pelle e sui nostri vestiti, sui segnali stradali e sulle macchine parcheggiate, sui tavolini dei bar all’aperto? Quello era il resto, lo scarto dei nostri morti amati; era i sogni delle persone che ci supplicavano di tenerle con noi. Io, amici, ho raccolto quella polvere in un sacco di plastica, affinché i morti potessero sognare ancora. […]

Leggi Il sermone di Torbia di Demetrio Paolin, da Effe n. 5.

Dieci eventi determinanti che hanno fatto di me lo scrittore che sono

5 aprile 2016

di giuliomozzi

[“Dieci”, mi raccomando, non “I dieci”]

1. Sono nato in una famiglia dove si studiava, e si studiava volentieri; e dove c’erano risorse per studiare. Dai genitori – entrambi biologi – appresi, tra le altre cose, un modo di ragionare e parlare rigoroso. Una logica.

2. Mia sorella Maria Luisa studiava lettere, e mi passava poi dei libri, o me li raccontava, o accettava di parlarne con me – che avevo due anni di meno, molta costanza di meno, e moltissima pazienza di meno. Capivo poco, intuivo qualcosa: sviluppavo l’immaginazione, più che l’intelligenza.

3. All’oratorio conobbi Stefano Dal Bianco. Oggi stimato poeta, allora amico prezioso e istruttivo. Aveva un anno meno di me, mi ha insegnato molto, mi ha portato molte letture: faceva qualcosa che io non capivo, ma che mi sembrava vero.

4. Al liceo ebbi, tra gli altri, due insegnanti che avevano per la loro disciplina un appassionamento autentico: Diana Burla, italiano; Renato Bortot, filosofia. Non so quanto ho ritenuto del loro insegnamento: credo di aver intuito qualcosa dal loro appassionamento.

5. Negli anni Ottanta, quando lavoravo nell’ufficio stampa della Confartigianato veneta, per un certo tempo ebbi sopra di me come capo ufficio Guido Lorenzon. Mi fece scrivere molto, mi insegnò molto. Da lui imparai non solo un approccio professionale alla scrittura, ma anche un approccio etico.

6. Nel 1988 trovai in una libreria un libretto di poesie di Laura Pugno, e volli conoscerla. Laura ha dieci anni meno di me, allora ne aveva diciotto: mi ha insegnato molto, ma soprattutto ha riconosciuto qualcosa in me che io stesso non vedevo.

7. Nel 1991 lessi, su istigazione di Stefano Dal Bianco, Grande raccordo di Marco Lodoli. Che Marco Lodoli sia o non sia un grande scrittore, non è questo il punto. Il punto è che quel libro era la cosa più potente che potesse capitarmi in quel momento. E i suoi racconti erano un modello.

8. Nel 1995 o 1996, non so più, conobbi Umberto Casadei: si iscrisse a un mio corso, anzi fu la sorella a iscriverlo. Da lui ho imparato che quando si incontra uno scrittore non c’è altro da fare che mettersi al suo servizio. Lezione utile per gli anni successivi.

9. Nel 2002 o 2003, credo, ricevetti dei racconti da Demetrio Paolin. Non mi convinsero ma mi interessarono. Conobbi così Demetrio. E capii, accidenti se lo capii, che differenza c’è tra uno che fa come me e uno che studia e pensa.

10. E poi sarebbe una lista lunga, molto lunga, di incontri e di apprendimenti. Di alcuni ho preso coscienza solo nel tempo, magari dopo molto tempo. Di altri, chi sa, prenderò coscienza in futuro. Grazie.

“Tre corpi” / In musica

26 gennaio 2016
L'incontro dei tre vivi e dei tre morti

L’incontro dei tre vivi e dei tre morti

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Concerto della memoria e del dialogo / Tre corpi / 3

24 gennaio 2016

Vedi l’articolo del’altro ieri. Pubblico qui il terzo melologo. La musica sarà di Nicola Straffelini.

Tre corpi

3. Quello che era dall’altra parte

Che strana pretesa avete,
che la storia – la storia! – la facciano
i giusti.

La storia, da che tempo è tempo,
la fanno i vincitori.

Quanto a me,
sono di quelli che hanno perso.

Sono morto,
sono stato ucciso,
anch’io sono stato ucciso!
E tuttavia
– poiché sono di quelli che hanno perso –
la morte e l’uccisione
non hanno fatto di me
una vittima.

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Concerto della memoria e del dialogo / Tre corpi / 2

23 gennaio 2016

Vedi l’articolo di ieri. Pubblico qui il secondo melologo. La musica sarà di Claudio Rastelli.

Tre corpi

2. Lo storico

Sapete cosa voglio?
Un libro, voglio un libro.

Un libro che abbia
la forza della carne,
senza le debolezze della carne.

I libri si consumano,
marciscono,
ma sopravvivono
grazie al loro numero.

Quante volte ho ascoltato
mio padre
mentre raccontava.

Ora mio padre è morto
e di quel racconto
non è rimasto nulla.

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Concerto della memoria e del dialogo / Tre corpi / 1

22 gennaio 2016

riva-garda-concerto-memoria

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