di Marco Candida
(Questi appunti riprendono qualche pensiero espresso in questo articolo qui)
Mi è venuto in mente che uno dei limiti della storiografia è che si occupa di cose le quali vanno inesorabilmente allontanandosi giorno dopo giorno. A pensarci, questo genera alcuni paradossi. Uno studioso che si concentri in particolare sulle questioni del bellum sociale a Roma nel 90 a.C., e lo faccia da circa quarant’anni, anziché “saperne sempre di più”, dovrebbe “saperne sempre meno” visto che si allontana dai fatti di cui si occupa ogni secondo che passa. Ma non credo uno studioso tenderebbe a sorridere di questo paradosso.
La fantascienza invece occupandosi del futuro si avvicina via via alle cose che ha per oggetto. Qui non ci sono paradossi particolari. Semmai, rispetto alla storiografia, è più facile smascherarla. Ad esempio, gli extraterrestri non si sono fatti ancora vivi come vaticinavano i fumetti degli Anni 50 ambientando le loro storie ai giorni nostri; né usiamo gli areoplani al posto delle automobili per recarci in ufficio, eccetera.
Ecco, una delle qualità della Bibbia è che riesce a intrecciare passato e futuro, mescolando, per così dire, storiografia e fantascienza. Da un lato testimonia di eventi sempre più lontani, dall’altro grazie al libro dell’Apocalisse, di cose a cui ci si avvicina ogni giorno – e non ci sono nemmeno date precise.
La domanda che mi faccio da un po’ è: la Bibbia è quel libro confuso e fantasioso che ci appare oggi? O è percorso al contrario da estremo rigore? Ed è questo rigore estremo che abbiamo perso di vista, non capiamo più. Abbiamo smarrito il senso unitario totale della mastodontica narrazione biblica. Eppure, non solo la Bibbia è un libro che si colloca nel passato e nel futuro, ma essendo “libro”, essendo lì, consultabile, è anche nel presente e ci offre la possibilità di riconquistare quel messaggio unitario fondamentale in esso contenuto. La Bibbia parla di cose passate e di cose future, ma è anche presente.
Allora, se la Bibbia non è un libro fantasioso, bensì rigoroso, è possibile spiegare lo strano concetto di trinità alla luce di una tale regolatezza? In questi appunti abbozzo, certo in modo un po’ goffo per uno studioso, qualche ipotesi.
Già nel Vecchio Testamento Dio appare con diversi nomi, e da questo punto di vista si potrebbe ravvisare una tendenza a presentare Dio stesso, nel Vecchio Testamento, come un’entità non del tutto padroneggiabile. Sì, Dio è uno, e l’unicità del Signore viene a più riprese confermata e ribadita nel corso della narrazione veterotestamentaria, ma il Dio Unico ha quantomeno una molteplicità di nomi a designarlo. Sotto questo profilo, l’elemento trinitario introdotto dalla dottrina del Cristianesimo non è altro che un’espansione di questa sorta di “monoteismo debole” già ravvisabile nel Vecchio Testamento. Dio non solo può avere più nomi, e può presentarsi sotto forme diverse (il roveto ardente), ma può anche assumere intere identità o essere Spirito.
(Un paio di riflessioni a margine: 1) per i fratelli ebrei Dio può diventare un roveto ardente, e questo non è blasfemo, ed è accettato; ma se diventa uomo, questo è dubbio, eresia; 2) Dio in quanto carne viene flagellato, e una volta risorto porta sulla carne i segni di cicatrici orribili, mentre invece a Dio in quanto Spirito, pura immaterialità, nulla accade: pertanto, si potrebbe dedurre (dico, si potrebbe!) che il male non è nel mondo terreno, ma nella carne. Ecco la differenza tra il mondo biblico e ad esempio Dostoevskij: per Dostoevskij il male è nel mondo, e investe sia le persone che le cose – tutti sono dissoluti, maligni o brutti, e tutte le cose mezze rotte e sporche, decadenti, e non è possibile, mai, manifestazione di bene. Invece, Sant’Agostino è assai più in linea con il messaggio cristiano: secondo il Santo, la carne è la casa del peccato e del dolore, e solo nella condizione di puro spirito non è possibile (è materialmente impossibile) peccare).
A ogni modo, riprendendo il discorso, lo stesso Gesù ribadisce, nel Nuovo Testamento di cui Egli è artefice e protagonista, l’unicità di Dio Padre, e lo fa nel modo più netto e chiarificatore possibile, affermando che il comandamento più importante è il primo: “Non avrai altro Dio all’infuori di Me”. Chiarito questo, Gesù non ha problemi, più tardi, a farsi riconoscere come Figlio di un Dio Insostituibile. Il che non è una contraddizione, ma un’affermazione della consustanzialità Padre-Figlio. Poiché non può esservi nessun Dio all’infuori di Dio, se Gesù è Dio allora Gesù è Dio. Non un rappresentante o la longa manus: è Dio nel suo intero. Il primo comandamento, nell’economia della narrazione biblico-neotestamentaria, viene osservato in pieno nel caso e solo nel caso in cui Dio, per così dire, si sostituisca a Sé stesso.
Il primo comandamento è il principio-guida di ogni evento raccontato nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. Tutto ciò che accade non contradice mai, in nessun caso, il primo comandamento. Ecco la straordinarietà del messaggio cristico. Gesù è venuto a spiegare meglio la Bibbia. Il Dio biblico non è quel castigatore severo che può sembrare a un’occhiata superficiale. E’ l’uomo a essere malvagio e a volersi sostituire a Dio per dominare sugli altri uomini (e magari su Dio stesso). L’uomo fabbrica continuamente idoli. Nel Vecchio Testamento Dio interviene per fare piazza pulita di questi uomini – sia di chi si propone come idolo sia di chi a questi da corda adorandoli. E se qualcuno pensa di potersi sostituire a Dio o di potersi mettere alla pari con Lui o che si trova nella posizione (anche senza volerlo) di poter essere venerato come un dio, allora Dio è costretto ad agire. Si veda la storia di Giobbe, buon osservatore delle leggi di Dio, ma che proprio per questo avrebbe finito per essere paragonabile a Dio stesso. O come altro esempio lampante si veda Mosè che se avesse portato il popolo d’Israele nella Terra Promessa, sarebbe inevitabilmente stato venerato come un dio e avrebbe regnato come un dio. Così, il Signore non volle fargli vedere la Terra per cui Mosè tanto aveva combattuto e sofferto. E poi, ovviamente, il figliolo di Dio. Che è Dio, ma anche Uomo, e che è stato martoriato nei modi peggiori, perché non può esserci un Dio in Terra, quand’anche questi – il Vangelo lo dimostra – fosse il Dio Vero. E poi, Gesù è l’Agnello offerto da Dio agli uomini per togliere i peccati dal mondo. Anche qui, se vogliamo, una ripresa e un’espansione dell’episodio biblico di Abramo e del figlio Isacco. Il Dio biblico non vuole sacrifici umani. Non solo, ma è disposto a fare Lui un sacrificio umano per le sue creature. Un capovolgimento totale, rivoluzionario – qui sì, quasi eresia. Il Figlio è l’Agnello che Dio offre agli Uomini; e gli uomini non esitano naturalmente a farne ciò che vogliono. Anche in questo caso, è interessante notare come la narrazione rispetti con estremo rigore il primo comandamento: abbiamo un Dio-Padre che fa sacrifici umani agli uomini quasi come a chiedere scusa per il diluvio universale e le altre cose, pur meritate e assolutamente in linea con i principi cardine della narrazione biblica, inflitte alle sue creature; e abbiamo altresì un Figlio che non ha nessun potere di Dio, ma anzi è prostrato e inerme difronte agli uomini. Il Dio del Vangelo è un Dio che si comporta come se non fosse un Dio. Antitesi massima, se ci soffermiamo a riflettere, degli atteggiamenti che generano di solito idolatria: forza, imbattibilità, invulnerabilità.
Ora, è chiaro che nel Nuovo Testamento se Dio è un Dio che non si sostituisce, Lui per primo, a Se Stesso (non dice mai, per dire: “Adesso vi faccio vedere di che cosa sono capace”, o se lo fa lo fa attraverso opere buone e meravigliose come camminare sull’acqua o guarire i malati), allora anche il concetto stesso di Dio è un concetto ad alto potenziale esplosivo. Se il primo comandamento è il più importante, e non esiste un Dio al di fuori di Dio, come si fa a dire infatti con sicurezza: “Dio è questo” o “Dio è quest’altro”?. Come si può dire: “Dio è Uno, Vero, Bene”? Se fossimo in grado di stabilirlo, allora noi il concetto di Dio lo padroneggeremmo. Saremmo noi i padroni. Noi decideremmo. E presto fabbricheremmo vessilli, bandiere, gonfaloni… Ma così si contravverrebbe, e nel modo più paradossale, al primo comandamento. Allora, ecco il trinitarismo. Il trinitarismo serve a gettare quell’incertezza necessaria a non padroneggiare mai pienamente un concetto tanto vasto e inesauribile e inafferrabile (e potente – oh sì, tremendamente potente) come quello di Dio. Dio è unità e trinità, e questo per l’uomo è inconcepibile, dunque è incomprensibile, e se non si può capire, non si può padroneggiare. Ecco il senso della trinità divina all’interno della logica (logica, sì) narrativa del Libro di Dio – dove ovviamente non viene espressa a chiare lettere la trinità divina, ma che è assai plausibilmente deducibile, così come assai plausibilmente deducibili sono i concetti fisici di spazio e tempo…). E la disputa nicena e la teologia negativa… tutto questo non fa che confermare quanto l’espediente, dopotutto, abbia funzionato. L’uomo difronte a Dio è inerme, e non può nulla. Persino il concetto stesso di Dio non gli è chiaro. Venera qualcosa che non riesce a comprendere, non può, non gli è dato. Non è in suo potere.
Ecco, più o meno è qui che volevo arrivare con i miei appunti sul concetto di trinità, e mi fermo.