[In questa rubrica vorrei pubblicare descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa io intenda qui per “forma” risulterà, credo, evidente. Se altri volessero contribuire, si facciano vivi in privato (giuliomozzi@gmail.com).]
[Articolo riveduto].
Di Vincenzo Rabito e del suo unico “libro” autobiografico, Terra matta, credo che pochi sappiano e abbiano letto. Rabito, bracciante agricolo siciliano semianalfabeta (pare conquistasse la scrittura a trentacinque anni), fu “ragazzo del ’99” e morì nel 1981 dopo aver caparbiamente scritto, dal 1968 al 1975, le sue memorie. L’incontro con la sua autobiografia fu, per me, casuale: rovistavo nel mare magnum di internet alla ricerca di scritture con punti di vista “dal basso”, per conto di un amico che insegnava in carcere e s’ingegnava a trovare percorsi didattici che in un qualche modo catturassero l’attenzione degli studenti, problematici e con pochi strumenti culturali, ai quali doveva insegnare. L’argomento concerneva gli avvenimenti storici del novecento e io avevo in testa Il mondo dei vinti di Nuto Revelli, ma l’amico era (è) siciliano, gli studenti erano perlopiù siciliani, il carcere è un carcere della Sicilia, l’input doveva essere siciliano.
M’imbattei così in Terra matta che, nella sua forma originale – 1.027 pagine scritte con una vecchia Lettera 32 Olivetti e con interlinea zero, senza margini superiori, inferiori e laterali, e raccolte in specie di quaderni faidate tenuti insieme dallo spago -, è consultabile presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (in provincia di Arezzo). Questo l’insieme che ne risulta (le foto sono prese da internet, non essendo mai andata a Pieve Santo Stefano, ma penso che la consultazione di un manoscritto così inconsueto valga davvero, prima o poi, il viaggio).
Nel 1999 Giovanni Rabito, figlio di Vincenzo, portò all’Archivio di Pieve Santo Stefano una versione riveduta e ridotta del dattiloscritto originale, intitolata Fontanazza. All’epoca lavorava presso l’archivio Luca Ricci. Da un’intervista raccolta da Enzo Fragapane:
Lei è stato il primo ad avere tra le mani la versione rivisitata di Fontanazza ad opera di Giovanni Rabito. Poi, il dattiloscritto originale di Vincenzo Rabito. Potrebbe illustrarci le differenze?
Sì, sono stato il primo ad averla in mano, non il primo a leggerla. Nel luglio del 1999 Giovanni Rabito la portò. Mi limitai alla schedatura. Parlai con lui, mi raccontò, la sfogliai; le prime due persone che lo lessero erano della commissione di lettura: furono loro a chiedere a Giovanni Rabito di mandare il testo originale. La differenza era sostanziale: il testo di Giovanni era proprio un’opera che voleva essere un libro; quando portò con sé il materiale a Bologna, provò a farlo pubblicare da alcuni editori: erano gli anni del «Gruppo ’63» e di una forte sperimentazione linguistica. Aveva pubblicato delle poesie, aveva trovato alcuni agganci, ma il dattiloscritto non venne pubblicato. Giovanni Rabito ne fece una rielaborazione: un testo più breve, molto rielaborato, con una scrittura un po’ alla Camilleri, cioè in un siciliano letterario, conosciuto ma allo stesso tempo reinventato e, quindi, molto addomesticato.
Giovanni consegnò all’Archivio il dattiloscritto originale. Ancora Luca Ricci:
L’originale stupì tutti: era un muro invalicabile. L’impressione fu molto negativa perché la ritenevo illeggibile; però, s’intuiva che eri davanti, comunque, a qualcosa di unico. Superato questo muro, l’opera ha una grande capacità di prenderti.
L’autobiografia di Vincenzo Rabito infatti vince il Premio Pieve per diari e memorie inediti con questa motivazione:
Vivace, irruenta, non addomesticabile, la vicenda umana di Rabito deborda dalle pagine della sua autobiografia. L’opera è scritta in una lingua orale impastata di “sicilianismi”, con il punto e virgola a dividere ogni parola dalla successiva. Rabito si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia e con la macchina per scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da poter essere paragonato a un Gattopardo popolare. L’asprezza di questa scrittura toglie la speranza di veder stampato, per la delizia dei linguisti, questo documento nella sua integralità. “Il capolavoro che non leggerete”, così un giurato propone di intitolare la notizia sull’improbabile pubblicazione di quest’opera.
Luca Ricci preparò una versione ridotta dell’opera (senza ritoccare la scrittura) per farla circolare nel mondo editoriale (questo lavoro fu svolto anche grazie a due contributi economici, del Ministero per i Beni e le Attività culturali e della società siciliana Augustea):
La prima versione che avevo preparato, capendo la particolare difficoltà di quest’opera di “entrare nelle librerie”, era la versione intermedia. C’erano molte più note di quelle presenti in Terra matta, erano indicati tutti i punti in cui avevo fatto tagli, così da mandarlo a due tipi di editori: commerciali (Feltrinelli, Sellerio, Rizzoli, Einaudi) e specialistici (Pacini, Carocci), magari più propensi a realizzare un’edizione critica, con un apparato di note più ricco. Poi, a seconda dell’editore destinatario, l’avrei adattata secondo una diversa prospettiva. Einaudi è stato il primo e anche l’unico a rispondere. Le difficoltà erano i tagli, la divisione in capitoli, i capoversi, la punteggiatura: quale andamento scegliere? Quello sonoro, o quello della lingua scritta? Poi, i titoli dei vari capitoli, il titolo dell’opera.
Alla fine Einaudi, anche grazie a due contributi, decide di pubblicare l’opera, affidandone la lavorazione alla scrittrice Evelina Santangelo.
Così spiega Santangelo in un intervento di oggi in Facebook [dove ha avuto la cortesia di correggere alcuni nostri errori, gm]:
Dopo aver letto la riduzione di Ricci, ho ripreso in mano il dattiloscritto, avendo da Einaudi carta bianca sulle scelte, e ci ho lavorato su per tre anni. Ho però ritenuto giusto far vedere il lavoro fatto «in solitario» a Luca, in quanto rappresentante dell’Archivio durante due lunghe sedute di lavoro. È chiaro che quella prima versione ridotta fatta da Luca per l’Archivio […] per me è stato un punto di partenza importante, anche se poi ho seguito una logica di lavoro abbastanza diversa. Così importante che i titoli dei capitoli ad esempio sono rimasti gli stessi scelti bella sua riduzione da Luca (a differenza del titolo generale dell’opera che è invece stato frutto di una lunga e complessa discussione in casa editrice).
Il testo sarà ridotto a quattrocentoundici pagine, suddiviso in ventidue capitoli e reso formalmente più accessibile alla lettura, pur senza tradirne il flusso orale e lo stile. Esce nel 2007 nella collana più nobile di Einaudi, i Supercoralli.
La Nota dei due curatori rispetto i criteri adottati nel “rivedere” l’autobiografia di Vincenzo Rabito recita:
I criteri cui ci siamo attenuti hanno inteso dar conto dell’intero percorso biografico dell’autore e della sequenza dei blocchi narrativi. Inoltre abbiamo voluto a ogni costo rispettare le scelte linguistiche dell’autore, conservandone quasi integralmente la peculiare grammatica. Nostra è invece la suddivisione in capitoli, paragrafi e capoversi, dove l’originale si presenta come un flusso continuo. Abbiamo operato alcune integrazioni solo nei casi in cui si rendevano necessarie per la comprensione di frasi o passaggi narrativi. Tali interventi sono limitati al minimo indispensabile e sempre indicati con il corsivo.
I principali interventi si sono concentrati sull’ortografia e la punteggiatura. Nel primo caso si è cercata una mediazione tra leggibilità e caratteristiche espressive. In particolare, abbiamo inserito l’h nel verbo avere e i segni diacritici secondo l’uso corrente. In alcuni casi abbiamo scomposto le parole che Rabito scriveva abitualmente unite (diaiutarle, famorire), in casi sporadici abbiamo viceversa ricostruito unità lessicali che si presentavano graficamente scomposte (inalfabeto per nafabeto).
La punteggiatura originale prevedeva un uso ipertrofico del punto e virgola, e un uso sostanzialmente casuale delle altre forme di punteggiatura.
Il nostro criterio, finalizzato alla leggibilità, è stato di regolarizzare la punteggiatura cercando, nel contempo, di restituire l’oralità propria di questa scrittura.
Le note a piè di pagina sono di contestualizzazione storica e geografica oppure di tipo linguistico, per chiarire termini dialettali o l’idioletto dell’autore.
Lo spirito con cui abbiamo lavorato è stato quello di restare il più fedeli possibile alle intenzioni dell’autore, al suo desiderio di raccontare con semplicità e a tutti le proprie esperienze di vita”.
Per avere un’idea parziale del lavoro di “riaggiustamento” adottato, si può confrontare la prima pagina originale del primo capitolo di Rabito (una foto di questa è presente dopo la seconda di copertina), con la stessa revisionata dai curatori e presentata nel loro Primo capitolo dal titolo: Come garzonello.
Più nel dettaglio va Luca Ricci, nella già citata intervista:
Lei ha lavorato dal 2000 al 2003 sul dattiloscritto originale, con la consulenza dall’Australia di Giovanni Rabito. Un’avventura… Quanto è stato difficile per un toscano lavorare sul dialetto siciliano di un semianalfabeta settantenne?
Per un verso, ho sempre detto che era un vantaggio non essere siciliano, nel senso che mi permetteva di relazionarmi con quest’opera, intuendo con immediatezza ciò che non era facile da cogliere per un lettore non siciliano: quello che non capivo io, non l’avrebbero capito altri; quindi, in un certo senso, era anche una posizione privilegiata quella dell’osservatore esterno. Il mio limite era che non conoscevo alcune strutture sintattiche, alcune formule, e perciò usavo dei dizionari italiano-ibleo; la parte di contestualizzazione geografica, localistica, non la potevo trovare da nessuna parte, e quello era un lavoro che facevo con Giovanni, come quello sulle note linguistiche più dettagliate, per avere il punto di vista di un «parlante», di uno che quella lingua la masticava; poi, verificavo. La difficoltà era molteplice perché bisognava distinguere tra la sua volontà di italianizzare alcune cose, il suo specifico idioletto cioè la sua lingua, la sua creatività, gli errori di battitura: ad esempio, se trovavo due o tre volte lo stesso “errore”, si capiva che, invece, era stata una sua scelta. Il vero confronto rimaneva con il testo. Dentro il testo trovavo le risposte su lessico e sintassi. […]
Trovate le «chiavi di accesso» per dialogare con Vincenzo Rabito, quali criteri per scegliere/tralasciare le parti del dattiloscritto da riprodurre in Terra matta?
Abbiamo cercato di rispettare proprio la sequenza narrativa in Terra matta: ci sono solo due o tre giustapposizioni di sequenza, due o tre punti in cui abbiamo anticipato qualcosa. Alcune volte, sarebbe stato più semplice spostare delle frasi e magari risparmiare mezza pagina: si sarebbe evitato qualche punto in cui magari Rabito ha meno efficacia; però, questa cosa non l’ho mai voluta fare, e Santangelo è stata d’accordo con me. L’obiettivo è stato quello di non intervenire mai in maniera creativa; poi, è chiaro che ogni scelta è per forza di cose un elemento per il quale anche il contenuto viene un po’ condizionato: non dico alterato, ma modificato. C’era un rispetto filologico del testo, dell’«errore», della volontà dell’autore, che avevo appreso negli anni di Pieve; quindi, ci siamo detti: non riscriviamo, non forziamo, non facciamo gli autori, ma cerchiamo di metterci al servizio di quest’opera. […]
Come avete trovato l’equilibrio tra leggibilità, fedeltà allo spirito dell’autore, interventi redazionali, rispetto del pubblico destinatario? Si sente «sarto dalla mano leggera»?
Per me era mettersi al servizio: non riscrivere, non alterare; era questa la chiave di fronte a quel muro di complessità in cui trovi una porta. Mi metto di fianco, non di fronte, e lo aiuto a venir fuori. La definizione mi piace: c’era l’abito, bastava fare qualche ritocco.
E aggiunge Evelina Santangelo:
Per alcune soluzioni riguardanti i segni diacronici e l’ortografia, sono ricorsa ai consigli preziosi del filologo e responsabile oggi dei classici Einaudi Mauro Bersani (anche quelle scelte sono frutto di ragionamenti complessi sulla natura dell’opera che si voleva infine pubblicare). Né si può tacere il ruolo di Paola Gallo, responsabile della Narrativa Italiana, che ha sostenuto senza mai un momento di incertezza quel mio lavoro che pareva infinito e la pubblicazione (che preoccupava non poco).
Il libro esce con una copertina rigida e una foto in bianco e nero: Solo, di Mario Lasalandra, Mario Lasalandra, classe 1933, uno dei fotografi più innovativi nel panorama contemporanei; le sue opere sono esposte in musei e collezioni internazionali.
E di cose da raccontare Vincenzo Rabito ne aveva, se si è chiuso a scrivere in una stanza per sette anni senza dar conto a nessuno, lottando caparbiamente contro i suoi limiti strumentali. Voleva raccontare la sua vita “molto maletratata e molto travagliata e molto desprezata” perché, come ancora scrive all’inizio dell’autobiografia: “Io fui nato per fare una mala vita molto sacraficata […] con pure che invece di antare alla scuola sono antato allavorare da 7 anne, che restaie completamente inalfabeto”. Ne è venuta fuori una scrittura popolare di grande forza espressiva sia per la mescolanza d’italiano e siciliano, sia per il punto di vista di chi, fra gli ultimi, la vita se l’è trovata addosso più per essere agito da lei che con la possibilità di agirla. Mezzo secolo di storia italiana da una prospettiva del tutto insolita in cui la piccola storia personale si mescola agli avvenimenti della Storia più grande fino a quella “bella ebica” del boom economico che, oltre alla sicurezza materiale gli permette di far studiare i tre figli fino al raggiungimento, per uno di loro, di quel riscatto sociale che con “l’oniversetà” lo farà diventare “incegniere”.
Un’esistenza riscattata, oltre che dal considerare lavoro e studio come valori di riferimento, anche dalla scrittura, e che interroga su quanto, questa, pur non essendo mestiere, resti pratica importante nella vita di tutti.
Leggevo, a questo proposito, dell’incontro-intervista di questi giorni, (14 luglio 2017, Paolo di Paolo, Repubblica), fra Alessandro Baricco e David Eggers (per citare due dei tanti, scrittori e Maestri di scrittura – qualcuno altrettanto Bravo e Noto -, che lavorano nel campo della formazione), e riflettevo sulle loro risposte alla domanda:
Scrivere è davvero essenziale anche per chi non ne farà mai un mestiere?
Eggers: È assolutamente centrale. Per gli studenti a basso reddito che seguiamo nella nostra scuola, l’abilità nella scrittura può significare l’ammissione a un’università di livello, passare da scarse aspettative a luoghi di opportunità. E comunicare con efficacia è un’abilità che chiunque può acquisire con un lavoro assiduo. Negli Stati Uniti abbiamo avuto otto anni dignitosi con un presidente venuto in primo piano attraverso le sue capacità di scrittura; Obama ha scritto il proprio destino con il suo primo libro, Dreams of My Father. E questo è stato un grande esempio per gli studenti, specialmente per quelli di colore. Ora l’uomo alla Casa Bianca è l’opposto, uno che non legge libri e non sa sillabare la parola “presidente”. È un esempio devastante per cento milioni di giovani.
Baricco: A che serve scrivere se non si è scrittori? A trovare una gerarchia nel caos, per esempio. La più semplice delle frasi è un sistema gerarchico. E così la costruzione di un racconto esercita la capacità di organizzare un’enorme quantità di materiale. Prendi un manager: si sveglia la mattina e deve risolvere problemi. Se riesce a farlo è soprattutto perché sa metterli in ordine, rapidamente. Un’altra cosa che oggi serve in qualunque campo, è la duttilità: saper lavorare simultaneamente su tavoli diversi. Quando scrivi una storia impari, mettiamo, a costruire un dialogo fra quattro persone: un vecchio, un bambino, uno che balbetta e un analfabeta. Ecco, quando in una riunione hai davanti a te l’americano proprietario dell’azienda dove non aveva ancora messo piede, il tuo vecchio capo che non capisce più tanto, una rampante ragazza di ventott’anni e devi metterli in relazione… be’ se hai scritto un racconto come si deve, metà del lavoro l’hai già fatta.
Ecco, io penso che Vincenzo Rabito – così fuori dal mestiere di scrittore – abbia sentito la necessità di scrivere anche per trovare una gerarchia nel caos, un filo rosso conduttore che potesse dare qualche risposta in più, un diverso senso alla sua esistenza, rivedendola, nella distanza degli anni, ri-soppesata dal segno grafico oltre che dalla memoria; così come, a guisa di testimone, Rabito abbia voluto che tutta la consistenza della sua esperienza di vita non andasse perduta e passasse di mano, quasi fosse un paradigma, per asserire che solo con la caparbietà di un impegno assiduo, anche o soprattutto, (a seconda se hobby, vocazione o professione) di scrittura, si può davvero passare da scarse aspettative a luoghi di opportunità e di cambiamento.
Tag: Alessandro Baricco, Dave Eggers, Emanuela Carbonelli, Enzo Fragapane, Evelina Santangelo, Giovanni Rabito, Luca Ricci, Mauro Bersani, Paola Gallo, Paolo Di Paolo, Vincenzo Rabito
28 luglio 2017 alle 09:24
La ringrazio per lo spazio offertomi, per la pazienza dimostratami e per il preziosissimo supporto anche a integrazione dell’articolo. Dire che Lei sia un ottimo Maestro è riduttivo anche se, con i miei, – ormai ex -, trentacinque anni di docenza, posso aggiungere che lo è davvero a tutto tondo e che tanto sa dare in questo senso. Poi è anche una gran bella persona e questo, umanamente, è ancora più prezioso ad incontrarsi. Con rinnovata stima, Emanuela Carbonelli.
28 luglio 2017 alle 09:38
Bell’articolo. Interessante libro. Potente immagine di copertina (parla da sola). Affascinanti i dattiloscritti, i fascicoli rilegati con la corda.
Lo leggerei, ma non posso; cioè, non me la sento. Non sono abbastanza salda sulle gambe della grammatica per permettermelo. E mi scoccia tanto. Ma sono felice di averne scoperta l’esistenza.
28 luglio 2017 alle 10:22
Molto interessante. E’ poi stato usato nelle carceri? Con quale esito? Anche questo m’interessa molto. Grazie, GM.
28 luglio 2017 alle 10:58
“Tutto tondo”, Emanuela? Ma vedrai, dopo la dieta…
28 luglio 2017 alle 12:58
😀 era in senso figurato, ovvio, comunque auguri per la dieta che è sempre un “passaggio” arduo, imposto o scelto che sia, ma l’estate aiuta.
28 luglio 2017 alle 13:17
libro straordinario, potentissimo, spietato, una querela al Signore, lo definii recensendolo per Liberazione.
una domanda: ma Luca Ricci non è lo scrittore toscano autore di racconti Luca Ricci, giusto?
28 luglio 2017 alle 17:05
No, Sergio. Esiste un Luca Ricci filologo, del quale qui si tratta, e un Luca Ricci scrittore, del quale qui non si tratta. Ero vissuto anch’io a lungo nell’illusione; Evelina Santangelo l’ha dissipata.
28 luglio 2017 alle 17:09
Mi ricordo ancora quando uscì: ne rimasi molto colpito e mi ripromisi di comprarlo e leggerlo. Forse, grazie a questo post, è la volta buona che lo faccio davvero!
28 luglio 2017 alle 20:05
To Rossana V.
Il docente amico così ha risposto sulla pagina face di Giulio Mozzi, rispetto la ricaduta didattica: “Telemaco Holden: I miei studenti dell’alta sicurezza (carcere Petrusa, Agrigento) a sentirmi leggere Terra matta, hanno riso di cuore…” per avere maggiori ragguagli lo si può contattare, è persona disponibile. Rispetto un impiego didattico maggiormente fruibile segnalo il film dvd di Costanza Quatriglio: Terramatta di Cliomedia Officina e Cinecittà Luce.
29 luglio 2017 alle 13:07
Emanuela, grazie di cuore.
2 agosto 2017 alle 13:47
Esiste anche un bellissimo documentario (2012) della regista costanza quatriglio proprio intitolato “terra matta” tratto dal libro di vincenzo rabito
8 agosto 2017 alle 17:51
Cari tutti,
è un piacere immenso imbattermi in un articolo del genere, sul carissimo Vincenzo Rabito. Lessi per la prima volta il suo scritto mentre ero all’Università, quando alla Sapienza il grande Prof. Vidotto lo citò come un vero e proprio caso editoriale. Lo acquistai subito e lo lessi tutto d’un fiato.
Oggi, ormai da anni, collaboro con l’Archivio diaristico nazionale, dove sono custodite le 1027 “pacene” del dattiloscritto del geniale narratore siciliano. Oggi nel Piccolo museo del diario a lui e alla sua “Terra matta” abbiamo dedicato un’intera stanza e proprio per questo vi scrivo qui, oggi. Per invitare tutti voi a venire a Pieve Santo Stefano (AR), nell’Appennino toscano: l’incontro con questo testo e con questa storia sarà folgorante!
Quanto a me, mi sono da allora innamorato talmente tanto di quel libro da aver creato un blog che ho chiamato, appunto, terramatta.
Qui il link al sito del museo, per chiunque di voi volesse scoprire questo piccolo ma prezioso gioiello dedicato alle memorie private degli italiani: https://www.piccolomuseodeldiario.it/it/
E dato che nell’articolo si parla del “Premio Pieve”, vinto da Rabito nel 2000, vi ricordo che dal 14 al 17 settembre si terrà (sempre a Pieve santo Stefano) la 33esima edizione. Una bella occasione per venire a trovare Rabito…
Un saluto a tutti. E’ sempre bello incontrare persone che amano leggere…e scrivere!
Marco Pellegrini
8 agosto 2017 alle 20:10
Molte grazie per l’invito, per l’aggiornamento e per la cura e l’entusiasmo che profonde per Terramatta e per l’Archivio diaristico nazionale. Personalmente non mancherò- già me lo ero ripromesso- di “metter naso” a pieve Santo Stefano. La lettura e la scrittura sono balsami che sovente riconciliano con la vita ed è bello, sì, trovare persone che le amino fino a superare l’apparente insuperabile così come Vincenzo Rabito. Un caro saluto, Emanuela Carbonelli
8 agosto 2017 alle 22:19
“ Martedì 9 ottobre 2012 – « Proprio come Vincenzo Rabito di Terra matta, è un siciliano analfabeta il nuovo vincitore del premio Pieve Saverio Tutino dedicato ai diari. “ Nelle sue memorie rievoca una infanzia di abusi, abbandono e violenze con una scrittura allo stesso tempo sorgiva, lirica e visionaria, capace di una empatia quasi magica con la natura e gli animali “: così la Giuria del Premio Pieve Saverio Tutino si è espressa decretando Castrenze Chimento – siciliano analfabeta, che ha imparato a scrivere a 74 anni proprio per raccontare la sua storia – vincitore della 28esima edizione della manifestazione. Ospite d’onore dell’evento promosso dall’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano (Arezzo) è stato il regista, attore e produttore cinematografico Nanni Moretti, al quale è stato conferito il premio Città del diario 2012. » (Dal web) “.
11 agosto 2017 alle 17:44
C’è, peraltro, un “illustre precedente” a questo libro, ed è “America! America!” di Antonio Margariti, 136 pp., edito per la prima volta nel 1979 per i tipi di Galzerano Editore (Casalvelino Scalo – SA) e inserito nella collana “Atti e memorie del popolo”. Antonio Margariti era nato nel 1891 a Ferruzzano (RC). Perso il padre emigrò in America, dove ebbe modo di lottare anche contro l’esecuzione di Sacco e Vanzetti, conobbe Carlo Tresca, ma anche gli italiani che là avevano importato la mafia. Torna in Italia nel 1948, ripartendo poi per Willow Grove (presso Philadelphia). Il libro è, fino a pagina 92, la trascrizione in italiano del testo originale, totalmente e integralmente riportato nelle pagine successive. I fogli sono scritti a macchina, anche questi fittissimi e senza correzioni visibili di sorta. Nelle intenzioni del Margariti (che imparerà molto faticosamente a scrivere il suo slang frequentando pochissimo le elementari e poi i circoli anarchici italiani negli USA): “Il mio scritto parla perse e che non tende avere delle pretese O’valore letterario perche’ io non sono un alletterato il contenuto del mio povero scritto non è altro che quello che io ricordo della mia lunga esistenza poca felice O’vita se vita sipuo chiamare Cioe il mio duro passato”. Dal canto suo l’editore, nella sua nota al testo, scrisse: “Quando mi giunse il manoscritto lo lessi restandone entusiasta e fui tentato di pubblicarlo così come era stato redatto pur rendendomi conto che in tal modo se ne limitava la circolazione solo nell’ambiente meridionale e presso chi ha familiarità con i dialetti meridionali”. Alla sua uscita “America! America!” fu recensita dai maggiori quotidiani italiani. Diventa un caso. Il libro è finalista al Viareggio e medaglia d’oro al Premio Villa San Giovanni. Come è stato riportato: “Anche senza distribuzione, la prima edizione del libro si esaurisce ben presto e così Galzerano cura una seconda edizione”. Il libro giunge, così, alla sesta edizione per 22.000 copie tirate. Un successo per un editore così piccolo, il quale aveva iniziato la sua attività pochi anni prima, nel 1975, da Giuseppe Galzerano, allora studente-lavoratore di 22 anni, investendo un capitale di “appena trecentomila lire ricavato da una vertenza contro un agrario” presso il quale aveva lavorato come bracciante.
24 agosto 2017 alle 22:28
grazie, Antonio Celano, per la preziosa segnalazione. Di Margariti non sapevo niente, e dal poco che ne leggo qui, mi spiace molto che sia stato abbastanza dimenticato, come mi pare che sia. Su Rabito invece nel mio liceo anconetano lavorammo un poco, parlandone coi ragazzi e mostrando loro il bel documentario segnalato nel commento di Emanuela.
23 febbraio 2021 alle 08:01
melantha
Come sono fatti certi libri, 8 / “Terra matta”, di Vincenzo Rabito | vibrisse, bollettino