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“Anatomia di un profeta”, di Demetrio Paolin

5 aprile 2020

di Giulio Mozzi

Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin (Voland 2020) è un libro di cattivo gusto.

L’autore pretende che non sia un romanzo (“Ecco perché questo libro non è un romanzo”, p. 236) e pretende che sia un romanzo (“E quindi non è neppure così strano che questo libro sia effettivamente un romanzo”: stessa pagina!): mi toglierò il problema chiamandolo “libro”, e basta.

Il 19 dicembre del 2017 pubblica in Facebook un post piccolo piccolo, di poche righe ma con un titolo: “PUBBLICA CONFESSIONE DELL’INSEGNANTE DI SCRITTURA. – E’ un mio allievo: tutto quello che sa, l’ha imparato da me. Però l’ha capito meglio, l’ha studiato di più, e lo fa come io non sarei mai capace” (vedi). Demetrio fu il primo a commentare, stolidamente: “È il desiderio che dovrebbe guidare l’insegnamento, che l’allievo sia migliore più capace del maestro”. Non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che io, scrivendo quelle poche righe, avessi in mente lui. All’epoca avevo già letto una prima parziale stesura dell’Anatomia (che non si chiamava ancora così).

In realtà Demetrio non è mai stato mio allievo. Ci siamo conosciuti parecchi anni fa, sì, a mia memoria (ma non mi fido, per principio, della mia memoria) nel 2002, al tempo in cui io curavo per l’editore Sironi la collana Indicativo Presente: Demetrio mi aveva mandato dei raccconti, a me era sembrato che ci fosse dentro “qualcosa”, avevamo concordato di vederci. Passammo insieme forse un paio d’ore, io cercai di dirgli che cosa era quel “qualcosa” che avevo visto, e lo feci nell’unico modo che sapevo e che so: indicandogli alcune pagine nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” ci fosse, e scartandone altre – molte di più – nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” non ci fosse. Facemmo anche tante chiacchiere, un po’ imbarazzate come può capitare in un primo incontro, e in mezzo a queste chiacchiere Demetrio mi raccontò quanto segue.

Che qualche anno prima lavorava come cronista di nera, più o meno, per un settimanale piemontese. Che un giorno il suo capo lo aveva convocato, gli aveva buttato là un libro, e gli aveva detto: “Il senatore Ernesto Rossi [eletto in Alessandria] ha fatto un’interrogazione parlamentare per questo libro, ha minacciato una denuncia, sostiene che sia un libro che incita alla pedofilia. Visto che tu sei uno che legge, facci un pezzo”. Che il libro era il mio Il male naturale (quindi era il 1998), pubblicato da Mondadori. Che se lo lesse, e ne rimase folgorato.

(Poi, negli anni, Demetrio ha fatto tante cose, tante ne ho fatte anch’io, alcune ne abbiamo fatte insieme).

Tredici anni dopo, quando Il male naturale fu ripubblicato presso l’editore Laurana, chiesi a Demetrio di scrivere un breve saggio che facesse da posfazione. Demetrio acconsentì e scrisse, e tra le altre cose scrisse: questo libro è “il tentativo di mettere in chiaro il male, ma nello stesso tempo tale nitore è sadico perché infligge al lettore un dolore acuto pagina per pagina come a dire che il male può essere detto, ma l’unica esperienza di male che possiamo fare è quella del dolore fisico. Ovvero io sento il male perché ho un corpo”.

Anatomia di un profeta è il tentativo di non mettere in chiaro il male. Di prenderlo così com’è, oscuro e inspiegabile. Per questo, rispetto a quello che scrissi io, è un libro molto più forte e coraggioso.

Era da un pezzo – perché da un pezzo so di questo libro, ne ho lette due versioni e mezza, e mi sono sempre ben guardato dal dire a Demetrio che cosa me ne paresse: non volevo entrarci – che dicevo a me stesso, e dicevo a certe persone amiche, e credo di aver detto anche all’interessato: “Bisognerà che con Demetrio ci faccia i conti, prima o poi”.

Anatomia di un profeta tenta caparbiamente, pagina dopo pagina, di prendere la forma di romanzo; e continuamente fallisce. Fallisce con un certo compiacimento, direi, e anche con un certo fasto: tutta una serie di trucchi grafici e di impaginazione, palesemente mutuati un po’ dal Tristram Shandy di Laurence Sterne e un po’ dall’Anatomy of melancholy di Robert Burton sono la testimonianza del tremento sforzo sostenuto da Demetrio per dare l’illusione – è complicato da dire, ci provo – che ci sia una “forma”, di tipo “informale”, in un testo che invece è semplicemente “informe”. Un travestimento, insomma.

Ufficialmente Anatomia di un profeta è un tentativo di Demetrio (del Demetrio reale, che ha scritto il libro, attraverso il Demetrio finzionale, che vi compare dentro) di fare i conti con la morte per suicidio di un bambino, Patrick (del bambino reale, che il Demetrio reale conobbe, e del bambino immaginario, che il Demetrio finzionale instancabilmente produce e sonda); e di fare i conti con Dio. Il tramite di questa contabilità è Geremia, il profeta involontario, il profeta inascoltato, il profeta di sventura, il profeta lapidato.

Non è, Anatomia di un profeta, un romanzo spritiuale. Tutt’altro. E’ un romanzo carnale. E’ un romanzo dal quale ogni trascendenza sembra bandita. La stessa speranza della “resurrezione dei corpi” e del “mondo che verrà” (p. 138 sgg) è da un lato presentata come speranza disperata, e dall’altro rappresentata così materialisticamente da non sembrare nemmeno una speranza di un “al di là”: “io mi figuro questo tornare in vita come quando ci si sveglia dopo un sogno angoscioso: il cuore in gola, il respiro affannato, un dolore vasto lungo le membra” (p. 139). Per i Demetrio, tutti e due, una cosa è certa: che ciò che c’è è il corpo, e che non c’è nulla della persona oltre il corpo.

In fondo, nelle sue duecentocinquanta pagine Anatomia di un profeta non fa che ripetere una e una sola cosa. “Lui che si è fatto morte diventerà vita, perché Dio gli è entrato dentro” (p. 65): e potete scegliere chi sia questo “lui”, se sia il Messia o il bambino Patrick o il profeta Geremia o – per immaginazione – il Demetrio finzionale o – per desiderio – il Demetrio reale. Potete scegliere tanto fa lo stesso. La vita è morte, la morte è vita, la perdizione è salvezza, la bestemmia è lode, il Dio è il male, il dolore è il bene, la fine è…

No. In realtà non c’è scritto, che la fine è l’inizio. La fine è la fine, e poi eventualmente c’è quello svegliarsi confuso dopo un sogno angoscioso.

E tanto è il cattivo gusto che abita in questo libro, che spesso non si capisce se ci si trova davanti a un tentativo di dire l’indicibile (letteratura mistica, o giù di lì), o a una rinuncia a dirlo (idem), o a un tremendo gioco di parole, o a un vanitoso “concetto” barocco – come qui: “Ecco la salvezza del mondo: le ossa di Patrick nella terra diventeranno presto alberi e fiori. Saranno il nutrimento delle radici e lui, che ha bevuto il diserbante, diventerà nutrimento per le piante”.

Davanti a tanta sfacciataggine o spudoratezza, davanti a tanto esibizionismo, davanti a tanta mancanza di gusto, davanti a un tale orrore io – che provai, come scrisse Demetrio, a suo tempo, a “mettere in chiaro il male”, mi ritiro in un angolo. Demetrio ha superato questo bisogno – illuministico, in fondo – e ha accettato l’oscurità del male, l’incomprensibilità di Dio, l’inenarrabilità della salvezza, l’indescrivibilità del miscuglio. E infatti mentre io, qua e là, nei miei racconti, e anche nel libricino 10 buoni motivi per essere cattolici che compilai con Valter Binaghi in quello stesso 2011 in cui si ripubblicava Il male naturale, mi sono confrontato con l’immaginario biblico – riducendo così la Bibbia a una cosmologia mutevole ma in fin dei conti ordinata -, con molta più forza Demetrio si è confrontato con il testo biblico: incorporandolo, riscrivendolo, subendone l’incoerenza e la magmaticità, prendendolo per quello che è.

Forse è vero che ho insegnato qualcosa a Demetrio. Certamente è vero che lui, oggi, è molto più in là. In queste settimane (non ditelo a nessuno, per carità) sono tornato alacremente a lavorare su quello scartafaccio – le cui carte più vecchie risalgono al 1998 – che sarebbe il mio famoso romanzo; e, come faccio spesso, pur essendo lo scartafaccio ancora un cantiere aperto ho provveduto già a dotarlo di una “Notizia” finale: che rende brevemente conto del lungo lavoro, delle successive redazioni, e così via. In questa “Notizia” ho scritto anche:

“Mi fa compagnia, e mi istruisce, in questi giorni, il romanzo di Demetrio Paolin Anatomia di un profeta. Demetrio ha detto, ha scritto spesso che fu un mio libro del 1998, Il male naturale, a mostrargli che di certe cose si poteva parlare, e in quali modi si poteva parlarne; Anatomia di un profeta mi ricorda, spero definitivamente, che l’importante non è la letteratura, l’importante è la vita – e il coraggio.

Dunque: m’inchino, e sono grato.

(E un applauso a Daniela Di Sora, la signora Voland, l’editrice: che ci vuol fegato, a pubblicare un libro così).

Questo è ciò che ho saputo scrivere: non una recensione, ma un fatto privato tra me e Demetrio. Se vi interessa una recensione vera e fatta bene, leggete quella che – per conto del gatto Luigi – ha scritto Sandro Campani: è in Facebook, qui.

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