Posts Tagged ‘Edoardo Zambelli’

Romanzi, atlanti

29 ottobre 2019

di giuliomozzi

Per capire che cos’è il libro Plotted: a literary atlas di Andrew DeGraff basta spendere due minuti e guardare il video qui sopra. In sostanza, contiene una serie di “mappe” di un mannello di capolavori della letteratura soprattutto anglosassone (eccezioni: Omero, Kafka, Borges). Libri che conosciamo tutti, da Moby-Dick ad Amleto passando per Orgoglio e pregiudizio e Le avventure di Huckleberry Finn. Ho messo tra virgolette la parola “mappe”, perché va intesa nel senso più largo: la “mappa” di Moby-Dick, per esempio, non riporta i viaggi della Pequod, ma illustra gli esterni e gli interni della nave e di un capodoglio; mentre la “mappa” di Amleto riporta fedelmente i movimenti di tutti i personaggi della tragedia all’interno del castello di Elsinore [e mi ha fatto venire in mente, senza possibilità di scampo, l’Amleto a fumetti di Gianni De Luca (disegni) e Raul Traverso (sceneggiatura)].

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“La perfezione”, di Raul Montanari

26 giugno 2019

di Edoardo Zambelli

RAul Montanari, La perfezioneLa perfezione, di Raul Montanari, è uscito la prima volta nel 1994 per Feltrinelli e lo ripropone adesso Baldini e Castoldi, in un’edizione rivista dall’autore. Non ho letto il libro quando è uscito, l’ho fatto solo adesso, e l’ho trovato splendido.

In un breve saggio del 1972, Notes on film noir, Paul Schrader affermava che il noir non è un genere, non è definibile attraverso convenzioni narrative – siano queste l’ambientazione, i personaggi, il tipo di conflitto; si tratta piuttosto di un tono, uno stile visivo che può impregnare ed attraversare qualunque genere. Questa considerazione è, a mio parere, validissima anche per la letteratura, e viene utile anche per operare una veloce differenziazione tra il noir e il giallo, dato che spesso si tende a pensarli simili, se non addirittura a pensarli come sinonimi. Il giallo è un genere, necessita di precisi elementi per definirsi tale: omicidio, indagine, risoluzione. Certo, è pur vero che vi sono stati – e vi sono ancora – autori capaci di giocare che questo schema e piegarlo ad altri risultati, basti pensare a Todo Modo di Sciascia o La Promessa di Dürrenmatt. Il giallo – giusto per darne una definizione veloce e superficiale – è il tentativo di ricomporre l’ordine che è stato compromesso dal fatto delittuoso, e può muoversi e funzionare solo a patto di rispettare determinate convenzioni. Anche gli autori che ho citato prima ne hanno fatto uso, e solo per dimostrare l’impossibilità di restituire al mondo quell’ordine che il giallo si propone di ristabilire. Di tutto questo, il noir non ha bisogno, si muove anzi in una direzione quasi contraria. Anche quando ha il proprio motore nell’investigazione, questa – e soprattutto il suo scioglimento – non si configura come un ripristino di un ordine, al contrario, è l’affondare in un mondo nero, in un mistero che conserva il proprio segreto. Un esempio su tutti: il Marlowe di Raymond Chandler. Indaga, sì, ma è più un fluttuare negli eventi, è più controllato che in controllo, e partecipa della stessa confusione del lettore. Si muove, per così dire, nel caos. Ecco, allora, per concludere direi così: il giallo è sempre il tentativo di rimettere in ordine il mondo, il noir invece ne celebra il disordine.

Di tutto questo discorso sul noir, La Perfezione è un esempio ideale.

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Due passi nella materia oscura

19 ottobre 2018

di Franco Foschi

 

Chi, come il sottoscritto, legge narrativa con passione e attenzione da più di quarant’anni, sa che grossomodo la letteratura sceglie due grandi linee, per narrare storie: quella più realistica, sequenziale, dove invariabilmente 1+1 fa 2, e quella più svolazzante, dai margini ineffabili, che potremmo chiamare metafisica, o con una accezione più moderna ‘sperimentale’. Ovviamente ci sono fulgidi esempi di narratori capaci di smarginare con eleganza di qua e di là a seconda del bisogno (Kafka, Kundera, tanto per citare un paio di grandi campioni), ma più spesso l’editore e il lettore vogliono che il bianco sia bianco, e che il nero sia nero.

La letteratura sperimentale, dunque, non ha mai avuto vita facile, salvo qualche rara eccezione (i francesi del secolo scorso, da Roussel, uno dei capostipiti, poi Sarraute, Claude Simon tanto da arrivare persino al Nobel, Sollers, fino a Perec; in Italia un Savinio, un Landolfi, sono sempre stati ammirati incondizionatamente dai critici e premiati da editori di prestigio, ma hanno fatto storcere il naso al 90% dei lettori). Sarà che lo sperimentatore preferisce uscire dai sentieri segnati, perché è un ex-grege, sarà che gli strumenti che sceglie sono spesso ostici, diciamo che i conti in banca di chi ha scelto di lavorare sulla letteratura sperimentale non sono mai stati troppo pingui.

Però c’è un altro tipo di tesoretto che si può produrre, un tesoretto che non ha niente a che fare col Dow Jones o con il bilancino di precisione, e tantomeno con la grassa soddisfazione che produce la letteratura d’intrattenimento. E’ forse un tesoro che riguarda i felici pochi, ma è impagabile. Passa attraverso un sentiero meno facile (anzi, facilone) di tanti romanzi pop, passa attraverso le circonvoluzioni di chi per fortuna ancora le usa, invece di assorbire acriticamente, passa attraverso la ricerca delle emozioni in modo forse un po’ lambiccato, ma più solido e duraturo.

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Chiacchierando con Edoardo Zambelli / 2

3 ottobre 2018

Fotogramma dalla serie televisiva Fargo, di Noah Hawley

 

 
Daniele Muriano chiacchiera con Edoardo Zambelli

[Per i tipi di Laurana è da poco uscito Storia di due donne e di uno specchio, il secondo romanzo di Edoardo Zambelli – il primo, L’antagonista, usciva nel settembre 2016 per lo stesso editore.
La prima parte della chiacchierata si può leggere qui. Si è parlato con Edoardo di come funziona la sua immaginazione, del rapporto con i personaggi e di come delle narrazioni gli interessino «più i mondi che non i loro abitanti»].

Vorrei curiosare per il mondo che abita Edoardo Zambelli nel tempo della scrittura. Intendo il tuo mondo interiore.
Prima di tutto, vorrei che ti si potesse immaginare: sarei contento se mi raccontassi dove hai scritto per la maggior parte del tempo l’ultimo romanzo, con quali strumenti, secondo quali orari.
Dopodiché, ripensando a quelle giornate (o a quelle settimane, se ci hai lavorato continuativamente) come potresti definire il tuo stato d’animo? Ti sembrava di vivere più intensamente? Se è stato così, in quale atmosfera sentimentale? (O magari si è trattato solo di fredda fatica della lucidità…)
Hai detto già che la riscrittura è stata «la parte più divertente» e perciò mi interesserebbe quanto alla prima stesura.
Il fantasma che sventola sulle mie domande è sempre uno: la relazione che intercorre tra scrittura e felicità possibile (felicità anche microscopica, puntiforme, istantanea).
Ecco, sarà più difficile adesso dire che non sei stato oggetto di un’invadenza.

Ma no, anche qui nessuna invadenza. Solo, mi è un po’ difficile ricordare il periodo della prima stesura, sono passati diversi anni. Su alcune costanti del mio scrivere sono sicuro: non ho orari di scrittura – e nemmeno periodi, mi capita di scrivere per alcune settimane, e poi magari di non farlo per altrettante settimane -, scrivo solo a casa mia, direttamente al computer, poi rileggo e correggo su un tablet. Sulla tua domanda più generale riguardo al rapporto tra scrittura e felicità posso dire di essere felice quando scrivo, ancora di più quando mi rileggo e mi pare di aver fatto qualcosa di buono. Non vivo lo scrivere come un atto doloroso, forse anche perché, come dicevo alla tua prima domanda, non investo emotivamente nulla nelle storie che scrivo. Quello che mi fa “male” sono i periodi in cui non scrivo, quelli – le settimane, qualche volta anche i mesi di cui dicevo prima –, in cui il romanzo è in corso ma per pigrizia o svogliatezza non lo faccio pur continuando a pensarci ogni giorno; mi dico che dovrei ma poi niente, non c’è verso. È un po’ contorta come cosa, me ne rendo conto, ma funziono così.

Sai, per me è difficile crederci. Il tuo romanzo mi ha sconvolto. Ha agito su di me con una tale violenza. Mi riesce difficile immaginare che la scrittura sia andata davvero così liscia. Ma tutto quel che dice uno scrittore sul proprio lavoro è vero, perché non esiste prova contraria.
Mi piacerebbe sapere qualcosa del tuo rapporto con le altre narrazioni: cinema, musica, fumetti, videoarte, videogiochi o altro. Si intravede una tale quantità di materiali dell’immaginario nel tuo romanzo (anche se l’impressione è che tu non abbia intenzione di prendere a prestito niente, ti appropri e trasfiguri).
Sono molto curioso di capire di cosa si nutre il tuo immaginario.

Immagine dal videogioco The Secret of Monkey Island

Allora, parto dai videogiochi, perché se mi guardo indietro sono stati il mio primo contatto con le narrazioni e con un determinato tipo di narrazioni. Sono un grande appassionato di quei videogiochi chiamati avventure grafiche (o punta e clicca, o adventure games). Credo che il mio primissimo contatto col mistero (e con il piacere di subirlo e poi raccontarlo) sia stato quando da piccolo, vedendo mio fratello più grande giocare a The Secret of Monkey Island, ho letto la scritta “nel profondo dei Caraibi, l’isola di Melee”, e sotto c’era questo effetto sonoro un poco oscuro e il fermo immagine di quest’isola buia, una specie di cono, con solo un piccolo gruppetto di luci su una baia, in basso. Ecco, lì mi si è aperto un mondo. I videogiochi sono stati e continuano a essere uno stimolo, in questi ultimi anni ci sono stati sviluppatori indipendenti che hanno fatto cose strepitose.
Ovviamente poi c’è la letteratura, certo. Ho i miei scrittori favoriti, quelli a cui ritorno di continuo, per sentirmi “a casa”. I libri di Tullio Avoledo, Filippo Tuena, Carlo Lucarelli, Alberto Ongaro, Antonio Tabucchi, Giulio Mozzi, Laura Pugno, Garcìa Marquez, Juan Carlos Onetti, Roberto Bolaño sono quelli che leggo e rileggo di continuo. Funziono un po’ così, leggo cose nuove, ma poi avverto il bisogno di tornare a leggere quelle storie e quelle prose che mi ispirano, che in qualche modo sento mie.
Lo stesso vale per il cinema, ci sono cose che riguardo all’infinito perché mi piace stare in quei mondi. I film di David Lynch e dei fratelli Coen, ad esempio, o quelli di Roman Polanski. Serie tv ne guardo poche, ma Fargo è stata una delle più belle scoperte degli ultimi anni, mi pare che dentro ci sia tutto quello che mi piace, è un mondo meraviglioso in cui stare.
È diventata una risposta lunghissima, e me ne scuso. Aggiungo solo che per me i fumetti (a parte Dylan Dog, che leggevo da piccolo e che mi ha insegnato molto, e Asterix e Lucky Luke) sono una scoperta recente, graphic novels ne ho lette poche ma ci sono autori come David B. o Daniel Clowes che mi piacciono molto. La musica poi, è fondamentale, se non ascolto ogni giorno Bruce Springsteen non mi sento a posto.
Ecco, tutto questo, in un modo o nell’altro, finisce nelle cose che scrivo. Magari non in modo diretto, ma c’è.

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Chiacchierando con Edoardo Zambelli / 1

2 ottobre 2018

Edoardo Zambelli

 
 
Daniele Muriano chiacchiera con Edoardo Zambelli

[Per i tipi di Laurana è da poco uscito Storia di due donne e di uno specchio, il secondo romanzo di Edoardo Zambelli – il primo, L’antagonista, usciva nel settembre 2016 per lo stesso editore.
L’autore ha accettato di chiacchierare con me pubblicamente a proposito del suo romanzo, della scrittura e dell’immaginario che lo anima. Adesso, prima di interpellarlo, mi piacerebbe tentare una presentazione minima dell’opera, per far capire di che si tratta.
Mi sento di poter dire che Storia di due donne e di uno specchio è un romanzo sull’infinitudine e sull’inesauribilità dell’incontro. L’autore con questo romanzo ci suggerisce che non è possibile incontrare qualcuno, incontrarlo davvero senza scoprire prima o poi che l’incontro rimandava ad altro, a qualcun altro, e che in fondo l’accadimento in sé è indecifrabile, o insignificante, fuori dal contesto degli altri incontri, e che nemmeno avendo compreso la geografia dei rapporti umani di una vita è possibile dare un senso compiuto a un singolo incontro.
Storia di due donne e di uno specchio racconta l’incontro fra una donna che torna alla casa del padre – vecchio, malato, incomunicabile –, dopo essere fuggita altrove e aver tentato di ricostruirsi una vita, e una donna più giovane che fugge da un passato che non ricorda. Alessandra e Marta si incontrano e non si incontrano. D’altronde, è difficile incontrare una persona che non ricorda metà della propria esistenza. E da quei diciassette anni cancellati viene l’uomo che la perseguita. È un uomo che Marta ha incontrato nella zona oscura della sua vita, e che lei non ricorda di avere incontrato, eppure qualcosa dev’essere successo dal momento che costui le attribuisce colpe non dicibili. La storia d’amore fra Alessandra e Marta si rifletterà a questo punto in uno specchio. È uno specchio fantastico, come quello delle fiabe, e dall’altra parte non c’è niente di rassicurante, eccetto una nuova – derealizzante, onirica – possibilità di incontro per le due donne].

Edoardo, non sono sicuro di aver fatto un buon riassunto. Ammetto la difficoltà di parlare di un romanzo così misterioso. A una scrittura pienamente leggibile, cristallina e felice sembra opporre un’anima dolorosa, torbida e fittamente simbolica, e forse è questo che più sconcerta il lettore. Ma se parlare di un libro simile è difficile, scriverlo dev’essere quasi impossibile. È per questo che mi piacerebbe conoscere quali difficoltà hai incontrato nelle varie fasi di lavorazione: sul piano emotivo (?), su quello tecnico narrativo e immaginativo.

Intanto, grazie per la chiacchierata. Il riassunto a me pare buono. La tua domanda ne contiene tre, quindi cercherò di rispondere un punto alla volta. Sul piano emotivo non ho incontrato particolari difficoltà, non investo emotivamente nulla nelle storie che scrivo, non mi riguardano. O, al limite, mi riguardano nella misura in cui uso dettagli del mio mondo – un ricordo, una suggestione, un luogo e via dicendo – per creare quello del libro. Mi azzardo anzi a dire che ho bisogno di una certa distanza dal mio mondo per costruirne un altro. Non mi riesce, ad esempio, di scrivere dei luoghi in cui ho vissuto, mi sembrano troppo veri, troppo esatti, e quindi, per assurdo, falsi. Non c’è spazio per inventare. Di conseguenza finisco sempre per ambientare le mie storie in posti che ho visto “di striscio”, per un breve periodo, ma che in qualche modo mi hanno lasciato una suggestione. Emotivamente, quindi, posso dire di investire più nell’atto stesso di raccontare che non nell’oggetto del racconto.
Dal punto di vista narrativo, la cosa più difficile è stata quella di far sì che le due parti in cui il libro è diviso andassero a formare un gioco di richiami interni, un piccolo mondo chiuso in se stesso. Per fare questo era necessario stare un po’ attento all’equilibrio tra i vari elementi della trama, renderli visibili senza che apparissero sfacciatamente esibiti. Avevo una scaletta – ho sempre una scaletta, anche se poi finisco per allontanarmene –, e questo ha aiutato. A questo libro, poi, ho fatto un “regalo” che al primo, un po’ per affetto e un po’ per pigrizia, non avevo fatto: l’ho riscritto completamente, a distanza di diversi anni dalla sua prima stesura. E nel riscriverlo sono venute fuori cose nuove e inaspettate, magari piccole, ma che lo hanno reso, almeno mi pare, più completo, più giusto. Ecco, la riscrittura è stata sicuramente la parte più divertente.

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“Oltre il confine”, di Igor Greganti

13 luglio 2018

di Edoardo Zambelli

Igor Greganti Oltre il confineVelocità e straniamento. Se penso a Oltre il confine, romanzo di Igor Greganti da poco pubblicato per l’editore Laurana, mi vengono in mente queste due parole. Tutto succede nel giro di pochissime pagine, la narrazione presenta un primo personaggio, poi un secondo e in breve il lettore si ritrova con quattro personaggi principali e un viaggio già iniziato. L’obiettivo: portare oltre confine una valigetta di cui nessuno conosce il contenuto.

Greganti fa muovere i suoi personaggi attraverso un’Italia sfasciata, un paese devastato da una guerra civile, governato – ma si direbbe ancora per poco – da un presidente del Consiglio che quella guerra continua a negarla. L’Italia raccontata è un paese metafora – di oggi, di domani, difficile stabilirlo -, un’allucinata Macondo, un mondo narrativo regolato da leggi interne che trovano nell’assurdo la loro chiave di lettura più appropriata. Direi, anzi: l’unica chiave di lettura possibile.

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Come sono fatti certi libri, 25 / “Fiction 2.0”, di Giulio Mozzi

20 settembre 2017

di Edoardo Zambelli

[In questa rubrica pubblico descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa si intenda qui per “forma” mi pare, visti gli articoli già pubblicati, piuttosto evidente. Chi volesse contribuire si faccia vivo in privato (giuliomozzi@gmail.com). Naturalmente, e sia chiaro soprattutto per questo articolo, la bizzarria della forma non comporta necessariamente un’alta qualità letteraria. gm].

Fiction 2.0:

Fiction, libro di Giulio Mozzi uscito per Einaudi nel 2001, torna oggi in libreria per Laurana Editore in edizione «sfoltita e incrementata» e con il titolo di Fiction 2.0.

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Come sono fatti certi libri, 20 / “Questa storia”, di Alessandro Baricco

25 agosto 2017

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Come sono fatti certi libri, 14 / “Sopra eroi e tombe”, di Ernesto Sabato

9 agosto 2017

Ernesto Sabato con la moglie Matilde

di Edoardo Zambelli

[In questa rubrica vorrei pubblicare descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa io intenda qui per “forma” mi pare, ora che ci sono quattordici articoli pubblicati, piuttosto evidente. Chi volesse contribuire si faccia vivo in privato (giuliomozzi@gmail.com). gm].

Breve premessa:

Ernesto Sabato, argentino, scrittore considerato fra i più importanti della letteratura latinoamericana, ha vissuto cent’anni e pubblicato – parlo di narrativa – solo tre libri: Il tunnel, Sopra eroi e tombe e L’angelo dell’abisso. Si tratta di testi tra loro interconnessi, il primo infatti compare nell’universo narrativo del secondo, e l’ultimo, che è il libro cui Sabato ha continuato a lavorare fino alla fine della sua vita, vede i personaggi dei due libri precedenti convivere in un unico ambiente testuale e confrontarsi con lo stesso Ernesto Sabato, anche lui personaggio de L’angelo dell’abisso.
Dei tre libri, si è soliti considerare Sopra eroi e tombe il capolavoro assoluto di Sabato. Il libro, al di là del suo valore letterario, ha una struttura che lo rende particolarmente interessante ai fini di questa rubrica, ed è quindi questo il testo che cercherò di descrivere.

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“Il tentativo (riuscito) di raccontare un buio”

30 giugno 2017

di Edoardo Zambelli

A casa, la sera, Anita mi osservava mentre ripassavo un disegno.
“Mettici più buio” mi disse. “Sporca di più l’intorno, lì.”
“Perché?”
“Perché hai dentro il buio. Mettine un po’.”

Queste battute si riferiscono a un personaggio in particolare, eppure, a ben guardare, potrebbero riferirsi a tutti i personaggi di Nudi come siamo stati, il nuovo romanzo di Ivano Porpora. Non sarebbe infatti sbagliato, a mio avviso, dire che tutto il romanzo è il tentativo (riuscito) di raccontare un buio.
Il buio di Severo, l’uomo malato che è protagonista e voce narrante della prima parte; il buio di Arsène, pittore famoso che di Severo accetta di diventare il maestro (e che ritroveremo anche più avanti, nelle restanti due parti); e infine il buio di Anita, la donna di Severo, figura femminile che oscilla nel buio degli altri due.

“Come sai il nome di mio padre?”
“Lascia spazio ai misteri.”

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Complessità e semplificazione nei videogiochi (un breve e parziale appunto )

20 aprile 2017

di Edoardo Zambelli

[Altri articoli sullo stesso argomento].

Una premessa d’obbligo. Non sono un grande videogiocatore e le mie considerazioni qui sono solo approssimazioni, ragionamenti su quel poco che so, e non intendono essere in alcun modo esaustive, solo dare uno spunto in più alla discussione. I videogiochi mi piacciono, ci sono cresciuto, ci gioco ancora ogni tanto, ma sono sicuro che c’è gente molto più preparata di me sull’argomento e che saprebbe argomentare meglio e arricchire ancora di più la discussione.

Detto questo, parto di nuovo dalla domanda, così come formulata da Giulio Mozzi: perché alla letteratura si chiede semplificazione e, invece, a film, serie tv e videogiochi si chiede sempre più complicazione?
Dato che, come ho detto, la mia conoscenza del mondo dei videogiochi è parziale, dico già da ora che la mia riflessione riguarderà un ambito (o, se si vuole, un genere) in particolare, quello delle avventure grafiche, e i suoi derivati (tra l’altro, le stesse avventure grafiche sono un derivato di quelle che una volta erano le avventure testuali), che comunque sono i videogiochi “narrativi” per eccellenza.

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Complessità/semplificazione: tre specie di opere

18 aprile 2017

Due eroi della narrativa d’intrattenimento

di Alberto Cristofori

[Ricevo e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm]

La discussione innescata da Gilda Policastro e poi sviluppata da Giulio Mozzi e altri [Alessio Cuffaro, Valentina Durante, Edoardo Zambelli, Alessandro Canzian, gm] sullo spazio gestito da quest’ultimo [e altrove, gm] ha suscitato in me qualche riflessione che spero possa risultare utile. Provo a dire sinteticamente.

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Che cosa intendiamo per “complessità”?

17 aprile 2017

di Marco Terracciano

[Ricevo da Marco Terracciano, laureando in lettere moderne, e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm].

«Come mai, era la domanda, si ritiene che il pubblico di massa sia in grado di decodificare film complessi quali di fatto sono i film di Nolan (Inception ma si potrebbe dire Interstellar o The prestige, allo stesso modo) etc. e invece in letteratura finanche ai libri che partono come non commerciali (come, per dire, i miei) si richiedono degli accorgimenti editoriali volti a facilitare la comprensione dei lettori?» [Gilda Policastro, in Facebook, in risposta alla riflessione di Edoardo Zambelli in vibrisse]

Credo ci si debba accordare sul concetto di complessità. Non è certamente inopportuno mettere a confronto opere che appartengono a due canali mediatici differenti, dal momento che pur sempre di narrazioni si parla: è, secondo me, fuorviante ritenere un film come Inception un’opera complessa. Non è tanto la forma del contenuto – prendo il prestito la terminologia del linguista Hjelmslev adottata da Francesco Orlando nella sua teoria freudiana della letteratura – a determinare la difficoltà della decodificazione; è piuttosto la forma dell’espressione ad alzare un muro, a sfidare la pazienza del fruitore dell’opera narrativa.

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Di cosa stiamo parlando esattamente? Di forme complicate o del perché le forme complicate non vendono, non sono comprese?

16 aprile 2017

Un fotogramma da “Melancholia” di Lars Von Trier

di Edoardo Zambelli

[Edoardo Zambelli mi ha scritto una lettera e mi ha autorizzato a pubblicarla. gm].

Ho letto la nuova discussione in vibrisse. C’è qualcosa che continua a non convincermi, ed è probabile che sia io a non aver afferrato il punto.
Non riesco a capire se si parla di complicazione/semplificazione di forme narrative (cui sembra alludere la Policastro quando parla della decodificazione di Inception e del suo Cella, per altro molto bello) o se si parla del perché si promuove di più una cosa che non un’altra (quindi la questione diventa, sostanzialmente, marketing).
Lo dico perché, a seconda della prospettiva, le risposte potrebbero essere differenti.

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“Il giro del miele”, di Sandro Campani

16 marzo 2017

di Edoardo Zambelli

Fin qui, non oltre.

Nel corso della lunga notte raccontata da Sandro Campani nel suo ultimo romanzo (Il giro del miele, Einaudi), questa frase ritornerà di continuo. La tacca sulla bottiglia di grappa e poi la frase: fin qui, non oltre. È il modo che i due protagonisti, Davide e Giampiero, hanno di misurare il tempo di questo loro (forse ultimo) incontro.
I due, in un passato non troppo lontano, sono stati molto vicini. Nonostante la differenza d’età, in qualche modo sono stati addirittura figli dello stesso uomo, Uliano, che per Davide – il figlio biologico – è stato un padre distante, incapace di grandi slanci, mentre per Giampiero – suo apprendista – è stato un maestro generoso, gli ha insegnato un lavoro e si è lasciato leggere e capire in modo più profondo.
La narrazione si apre, quindi, con Davide che una notte si presenta a casa di Giampiero e chiede di essere ascoltato, portando con sé l’urgenza di un conflitto da risolvere. Inizia da qui un lungo dialogo e presto il tempo della narrazione si sdoppia, il lettore si ritrova a seguire tanto il confronto tra i due quanto la ricostruzione delle loro vite.

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“L’ombra abitata”, di Alberto Ongaro

12 marzo 2017

di giuliomozzi

Istigato da Edoardo Zambelli, che considera Alberto Ongaro un suo maestro, se non addirittura il suo maestro (e, innegabilmente, il romanzo d’esordio di Zambelli, L’antagonista, è tutto un omaggio a Ongaro – o, se si vuole, a un certo modo di far funzionare l’immaginario del quale Ongaro, ma anche il suo a lungo sodale Hugo Pratt, è un esponente assai rappresentativo), ho finalmente letto il romanzo appunto di Ongaro L’ombra abitata, pubblicato da Longanesi nel 1988 e ora disponibile in edizione digitale presso Piemme. E’ un romanzo ottimamente scritto, con quella scrittura apparentemente sbrigativa ma in realtà precisissima che è il marchio di fabbrica di Ongaro; ma di questo non parlerò. Vi parlerò della storia, e del modo in cui viene raccontata.

Il dispositivo d’avvio è semplice: un uomo maturo, con un’intensa vita alle spalle, italiano di Venezia, proprietario a Londra di un prestigioso negozio di arte africana e oceanica, va a vedere una mostra di un grande fotografo scomparso un paio d’anni prima. E s’imbatte in un’immagine che ritrae, presa di spalle e di nascosto, Rose, la ragazza che lo fece impazzire (d’amore e di disperazione) a Parigi più di vent’anni prima, mentre a un tavolino di bistrot si protende a baciare un ragazzo del quale non si vede il viso (la testa di Rose lo copre) ma sicuramente non è il ragazzo che lui era più di vent’anni prima. Cosa fareste voi al suo posto? Non importa: lui prende su, sistema due affari, avvisa la molto più giovane compagna Pauline (ma non le dice il vero motivo; peraltro il suo lavoro impone frequenti viaggi) e va a Parigi. Qui fa ciò che vi aspettate: cerca.

Che cosa cerca? Perché cerca? Non è importante: importante è la ricerca in sé; è la ricerca che ha un significato, e non ciò che si cerca.

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“Se trovo il coraggio”, di Dario Buzzolan

8 marzo 2017

di Edoardo Zambelli

Era il 1980, e per due ragazzi quella notte fredda di ottobre era stata l’ultima delle loro brevi accidentate vite.

Matteo ha 47 anni, due figli (Maddalena e Valerio), e una ex moglie (Sara). Una sera, sfogliando un giornale, vede due foto e viene a sapere che un suo amico di infanzia, intanto diventato pubblico ministero, ha riaperto un caso di molti anni prima: durante una festa, secondo dinamiche mai del tutto chiarite, ha perso la vita un ragazzo di diciassette anni, assassinato. E non è l’unico ad aver perso la vita, c’era anche una ragazza di quindici anni, il cui corpo non è mai stato ritrovato.
Matteo quella notte c’era, sa cosa è successo davvero, ma non ha mai avuto il coraggio di dirlo a qualcuno, forse nemmeno a se stesso. Adesso però sa che quel coraggio deve trovarlo, deve ricordare e rivivere quella notte che tanto peso ha avuto nella sua vita.

Il romanzo di Dario Buzzolan Se trovo il coraggio si articola, quindi, nel racconto di due notti: quella presente, in cui Matteo vaga alla ricerca dei ricordi, e quella del 1980, che è stata per lui tanto un’iniziazione all’amore quanto un’iniziazione alla morte. La narrazione, diciamo così, sdoppiata è un espediente che Buzzolan ha già usato con successo nel precedente (e bellissimo) Tutto brucia e nel più recente (e altrettanto bello) Malapianta. Qui l’arco narrativo dura dodici ore, dalle 20 alle 8, con i capitoli che scandiscono il passare del tempo un’ora alla volta.

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“Una crime novel, o forse una favola”. Edoardo Zambelli su “Lo spregio” di Alessandro Zaccuri

13 ottobre 2016

di Edoardo Zambelli

[Questo articolo è apparso nel sito personale di Edoardo Zambelli].

cop_zaccLo spregio, ultimo romanzo di Alessandro Zaccuri, è, secondo me, un libro che può essere letto in modi diversi. Una lettura molto bella (e credo anche più profonda della mia) l’ha data Demetrio Paolin qui. Io, per parte mia, l’ho letto come una crime novel, e credo di poter dire che questa, per quanto magari più superficiale, sia una lettura altrettanto legittima (in fondo, un lettore un libro lo legge un po’ come gli pare) che non manca di rispetto all’autore e non sminuisce la bellezza del libro stesso.
Una crime novel, quindi, con tutti gli ingredienti necessari, ma, anche, con la capacità di giocare col genere senza aderirvi del tutto, di prenderne alcune delle regole e piegarle all’esigenza di dire altro.
Le prime pagine sono tutte per la “formazione criminale” di Angelo, il giovane protagonista del libro, che scopre e pian piano accetta e fa sue le attività più o meno criminali del Moro, suo padre, guidato da un bisogno d’emulazione, di diventare come lui.

Continua a leggere nel sito personale di Edoardo Zambelli.

Tullio Avoledo su “L’antagonista” di Edoardo Zambelli

11 ottobre 2016

di Tullio Avoledo

[Tullio Avoledo, da poco in libreria con il nuovo romanzo Chiedi alla luce, ha letto L’antagonista di Edoardo Zambelli e ci ha fatto la cortesia di scriverne. Grazie. gm]

cop_antagonistaAvvertenza preliminare: non sono un recensore. Sono un lettore, quindi ciò che sto scrivendo non è una recensione, ma una semplice serie d’impressioni di lettura.
Seconda avvertenza: leggo pochissima narrativa. Divoro saggistica e poesia, ma leggo pochi romanzi, e meno ancora racconti. Così non so fino a che punto sono un giudice attendibile, rispetto a chi, magari per professione, legge tipo venti romanzi al mese.
Nelle due settimane di vacanza dalla scrittura che mi sono concesso per riprendermi da due festival, ho letto tre libri molto belli. Uno solo di questi era un romanzo, ed è L’antagonista di Edoardo Zambelli.

L’autore è giovane, maledetto lui. Anche se non troppo giovane, quindi ritiro il maledetto.
E’ anche maledettamente bravo, e stavolta l’avverbio lo lascio. Mi è capitato solo una volta di leggere un’opera prima altrettanto affascinante, e quel libro era Pugni di Pietro Grossi. Anzi, non era nemmeno ancora un libro, era un dattiloscritto in cerca di editore, fattomi leggere da un’amica. Sono stato contento quando Pietro, non per merito mio, ha trovato un editore.
Sono ancora più contento che l’abbia trovato Edoardo Zambelli, e che L’antagonista sia uscito dal cassetto (o dovunque lo tenesse) per arrivare ai lettori. E’ un libro potente, un libro che emana una strana energia, una specie di luce nera che illumina i nostri giorni purgatoriali.

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“Il deuteragonista”, di Leopardo Zimbelli

23 settembre 2016

di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]

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Il caso vuole che proprio in questi giorni in cui il curatore di vibrisse (sempre sia ringraziato per l’ospitalità) si sbraccia (non me ne voglia: anche un po’ scompostamente) in pro’ del romanzo d’esordio di Edoardo Zambelli, L’antagonista, al vostro bibliofilo sia capitato di mettere le mani su un’opera che con il predetto romanzo sembra avere, al di là di qualche prossimità fonetica, alcune singolari somiglianze: Il deuteragonista, di Leopardo Zimbelli. Non che si voglia accusare questo o quello, lo Zambelli o lo Zimbelli, per carità, di scopiazzatura o furto: nulla impedisce a due distinti ingegni, come già sperimentò (a proprie spese) Pierre Menard, il noto autore del Don Chisciotte, di concepire universi narrativi assai simili se non addirittura – cosa statisticamente improbabile, ma non impossibile – assolutamente identici. Ma veniamo al dunque.

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