Archivio dell'autore

“Nessuno è esente da una qualche forma di male profondo”

9 gennaio 2021

Johann Heinrich Füssli

di Piero Melati

[Questo articolo è apparso ne il Venerdì, supplemento del quotidiano la Repubblica, l’8 gennaio 2014. Qui sopra: Convocazione satanica, di Johann Heinrich Füssli].

Il padovano Giulio Mozzi è lo scrittore dei record. Ha appena esordito nel romanzo a “soli” sessant’anni. E l’ha fatto con 355 pagine costate ventidue anni di lavoro. Un libro infinito (e atteso dagli addetti ai lavori). In gestazione già nel 1998, è stato interrotto nel 2002 e poi nel 2018, infine concluso nella primavera del 2020, «in due mesi trascorsi quasi in sogno». In precedenza Mozzi aveva scritto racconti e poesie, ma mai la “grande opera”. Lo conoscono tutti, tra coloro che bazzicano editoria e festival letterari: ha pubblicato con Mondadori e Einaudi, dal 1993 è stato consulente delle principali case editrici e, a sua memoria, ha reso libri «un paio di centinaia» di manoscritti altrui. È considerato uno degli “editor” migliori. Tanti critici hanno scritto su di lui con fervore. Gli allievi della milanese Bottega di narrazione, che dirige dal 2011, si dicono “mozziani” senza vergognarsi, come iniziati a un culto misterico. Ultimamente ha pubblicato per Sonzogno – con buon successo di vendite – due “manuali oracolari” per aspiranti autori e poeti (uno con Laura Pugno), mutuandone i titoli dall’Oràculo dello spagnolo Baltasar Gracián). Sì, avete capito bene: “oracoli” per letterati principianti. Apri una pagina a caso, nel momento del bisogno creativo, e tutto ti verrà svelato. Una provocazione? Ce ne sarebbero altre, ma qui limitiamoci alla più scabrosa: nel suo «romanzo infinito», dal titolo Le ripetizioni (Marsilio), in libreria dal 14 gennaio, Mozzi ci consegna la scena d’orrore più estrema mai scritta, a memoria di molti, in un testo letterario. Siamo dalle parti dei cosiddetti romans-charogne del gotico infernale di fine Settecento, quello caro a Mario Praz. Un vero pugno nello stomaco, dice chi l’ha sbirciato. «Ho fatto leggere le bozze in anteprima ad alcuni amici» rivela l’interessato. E che ne pensano? «C’è chi non esce da tre giorni e chi non riesce ancora a parlarmi. Speriamo bene» sussurra. Un caso spinosissimo.

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“La scena di orrore più estrema mai scritta”

8 gennaio 2021

Nel Venerdì, supplemento del quaotidiano la Repubblica, Piero Melati – che ringrazio – dedica due pagine al mio romanzo Le ripetizioni, che l’editore Marsilio manderà in libreria il 14 gennaio prossimo.

Cronaca di un romanzo, 3

7 gennaio 2021

di Giuio Mozzi

L’incontro con il quadro di Claudio Laudani Discorso attorno a un sentimento nascente (di cui ho raccontato qui) non fu privo di conseguenze. Da qualche tempo andavo scrivendo nel mio diario in rete (oggi perduto) delle storielle nelle quali appariva una (prima) trasfigurazione di Claudio, che chiamavo Grande artista sconosciuto (perché Claudio è secondo me un grande artista, ed è effettivamente sconosciuto). Erano delle storielle buffe – credo, spero -, comunque certamente non serie. Ma dopo aver visto quel quadro provai a scrivere qualcosa di veramente serio su Claudio (la seconda trasfigurazione). Uscirono così dei capitoli (in prima persona) che integrai a quanto era rimasto dell’Introduzione ai comportamenti vili, e intitolai il tutto Discorso attorno a un sentimento nascente. L’idea era di continuare a presentare il protagonista – che ora, come già ho detto, portava il mio nome – come un personaggio un po’ abulico, ma la cui vita veniva sfiorata da una quantità di vite straordinarie (nel bene e nel male). Ne avevo in mente, di vite straordinarie. Il primo episodio di “sfioramento” concerneva il Terrorista Internazionale. Il cui corpo – questo era il nocciolo dell’episodio – non recava nessuna traccia di ciò che egli era stato.

Questo fu il primo spostamento. Dalle “vite straordinarie” alle “vite che non lasciano traccia sui corpi di chi le porta”. Il tema mi affascinò per un po’. Nelle prime pagine del Jean Santeuil (così è intitolato, credo dai filologi, il primo tentativo di Marcel Proust di scrivere il suo romanzo) il protagonista, appunto Jean, incontra uno scrittore famoso, da lui molto ammirato: e si stupisce di trovarlo anonimo, quasi dozzinale, completamente diverso dall’artista che aveva immaginato a partire dai libri (cito a memoria e spero di non sbagliare). Così noi spesso ci stupiamo nell’incontrare persone che, per così dire, non assomigliano alla loro vita (o almeno: non lasciano trasparire quella che noi immaginiamo essere la loro vita vera). Ma la vita, in effetti, che tracce lascia sul nostro corpo? In tutti noi, credo, giace un’idea un tantino ottocentesca, in un certo senso lombrosiana (un lombrosismo rovesciato), per cui se una persona ha attraversato certe esperienze particolari, o addirittura eccezionali, o è stata capace di creare grandi opere, o di commettere grandi delitti, eccetera, di tutto ciò nel suo corpo una traccia *deve* esserci.

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Cronaca di un romanzo, 2

18 dicembre 2020

di Giulio Mozzi

Dicevo: “Stava per accadere un incontro importante. Molto importante”. Non mi ricordo esattamente il giorno e l’ora e il punto, e essere sinceri nemmeno l’anno (direi il 2000 o giù di lì), ma un bel giorno mi ritrovai a casa di Claudio Laudani, pittore. Lo guardavo lavorare. Claudio aveva preparato un fondo scuro, petrolio, su una tavola di compensato; e in quel momento ci stava facendo sgocciolare sopra degli altri colori: rosso, giallo, non so più se altro. Faceva colare il colore, muoveva la tavola, faceva andare il colore di qua e di là. Ora, io sono sicuro che se facessi qualcosa del genere riuscirei al massimo a ottenere un insieme di macchie – o, più probabilmente, un pastrocchio confusamente monocromo. Invece Claudio, con questa tecnica – lui la chiama “dripping”, appunto sgocciolamento – riesce a fare cose che a me sembrano meravigliose.

Quando apparve la figura che vedete qui sotto io uscii di testa. Intanto bloccai Claudio, che stava per fare altri interventi sulla tavola. Gli feci anche delle minacce, credo. Poi cominciai a parlare, e parlai – con Claudio che stava fermo ad ascoltare – per almeno mezz’ora. Poi me ne andai, tutto scombussolato. Qualche tempo dopo (giorni? mesi? e chi si ricorda?) Gualtiero, che di tanto in tanto fotografava i lavori di Claudio, mi fece vedere la fotografia di quella tavola lì; e mi disse che il titolo era Discorso attorno a un sentimento nascente. “Bel titolo”, dissi, “ma è strano: Claudio non dà mai ai suoi lavori dei titoli così”. “Lui dice che gliel’hai dato tu”. Da parte mia, nessun ricordo: e non ho motivi per dubitare della memoria di Claudio o di Gualtiero.

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Cronaca di un romanzo, 1

11 dicembre 2020

di Giulio Mozzi

Chiunque si metta in testa di raccontare il modo e la maniera in cui ha scritto il proprio romanzo deve innanzitutto prendere atto dell’esistenza del Romanzo di un romanzo, il libro nel quale Thomas Mann raccontò la genesi del Doctor Faustus: il che significa, prima di tutto, prendere atto della distanza enorme che c’è tra il proprio lavoro e il lavoro di una delle più eminenti personalità della letteratura (e della moralità, direi) occidentale del Novecento. Quindi metto le mani avanti: no, non ho nessuna intenzione di immaginare di essere più di quel che sono – un pover’uomo, come tutti -, e non pretendo nemmeno di raccontare una storia esemplare. Più banalmente: ho sfiancato per più di vent’anni le mie amiche e i miei amici – e i lettori e le lettrici di vibrisse – con la storia di questo romanzo che avevo lì, che di tanto in tanto dichiaravo “in corso d’opera” o “in traiettoria d’arrivo” o addirittura “praticamente finito”, e che regolarmente svaniva dietro ai miei “non sono soddisfatto”, “non mi piace”, “non so come fare a chiuderlo”, e tutte quelle cose là. E quindi offro la mia cronachetta a mo’ di risarcimento per la pazienza che ho chiesta, e di ringraziamento per la pazienza che ho ricevuta. Dunque comincio.

Era il 1998. Avevo appena pubblicato presso Mondadori Il male naturale. Il libro aveva avuto uno strano destino: tiepide lodi da parte della critica, qualche sostanziale stroncatura (un recensore, addirittura, attaccandosi al fatto che in calce a ogni racconto erano indicate le date di inizio e fine di scrittura, lo bollò senz’altro come libro raccogliticcio), e a un certo punto la bomba. Mi chiama una giornalista dell’Adn Kronos, mi dice che un parlamentare ha fatto un’interrogazione parlamentare sul mio libro, e minaccia una denuncia con richiesta di sequestro. Tutto era legato a un racconto, molto breve, due paginette, intitolato Amore, nel quale si descriveva un rapporto sessuale tra un adulto e un bambino (Geno Pampaloni lo definì “crudele e freddo, ma privo di compiacimenti stilistici”). Ci fu un po’ di polverone, ci fu una riunione con qualche strillo in Mondadori, e tutto finì lì (ci fu anche, mesi dopo, anche la risposta all’interrogazione parlamentare, per bocca dell’allora presidente del Consiglio dei ministri Massimo D’Alema: ma ovviamente la cosa non interessava più a nessuno). Non so se effettivamente la denuncia fu mai presentata. Tutta la storia è raccontata in appendice alla nuova edizione de Il male naturale, uscita presso Laurana nel 2012, con una postfazione di Demetrio Paolin.

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Il mio primo romanzo

9 dicembre 2020

Mi fa un po’ impressione dirlo così, ma è così: dopo ormai ventisette anni che faccio libri, il 14 gennaio 2021 l’editore Marsilio pubblicherà il mio primo romanzo. S’intitola Le ripetizioni. In copertina c’è il ritratto di un giovinetto, un quadro della cerchia del Giorgione che è conservato a Milano presso il museo Poldi Pezzoli.

Una buona storia

14 aprile 2020

di Giulio Mozzi

Una buona storia è fatta di questo: di un prima e di un dopo. Di un dopo necessitato dal prima, ma anche di un prima necessitato dal dopo. Tanti anni fa, in un bar dalle parti di Macchine – uno degli edifici della facoltà di Ingegneria della mia città, Padova – ebbe luogo una furibonda discussione a causa della morte, avvenuta in circostanze assai improbabili, di una persona a tutti nota – nota a tutto quel pubblico di pensionati impegnatissimi, alle dieci del mattino, nella compulsazione dei giornali e nella verifica di qualità del bianco della casa. Le due fazioni così si dividevano: quella morte, è stata fatalità, o destino? Fatalità (la discussione si svolgeva in dialetto, naturalmente) è il caso; destino è ciò che “sta scritto”. Dopo aver lungamente e duramente discusso, unanimemente i due schieramenti pervennero alla decisione di ordinare dell’altro bianco, e di passare a un altro punto dell’ordine del giorno. Così mi venne riferito: non so se ci fu, nei giorni successivi, un secondo round.

Un sacerdote al quale volli molto bene – è morto una decina d’anni fa – per molti anni frequentò in ospedale un reparto di malati terminali. Erano, all’epoca, soprattutto persone abbastanza giovani, in preda all’Hiv. Una sera, mentre nella sua 126 rossa andavamo da non so dove a non so dove, mi disse: “Andando lì ho capito una cosa. La vita umana non ha senso”. Il che, detto da un sacerdote, potrebbe sembrare a prima vista blasfemo; in realtà è ortodossissimo. Se la vita umana come la conosciamo, se questa vita qui, sulla terra, avesse qualche chance di avere senso, a che cosa servirebbe l’immaginazione di un’altra vita, in un indescrivibile altrove? Dove non ci sarà né morte, né lutto, né dolore e, asciugata ogni lacrima, i nosri occhi contempleranno l’origine e la fine di tutto.

Il romanzo, dico il romanzo così com’è andato assestandosi nelle sue forme e dei suoi modelli dal 25 aprile del 1719 in poi, è in fin dei conti un tentativo di fare a meno del mondo che verrà. Le vite dei personaggi trovano il loro senso, quasi immancabilmente, nello spazio compreso tra la prima e l’ultima parola della narrazione. Dico quasi: perché l’illuministico sforzo, in realtà, non riesce proprio a tappare tutti i buchi. Perfino nei Promessi sposi, scolasticamente spacciato senza esitazioni come “il romanzo della Provvidenza”, nell’ultimissima pagina, nelle ultimissime righe, Renzo e Lucia giungono alla conclusione che “i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani”; o, come si direbbe oggi, “la sfiga non ha regole precise”; e tale conclusione, “benché trovata da povera gente”, pare al narratore “così giusta” da piazzarla lì, alla fine, come “il sugo di tutta la storia” (ed è chiaro che l’ulteriore considerazione, ossia che “i guai, quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”, è biecamente consolatoria).

Peraltro nel corso dell’Ottocento i romanzieri, quasi in massa, caddero in preda a illusioni positivistiche: vedi ad esempio il grande affresco sociale di Balzac o le teorie pseudodarwiniane di Zola (che a Darwin, tra parentesi, avrebbero potuto solo fare ribrezzo). Ma una teoria pseudoscientifica (e vale la pena di ricordare che il positivismo, con tutta la sua idolatrazione della scienza, fu un movimento di pensiero nei fatti antiscientifico) o l’ambizione di un “affresco sociale” (il “marxismo senza Marx”, cioè senza filosofia, di Balzac) non riescono, non ce la fanno, a prendere il posto di un’immaginazione religioso-cosmologica del mondo.

I grandi romanzi modernisti, o acquisiti nel modernismo (è il caso del Moby-Dick di Melville), sono poi o romanzi sostanzialmente mitologici (es. Ulisse di Joyce, Giuseppe e i suoi fratelli di Mann) o romanzi in qualche modo mistici (Doktor Faustus ancora di Mann, L’uomo senza qualità di Musil, I sonnambuli e La morte di Virgilio di Hermann Broch). Poi, certo, c’è Proust: che è Proust, e non mi pronuncio.

In mezzo tra questi e quelli ci stanno, giganteschi, Dostoevskij e Tolstoj: due romanzieri intensissimamente religiosi. L’ultima pagina del romanzo più bello di sempre, I fratelli Karamazov, ovvero l’ultima pagina di Dostoevskij, mette in scena uno sperdutissimo Alëša Karamazov che – al pari dei fratelli Ivan e Dimitri -, nonostante la sua profonda fede non riesce a trovare un senso alla propria vicenda, alla vicenda familiare – quindi a nulla. E Tolstoj scrive un intero romanzo, e pure bello lungo, Guerra e pace, per dimostrare che il lavoro degli storiografi è insensato, perché la vita umana è governata dal caso: peraltro le pagine in cui ci si impegna di più (quelle su Napoleone, l’epilogo “filosofico”) sono di una bruttezza indicibile, mentre laddove rimane un “senso magico”, per non dire “religioso” della vita la bellezza esplode impareggiabilmente: il ballo di Nataša, le nuvole in viaggio osservate dal principe Andrej ferito e a terra…

E’ una lotta, una lotta. Come tra le due fazioni al bar: sempre presi tra un’idea di destino – qualcosa su di noi, su tutti noi e su ciascuno di noi, “sta scritto” da qualche parte – e un’idea di fatalità – nulla ha senso, il caso domina. Questo fa, chi racconta storie: entra in questa lotta.

E questo, vi piaccia o no, è un post pasquale.

Una buona storia è fatta di questo: di un prima e di un dopo. Di un dopo necessitato dal prima, ma anche di un prima necessitato dal dopo.

(Fonti non esplicitate: storia del bar, mio fratello Pietro. Sacerdote: don Franco Geronazzo (https://tinyurl.com/vy6h65s). “Apocalisse”, 21: 3, 4 + preghiera eucaristica III. Data di pubblicazione del “Robinson Crusoe”: Wikipedia. Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” (https://tinyurl.com/sj9xek4). Emile Zola, “Il romanzo sperimentale”, Pratiche 1992. Karl Marx e Friedrich Engels, “Scritti sull’arte”, Laterza 1976. Aki Kaurismaki, “Nuvole in viaggio”. Andrea Mantegna, “Cristo morto”; Piero della Francesca, “Resurrezione”).

Dieci domande che si stanno facendo gli editori in queste settimane

6 aprile 2020

di Giulio Mozzi

1. Nel mese di febbraio ho fatturato tot, e grazie a questo tot la banca mi ha concesso, usabile nel mese di marzo, un fido pari a tot% di tot. Nel mese di mazo ho fatturato in tutto 96 euro: che fido avrò, in questo mese di aprile? Esisterà ancora, nella lingua italiana, la parola “fido”?

2. In realtà, ormai è il giorno 6, e dalla banca non mi hanno ancora telefonato: che siano tutti morti? O che mi abbiano dato per definitivamente morto? Non so quale sia l’ipotesi preferibile.

3. L’unico modo che ho per emettere fatture, e così ottenere un po’ di fido – almeno da pagarci, in parte, gli stipendi – è pubblicare dei libri. Ma il distributore accetterà di vedersi arrivare dei libri, e una fattura? O non potremmo metterci d’accordo, e io per intanto gli mando la fattura, e quanto a stampare davvero i libri, si vedrà?

4. E tutte le forniture dirette che ho fatto alle librerie indipendenti. Non grandi cose, ma insomma. Non una che abbia pagato. Devo attaccarmi al telefono. Ma cosa mi risponderanno? Mi risponderanno? O saranno tutti morti, malati, reclusi? O accamperanno chissà quali ragioni, peraltro buonissime? O finiremo, al telefono, a piangerci addosso entrambi?

5. Comunque, tutta questa storia finirà. Finirà, vero? E’ vero che finirà? Ditemi, c’è qualche segnale credibile di un avviamento, magari lento lento, verso una fine? Finirà magari a maggio? A giugno? A luglio? Ditemi che finirà!, vi prego.

6. Che poi: che cosa avrà voglia di leggere, la gente, quando tutto questo finirà, o piuttosto quando tutto questo comincerà a finire? Vorranno leggere cose serie, o cose fatue? Vorranno distrarsi, non pensare più alle brutte cose, o vorranno coltivare un livello superiore di consapevolezza acquisito durante la reclusione?

7. Che poi, non so, facciamo un appartamento di due camere e cucina, una coppia monoreddito e mezzo con lui vabbè, facciamo cassintegrato, lei che lavoricchia da casa, due bambini… Che razza di livello superiore di consapevolezza avranno avuto il tempo di acquisire? Sarà già tanto se non si sono scannati. E se non si sono riempiti di debiti. Se sono sopravvissuti.

8. E tutti questi contratti che ho già firmato? Ma chi se ne fotterà più di questi libri. Più li guardo, e più mi domando che senso hanno. E se me lo domando io, che volevo farci dei soldi. Ma se non li pubblico, sono soldi persi. Magari in qualche contratto ho pure la penale. Vabbè, persi per persi. Potrei pubblicarli. Almeno fatturo.

9. Che poi lo so: un po’ di librerie riapriranno, mica tutte, riapriranno le catene, a ranghi ridotti, e le indipendenti più piccole, quelle familiari, che non hanno buste paga; e i grandi editori faranno lo sforzo, l’estremo sforzo prima di crepare, e le inonderanno, queste poche librerie, di un qualche tipo di merda che andrà benissimo, un superthriller un superromanticone o che so io, e con tutto quello che gli resta dei loro fidi faranno credito credito credito alle librerie, metteranno uno due tre non più di tre titoli dappertutto, e via. Non ce ne sarà per nessuno.

10. Ma gli ebook? Finché si stava tutti rinchiusi gli ebook avevano un senso, anche per chi non ci era abituato. Ma adesso? Che poi si è visto che cosa ha comperato la gente in ebook: qualche classico, e i libri dei soliti. Idem per le vendite a distanza. Fare un nuovo libro, farlo vedere, far sì che un possibile pubblico si accorga che eissta, sarà durissima. Ce la faremo? Chi lo sa. E poi, chi è che ci ha voglia ancora di mettere il naso davanti a uno schermo?

(Non intendo dire che gli editori, tutti, si facciano tutte e solo queste domande. Ce ne sarebbero molte altre, e molto cambia da editore a editore).

“Anatomia di un profeta”, di Demetrio Paolin

5 aprile 2020

di Giulio Mozzi

Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin (Voland 2020) è un libro di cattivo gusto.

L’autore pretende che non sia un romanzo (“Ecco perché questo libro non è un romanzo”, p. 236) e pretende che sia un romanzo (“E quindi non è neppure così strano che questo libro sia effettivamente un romanzo”: stessa pagina!): mi toglierò il problema chiamandolo “libro”, e basta.

Il 19 dicembre del 2017 pubblica in Facebook un post piccolo piccolo, di poche righe ma con un titolo: “PUBBLICA CONFESSIONE DELL’INSEGNANTE DI SCRITTURA. – E’ un mio allievo: tutto quello che sa, l’ha imparato da me. Però l’ha capito meglio, l’ha studiato di più, e lo fa come io non sarei mai capace” (vedi). Demetrio fu il primo a commentare, stolidamente: “È il desiderio che dovrebbe guidare l’insegnamento, che l’allievo sia migliore più capace del maestro”. Non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che io, scrivendo quelle poche righe, avessi in mente lui. All’epoca avevo già letto una prima parziale stesura dell’Anatomia (che non si chiamava ancora così).

In realtà Demetrio non è mai stato mio allievo. Ci siamo conosciuti parecchi anni fa, sì, a mia memoria (ma non mi fido, per principio, della mia memoria) nel 2002, al tempo in cui io curavo per l’editore Sironi la collana Indicativo Presente: Demetrio mi aveva mandato dei raccconti, a me era sembrato che ci fosse dentro “qualcosa”, avevamo concordato di vederci. Passammo insieme forse un paio d’ore, io cercai di dirgli che cosa era quel “qualcosa” che avevo visto, e lo feci nell’unico modo che sapevo e che so: indicandogli alcune pagine nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” ci fosse, e scartandone altre – molte di più – nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” non ci fosse. Facemmo anche tante chiacchiere, un po’ imbarazzate come può capitare in un primo incontro, e in mezzo a queste chiacchiere Demetrio mi raccontò quanto segue.

Che qualche anno prima lavorava come cronista di nera, più o meno, per un settimanale piemontese. Che un giorno il suo capo lo aveva convocato, gli aveva buttato là un libro, e gli aveva detto: “Il senatore Ernesto Rossi [eletto in Alessandria] ha fatto un’interrogazione parlamentare per questo libro, ha minacciato una denuncia, sostiene che sia un libro che incita alla pedofilia. Visto che tu sei uno che legge, facci un pezzo”. Che il libro era il mio Il male naturale (quindi era il 1998), pubblicato da Mondadori. Che se lo lesse, e ne rimase folgorato.

(Poi, negli anni, Demetrio ha fatto tante cose, tante ne ho fatte anch’io, alcune ne abbiamo fatte insieme).

Tredici anni dopo, quando Il male naturale fu ripubblicato presso l’editore Laurana, chiesi a Demetrio di scrivere un breve saggio che facesse da posfazione. Demetrio acconsentì e scrisse, e tra le altre cose scrisse: questo libro è “il tentativo di mettere in chiaro il male, ma nello stesso tempo tale nitore è sadico perché infligge al lettore un dolore acuto pagina per pagina come a dire che il male può essere detto, ma l’unica esperienza di male che possiamo fare è quella del dolore fisico. Ovvero io sento il male perché ho un corpo”.

Anatomia di un profeta è il tentativo di non mettere in chiaro il male. Di prenderlo così com’è, oscuro e inspiegabile. Per questo, rispetto a quello che scrissi io, è un libro molto più forte e coraggioso.

Era da un pezzo – perché da un pezzo so di questo libro, ne ho lette due versioni e mezza, e mi sono sempre ben guardato dal dire a Demetrio che cosa me ne paresse: non volevo entrarci – che dicevo a me stesso, e dicevo a certe persone amiche, e credo di aver detto anche all’interessato: “Bisognerà che con Demetrio ci faccia i conti, prima o poi”.

Anatomia di un profeta tenta caparbiamente, pagina dopo pagina, di prendere la forma di romanzo; e continuamente fallisce. Fallisce con un certo compiacimento, direi, e anche con un certo fasto: tutta una serie di trucchi grafici e di impaginazione, palesemente mutuati un po’ dal Tristram Shandy di Laurence Sterne e un po’ dall’Anatomy of melancholy di Robert Burton sono la testimonianza del tremento sforzo sostenuto da Demetrio per dare l’illusione – è complicato da dire, ci provo – che ci sia una “forma”, di tipo “informale”, in un testo che invece è semplicemente “informe”. Un travestimento, insomma.

Ufficialmente Anatomia di un profeta è un tentativo di Demetrio (del Demetrio reale, che ha scritto il libro, attraverso il Demetrio finzionale, che vi compare dentro) di fare i conti con la morte per suicidio di un bambino, Patrick (del bambino reale, che il Demetrio reale conobbe, e del bambino immaginario, che il Demetrio finzionale instancabilmente produce e sonda); e di fare i conti con Dio. Il tramite di questa contabilità è Geremia, il profeta involontario, il profeta inascoltato, il profeta di sventura, il profeta lapidato.

Non è, Anatomia di un profeta, un romanzo spritiuale. Tutt’altro. E’ un romanzo carnale. E’ un romanzo dal quale ogni trascendenza sembra bandita. La stessa speranza della “resurrezione dei corpi” e del “mondo che verrà” (p. 138 sgg) è da un lato presentata come speranza disperata, e dall’altro rappresentata così materialisticamente da non sembrare nemmeno una speranza di un “al di là”: “io mi figuro questo tornare in vita come quando ci si sveglia dopo un sogno angoscioso: il cuore in gola, il respiro affannato, un dolore vasto lungo le membra” (p. 139). Per i Demetrio, tutti e due, una cosa è certa: che ciò che c’è è il corpo, e che non c’è nulla della persona oltre il corpo.

In fondo, nelle sue duecentocinquanta pagine Anatomia di un profeta non fa che ripetere una e una sola cosa. “Lui che si è fatto morte diventerà vita, perché Dio gli è entrato dentro” (p. 65): e potete scegliere chi sia questo “lui”, se sia il Messia o il bambino Patrick o il profeta Geremia o – per immaginazione – il Demetrio finzionale o – per desiderio – il Demetrio reale. Potete scegliere tanto fa lo stesso. La vita è morte, la morte è vita, la perdizione è salvezza, la bestemmia è lode, il Dio è il male, il dolore è il bene, la fine è…

No. In realtà non c’è scritto, che la fine è l’inizio. La fine è la fine, e poi eventualmente c’è quello svegliarsi confuso dopo un sogno angoscioso.

E tanto è il cattivo gusto che abita in questo libro, che spesso non si capisce se ci si trova davanti a un tentativo di dire l’indicibile (letteratura mistica, o giù di lì), o a una rinuncia a dirlo (idem), o a un tremendo gioco di parole, o a un vanitoso “concetto” barocco – come qui: “Ecco la salvezza del mondo: le ossa di Patrick nella terra diventeranno presto alberi e fiori. Saranno il nutrimento delle radici e lui, che ha bevuto il diserbante, diventerà nutrimento per le piante”.

Davanti a tanta sfacciataggine o spudoratezza, davanti a tanto esibizionismo, davanti a tanta mancanza di gusto, davanti a un tale orrore io – che provai, come scrisse Demetrio, a suo tempo, a “mettere in chiaro il male”, mi ritiro in un angolo. Demetrio ha superato questo bisogno – illuministico, in fondo – e ha accettato l’oscurità del male, l’incomprensibilità di Dio, l’inenarrabilità della salvezza, l’indescrivibilità del miscuglio. E infatti mentre io, qua e là, nei miei racconti, e anche nel libricino 10 buoni motivi per essere cattolici che compilai con Valter Binaghi in quello stesso 2011 in cui si ripubblicava Il male naturale, mi sono confrontato con l’immaginario biblico – riducendo così la Bibbia a una cosmologia mutevole ma in fin dei conti ordinata -, con molta più forza Demetrio si è confrontato con il testo biblico: incorporandolo, riscrivendolo, subendone l’incoerenza e la magmaticità, prendendolo per quello che è.

Forse è vero che ho insegnato qualcosa a Demetrio. Certamente è vero che lui, oggi, è molto più in là. In queste settimane (non ditelo a nessuno, per carità) sono tornato alacremente a lavorare su quello scartafaccio – le cui carte più vecchie risalgono al 1998 – che sarebbe il mio famoso romanzo; e, come faccio spesso, pur essendo lo scartafaccio ancora un cantiere aperto ho provveduto già a dotarlo di una “Notizia” finale: che rende brevemente conto del lungo lavoro, delle successive redazioni, e così via. In questa “Notizia” ho scritto anche:

“Mi fa compagnia, e mi istruisce, in questi giorni, il romanzo di Demetrio Paolin Anatomia di un profeta. Demetrio ha detto, ha scritto spesso che fu un mio libro del 1998, Il male naturale, a mostrargli che di certe cose si poteva parlare, e in quali modi si poteva parlarne; Anatomia di un profeta mi ricorda, spero definitivamente, che l’importante non è la letteratura, l’importante è la vita – e il coraggio.

Dunque: m’inchino, e sono grato.

(E un applauso a Daniela Di Sora, la signora Voland, l’editrice: che ci vuol fegato, a pubblicare un libro così).

Questo è ciò che ho saputo scrivere: non una recensione, ma un fatto privato tra me e Demetrio. Se vi interessa una recensione vera e fatta bene, leggete quella che – per conto del gatto Luigi – ha scritto Sandro Campani: è in Facebook, qui.

Romanzi, atlanti

29 ottobre 2019

di giuliomozzi

Per capire che cos’è il libro Plotted: a literary atlas di Andrew DeGraff basta spendere due minuti e guardare il video qui sopra. In sostanza, contiene una serie di “mappe” di un mannello di capolavori della letteratura soprattutto anglosassone (eccezioni: Omero, Kafka, Borges). Libri che conosciamo tutti, da Moby-Dick ad Amleto passando per Orgoglio e pregiudizio e Le avventure di Huckleberry Finn. Ho messo tra virgolette la parola “mappe”, perché va intesa nel senso più largo: la “mappa” di Moby-Dick, per esempio, non riporta i viaggi della Pequod, ma illustra gli esterni e gli interni della nave e di un capodoglio; mentre la “mappa” di Amleto riporta fedelmente i movimenti di tutti i personaggi della tragedia all’interno del castello di Elsinore [e mi ha fatto venire in mente, senza possibilità di scampo, l’Amleto a fumetti di Gianni De Luca (disegni) e Raul Traverso (sceneggiatura)].

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I personaggi producono l’ambiente che li circonda

28 ottobre 2019

di Demetrio Paolin

La prima volta che ho visto il Compianto di Niccolò dell’Arca è stato per caso. Avevo accompagnato mia sorella a Bologna sulle tracce di Luca Carboni, quando sono entrato in questa chiesa vicino a piazza Maggiore e ho visto l’opera. Da allora, le volte che passo per Bologna e ho un tempo sufficiente da far due passi, io un momento per contemplare il compianto lo trovo sempre. Cosa mi colpisce di quest’opera? Perché da anni la guardo ma mi sfugge sempre qualcosa. Qualche giorno fa, complice una serie di ragioni accessorie, che qui non si nominano, stavo rileggendo Body Art di Don DeLillo e mentre leggevo Body Art mi sono venuti in mente Niccolò dell’Arca e il suo Compianto. Del romanzo di DeLillo ho posto la mia attenzione su quei passaggi in seconda persona che di solito stanno in testa ad alcuni capitoli, una sorta di soliloquio del personaggio principale, che potrebbero benissimo essere i pensieri di Mr. Turtle o – perché no – gli stessi penesieri del narratore. Comunque quello che mi colpiva era la descrizione dell’ambiente, intesa come somma di aria, luce, profumi, odori, luoghi, che veniva come suscitata dagli stessi pensieri di chi in quel momento prendeva la parola. L’ambiente non era seperato dal personaggio, ma il personaggio costruiva l’ambiente.

Ecco. Ora guardate il Compianto: cosa vi colpisce? Non c’è uno sfondo, un paesaggio, non c’è nulla; eppure, se guardate bene le statue, tutto emana una descrizione paesaggistica: il paesaggio non c’è eppure è totalmente interiozzato dai diversi protagonisti. La donna che si lancia con il suo grido sul corpo morto di Cristo, quella bocca spalancata e le vesti che le si allungano non danno l’idea di un momento di bufera, in cui la terra trema e il cielo si oscura? Non c’è nella disposizione dei diversi corpi, nel loro porsi a corona attorno al corpo morto, una sorta di protezione? Da cosa? Dalla pioggia che cade? Possibile, perché no?

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Da sé alla finzione, e ritorno. Valentina Durante intervista Giorgia Tribuiani

27 giugno 2019

Valentina Durante intervista Giorgia Tribuiani

Ci sono romanzi fatti per essere amati. Ancor prima che discussi, analizzati, dissezionati, nell’ambizione capìti, semplicemente: letti e amati. È il caso di Guasti, della giovane scrittrice Giorgia Tribuiani. In una manciata di mesi questo breve ma intenso romanzo targato Voland è riuscito a conquistarsi l’attenzione di critica e pubblico: tante recensioni e tanti commenti, impressioni, omaggi, persino lettere alla protagonista Giada. E una prima ristampa.
A colpire, delle restituzioni spontanee, è l’affetto: verso la materia narrata – come spesso, per immedesimazione, succede – ma specialmente (e non è detto che succeda) verso Giada: quest’eroina drammatica, dolente, ossessiva, combattuta fra slanci e ripiegamenti, paralizzata tra una vita non vissuta e una morte inaccettabile, dunque non accettata.
Leggendo Guasti, ci troviamo fin da subito precipitati nel countdown dei trenta giorni di una mostra. Trenta giorni alla fine dei quali, già sappiamo, qualcosa succederà, perché alla fine di un countdown qualcosa succede sempre: un razzo decolla, una bomba scoppia, un nuovo anno si apre. E noi lì, insistentemente lì: dentro la storia e costretti a non abbandonarla, fino a che non è la storia stessa a risolversi e abbandonare noi. È la cifra stilistica e la potenza della scrittura di Giorgia Tribuiani: una prosa nella quale si resta impigliati e che trova il suo specifico seduttivo nel ritmo e in una naturalezza svelta di corpo ben fatto. E questo è tanto più singolare, dato che Guasti ci parla del compianto per un corpo morto: amato, sì, ma morto.

E proprio da questo corpo noi iniziamo.

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Un saluto a Mauro

26 giugno 2019

di giuliomozzi

Questo “bollettino di letture e scritture”, vibrisse, iniziò a esistere il 6 agosto del 2000. All’inizio non aveva nemmeno un nome e si chiamva, coerentemente, “bollettino senza nome”. All’inizio non era neanche un blog, ma una lettera circolare: che spedivo a chi me la chiedeva, il più delle volte persone che incrociavo e conoscevo durante corsi, convegni, altre manifestazioni letterarie. Bandii tra gli allora pochissimi lettori una specie di concorso per scegliere il nome. Vinse vibrisse, proposto da Mauro Mongarli, allora giovane copywriter (mestiere che poi, per tanti motivi, abbandonò), mio concittadino.

Mauro se n’è andato velocemente, a cinquantaquattro anni. Il tumore è stato scoperto in aprile, sabato 22 giugno Mauro è morto, oggi 26 giugno è stato sepolto nel Cimitero Maggiore di Padova, dopo una cerimonia affettuosa e informale.

Di Mauro posso dire: che è stato una persona buona, intelligente, allegra. Non ci siamo mai frequentati tanto, ma in alcuni momenti della mia vita la sua presenza è stata veramente importante. Di qui la gratitudine, che si aggiunge all’amicizia e alla stima.

Chi volesse farsi un’idea di che persona fosse Mauro, può leggere questo suo articolo intitolato: Educazione musicale (o della gioia).

“La perfezione”, di Raul Montanari

26 giugno 2019

di Edoardo Zambelli

RAul Montanari, La perfezioneLa perfezione, di Raul Montanari, è uscito la prima volta nel 1994 per Feltrinelli e lo ripropone adesso Baldini e Castoldi, in un’edizione rivista dall’autore. Non ho letto il libro quando è uscito, l’ho fatto solo adesso, e l’ho trovato splendido.

In un breve saggio del 1972, Notes on film noir, Paul Schrader affermava che il noir non è un genere, non è definibile attraverso convenzioni narrative – siano queste l’ambientazione, i personaggi, il tipo di conflitto; si tratta piuttosto di un tono, uno stile visivo che può impregnare ed attraversare qualunque genere. Questa considerazione è, a mio parere, validissima anche per la letteratura, e viene utile anche per operare una veloce differenziazione tra il noir e il giallo, dato che spesso si tende a pensarli simili, se non addirittura a pensarli come sinonimi. Il giallo è un genere, necessita di precisi elementi per definirsi tale: omicidio, indagine, risoluzione. Certo, è pur vero che vi sono stati – e vi sono ancora – autori capaci di giocare che questo schema e piegarlo ad altri risultati, basti pensare a Todo Modo di Sciascia o La Promessa di Dürrenmatt. Il giallo – giusto per darne una definizione veloce e superficiale – è il tentativo di ricomporre l’ordine che è stato compromesso dal fatto delittuoso, e può muoversi e funzionare solo a patto di rispettare determinate convenzioni. Anche gli autori che ho citato prima ne hanno fatto uso, e solo per dimostrare l’impossibilità di restituire al mondo quell’ordine che il giallo si propone di ristabilire. Di tutto questo, il noir non ha bisogno, si muove anzi in una direzione quasi contraria. Anche quando ha il proprio motore nell’investigazione, questa – e soprattutto il suo scioglimento – non si configura come un ripristino di un ordine, al contrario, è l’affondare in un mondo nero, in un mistero che conserva il proprio segreto. Un esempio su tutti: il Marlowe di Raymond Chandler. Indaga, sì, ma è più un fluttuare negli eventi, è più controllato che in controllo, e partecipa della stessa confusione del lettore. Si muove, per così dire, nel caos. Ecco, allora, per concludere direi così: il giallo è sempre il tentativo di rimettere in ordine il mondo, il noir invece ne celebra il disordine.

Di tutto questo discorso sul noir, La Perfezione è un esempio ideale.

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Scrivere è sostare sul bordo di un precipizio

22 Maggio 2019

di Valentina Durante

[…] Quando in letteratura si parla di “necessità per la vita”, è facile veder comparire lo spettro del capolavoro. È uno spettro terribile: sentirsi caricati, in quanto autori o in quanto persone che semplicemente ci provano, dell’obbligo di produrre l’opera capace di durare, di attraversare la pellicola del tempo per finire in mano ai posteri, è soverchiante. Non so quanti riescano a scrivere con questo fardello addosso. Io non riuscirei. Non riuscirei, cioè, a scrivere sapendo che lo scopo di ciò che sto facendo può sussistere solo in proiezione futura e che tutto ciò che è contingente, in quanto contingente, non ha alcun valore. Preferisco invece pensare che, laddove l’atto di narrare permette la trasmissione di storie e una manutenzione della lingua anche di modestissima entità, quell’atto ha avuto un senso, dunque è bene che si sia prodotto. Anche se il libro finirà dimenticato dopo cinque mesi o cinque anni, in quei cinque mesi, in quei cinque anni, un certo qualcosa sarà avvenuto nella relazione fra opera e lettore, contribuendo alla fertilizzazione di un humus. È vero, siamo in molti nani sulle spalle di pochi giganti, ma si riflette mai sulla quantità di nani che occorre a un gigante per poter nascere e poi dirsi tale? Chi è che realmente sostiene, e chi è sostenuto?[..]

Nel blog “I libri degli altri”, Valentina Durante, autrice del romanzo La proibizione, pubblicato da Laurana, ha pubblicato un interessante articolo dal titolo Scrivere è sostare sul bordo di un precipizio.

Un gioco: scriviamo un “supplemento” all’ “Oracolo manuale per scrittrici e scrittori”

21 Maggio 2019

di Giulio Mozzi

Giulio Mozzi, Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, SonzognoL’Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, da me compilato e pubblicato dall’editore Sonzogno con le illustrazioni di Lise & Talami, finisce con alcune pagine bianche: nelle quali ogni lettore è invitato a proseguire o integrare il libro scrivendoci le proprie “massime” e i propri “commenti”. Il gioco che vi propongo – che avrà inizio dalla pubblicazione di questo bando, e finirà il 17 giugno, giorno del mio cinquantanovesimo compleanno – consiste appunto nel riempire, idealmente, quelle pagine.

In sostanza: ciascuno di noi, immagino, ha dentro di sé, nella propria mente, delle massime o dei promemoria, quasi dei concentrati della propria esperienza di scrittura (e del ricordo dei propri errori), che consulta mentre scrive o, più probabilmente, mentre progetta una storia o mentre rilegge quanto ha scritto. Io, per esempio, mentre scrivo mi intimo spesso: «Divaga!»; o mi interrogo: «Che cosa deve essere accaduto prima, perché possa effettivamente accadere ciò che sto facendo accadere ora?»; e quando mi rileggo mi dico sempre: «Occhio ai deittici!», perché so che tendo ad abusarne; o mi domando: «Sei sicuro che quei due punti non possano essere sostituiti da un altro segno di punteggiatura?», perché so che tendo a fare dei due punti un uso decisamente bizzarro; o mi suggerisco: «Controlla che le troppe incidentali non rendano incomprensibile ciò che scrivi”; e così via.

Allora, il gioco è questo. Riflettete sui vostri comportamenti di immaginazione e di scrittura. Vedete se vi è possibile estrarre da questi comportamenti alcune massime – suggerimenti, domande, provocazioni ec. -; provate, eventualmente, ad aggiungere a ogni massima un breve commento esplicativo o un esempio; e spedite il tutto al mio indirizzo, giuliomozzi@gmail.com, mettendo nell’oggetto dell’email la parola: «Oracoliamoci». Io pubblicherò massime e commenti nella nel mio profilo in Facebook, e dopo il 17 giugno ne farò un piccolo libro digitale, impaginato più o meno come l’Oracolo originale, che metterò gratuitamente a disposizione in vibrisse. Di ogni massima sarà ovviamente indicato l’autore. Il titolo del libro digitale sarà: Supplemento all’Oracolo manuale per scrittrici e scrittori; e la copertina, per la quale ringrazio Stefano Bonetti dell’ufficio grafico Sonzogno, sarà quella che vedete qui sotto.

So bene che ogni gioco ha bisogno di un premio. E perciò vi dico che, tra tutti i partecipanti, alla fine ne estrarrò a sorte dieci: che riceveranno un dono (nota: ecco un uso bizzarro dei due punti), consistente – come è mio solito – (nota: ecco un’incidentale) in un libro pescato in quella miniera inesauribile che è la mia biblioteca. Potrà essere un libro nuovo, un libro usato; sarà sempre un libro che a me pare degno di lettura.

Se non avete acquistato l’Oracolo, e volete comunque partecipare, potete leggere questo articolo qui per farvi un’idea di che cos’è e di come funziona. Oppure potete decidervi, con tutta la mia approvazione, ad acquistarlo. Se volete proporre il gioco ad amici e conoscenti, condividete pure questo bando: ve ne sarò grato.

A proposito de “La proibizione” di Valentina Durante / 2

6 Maggio 2019

Valentina Durante, La proibizione, LauranaValentina Durante risponde ad alcune domande di Giulio Mozzi

Ecco la seconda parte della conversazione con Valentina Durante (qui la prima) a proposito del suo romanzo d’esordio, La proibizione (Laurana).

E tra la prima stesura e la pubblicazione, come hai lavorato?

Tre anni mi ci sono voluti, per arrivare alla pubblicazione: anni affaticati psicologicamente dal respingimento da parte di agenti ed editori. In questo periodo, e soprattutto durante il nostro lungo editing, il romanzo ha attraversato molte riscritture che lo hanno reso ciò che è adesso. Le riscritture hanno inciso sulla voce, sull’andatura e sulle scelte lessicali. Ma questo forse non è più di tanto interessante. Quel che è interessante, per me, di questi tre anni di stasi produttiva sul testo (stasi perché non ho prodotto della nuova immaginazione su di esso, produttiva perché comunque del lavoro si è prodotto), è stato l’accadere di tre cambiamenti, che riassumo in tre scoperte:

La scoperta degli altri.
La scoperta dell’altro da me.
La scoperta di ciò che è altro dall’uomo.

La scoperta degli altri è accaduta quando ho iniziato a far entrare gli altri nell’opera. La scrittura non è mai stata un fatto privato, come ho detto, perché in me c’è sempre stata tensione verso un lettore. Ma era privato il suo farsi: la prima stesura del romanzo è arrivata davvero di getto e per lo più in solitudine (tu stesso sei intervenuto poco, non ti ho dato il modo di farlo). Cominciando a far circolare il manoscritto, intensificando le conversazioni non solo a proposito del testo ma anche (forse soprattutto) a proposito dei dintorni del testo, ecco che la scrittura è diventata pubblica nella sua gestazione e questo ha aiutato il processo di estraniamento al quale alludevo: il romanzo ha cominciato davvero ad apparirmi come qualcosa di altro da me, sul quale potevo eventualmente (finalmente?) formulare un giudizio di valore che non fosse giudizio di valore su di me – sulle mie intenzioni, sulla mia etica, sulla mia persona.

La scoperta dell’altro da me è stata la scoperta di ciò che non posso controllare né scatenare, e che pure lavora, fa fatica al posto mio, e questo qualcosa è il tempo. La scrittura, quella narrativa in particolare, è un’arte del tempo. Richiede del tempo per svolgersi – il viaggio attraverso il testo deve partire da un punto A per arrivare a un punto B – e richiede molto più tempo per essere prodotta e prodursi: tempo riempito dallo scrivere (e questo è ovvio), ma anche tempo vuoto o svuotato, in cui il testo viene lasciato riposare e tu dai alla mente il modo di dimenticarsene (ecco perché ho usato il riflessivo prodursi). Non puoi comprimere il tempo dell’attesa o della pausa o del silenzio, perché non puoi prescriverti o accelerare la dimenticanza. Ma dimenticare devi, diversamente non potrai superare la vischiosità che t’impedisce di intervenire su una materia che a ogni maneggiamento ti appare conclusa e conchiusa, irriducibile a ogni modifica. Tu insisti molto sull’esitare prima di scrivere. Ma io credo che occorra esitare altrettanto anche dopo aver scritto, prima di considerare un testo finito.

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A proposito de “La proibizione” di Valentina Durante / 1

6 Maggio 2019

Valentina Durante, La proibizione, LauranaValentina Durante risponde ad alcune domande di Giulio Mozzi

Da qualche giorno è in libreria il primo romanzo di Valentina Durante, La proibizione, pubblicato da Laurana. E’ un romanzo scritto nel corso di una Bottega di narrazione, ma non è per questo – nonostante i danni dell’età, credo di essere ancora lucido nel giudizio – che lo considero un romanzo importante. Lo considero un romanzo importante perché è una storia inesorabile, raccontata con una scrittura precisissima. In poche parole: mi sembra un romanzo di grande bellezza. Di una bellezza che si sente, immediatamente, nella lettura. Il fatto che numerosi editori lo abbiamo rifiutato, ahimè, non m’interessa. Mi fido del mio corpo, che reagisce alle storie come alle cose.

A Valentina Durante ho proposto una chiacchierata, ovviamente per iscritto. Questa è la prima parte.

La prima domanda è d’obbligo, Valentina. Ti chiedo di raccontare la genesi di questo romanzo.

Nella “Breve notizia” che apre il tuo Fiction 2.0, tu scrivi:

“[…] trattai il libro come il baule nel quale il viaggiatore, non sapendo che cosa gli accadrà lungo il viaggio e di che cosa avrà bisogno davvero, stipa un po’ di tutto”.

Ecco, questa frase contiene una metafora – la scrittura come viaggio – che a sua volta contiene la gestazione di questo romanzo. Nello scrivere mi percepisco così: figura camminante (non passeggiante, non divagante), una proiezione o fantasma di me stessa che, partita da un punto, deve raggiungere un altro punto. Posso durante questo itinerario smarrirmi – errare, ma non nel duplice senso del termine – e però la tensione verso un (una) fine, lo scioglimento e di conseguenza la conquista di un senso, deve esserci. Senso e conclusione sono ciò che separa una narrazione dalla vita vera.

Si viaggia portandosi appresso qualcosa: tu parli di “baule”, ma io – figura camminante – preferisco immaginarmi con un più pratico zaino. Si viaggia essendo e possedendo qualcosa: una specifica e personale andatura, un certo fiato nel petto, resistenza poca o molta, muscoli che nel corpo si tendono e si rilasciano e una tolleranza più o meno robusta alla fatica, alla strada, alla polvere, al sole e alla solitudine. E si viaggia a partire da un luogo, dal quale ci si allontana per poi ritornarvi mentalmente con la consapevolezza: ero lì, adesso sono qui.

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“Oracolo manuale per scrittrici e scrittori”

3 Maggio 2019

Giulio Mozzi, Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, Sonzognodi Giulio Mozzi

E’ in libreria da un paio di settimane, pubblicata dall’editore Sonzogno, questa cosa qui, che si chiama Oracolo manuale per scrittrici e scrittori. E’ una cosa nata quasi come uno scherzo: era il giugno dell’anno scorso, stavo in treno, stavo andando a Venezia – dove ha sede l’editore Marsilio, per il quale lavoro – e rimuginavo sul fatto che da tempo desideravo fare qualcosa che somigliasse alle Oblique Strategies di Brian Eno (più spiegazioni qui) o almeno almeno al Libro delle risposte di Carol Bolt (del quale oggi si trova in commercio solo l’edizione minore).

La sostanza è: stai facendo qualcosa, devi prendere una decisione, hai un problema che non riesci a risolvere. Ti rivolgi al mazzo delle Oblique Strategies o al Libro delle risposte, peschi una carta a caso o apri una pagina a caso, e ci trovi un suggerimento, una domanda, una suggestione. Ti ci confronti.

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Raccontare il paesaggio

7 marzo 2019

Raccontare il paesaggio / Monghidoro (Bo) 3-10 luglio 2019

Raccontare il paesaggio 2019 è la seconda edizione di un laboratorio di scrittura residenziale organizzato dalla Bottega di narrazione e dedicato alla narrazione dei luoghi e dei paesaggi. Si svolgerà a Monghidoro, sull’Appennino bolognese, a 841 metri di altitudine, dal 3 al 10 luglio 2019.
Nel corso del laboratorio si lavorerà concretamente alla creazione di un volume legato ai luoghi che ci ospiteranno, e a un’iniziativa – il Mangirò – che ha l’ambizione di attraversarli, rappresentarli, e raccontarli.

Dove e quando si svolgerà Raccontare il paesaggio?

Una settimana (da mercoledì 3 a mercoledì 10 luglio 2019) nel cuore dell’Appennino tosco-emiliano, all’incirca sul picco di una strada che per secoli è stato il principale transito di persone e merci tra la pianura padana e l’Italia centrale; tra il versante adriatico e quello tirrenico della catena appenninica; tra i territori di due città, Firenze e Bologna, al punto da venirsi a costituire come una vera e propria frontiera. Per il resto è un luogo che si deve voler raggiungere. Ci si arriva in automobile, lungo strade provinciali che partono da Bologna (o da Firenze appunto); o sulle medesime strade, ma con la corriera. Naturalmente si può arrivare a piedi.

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