Archive for the ‘Uncategorized’ Category

Note di lettura: ”Berretti Erasmus” di Giovanni Agnoloni.

11 dicembre 2021

di Luigi Preziosi

Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa - Giovanni Agnoloni - copertina

Con Berretti Erasmus ( Fusta editore, 2021) Giovanni Agnoloni scarta dal percorso a cui ci ha abituati, passando dalla narrativa pura e dalla saggistica finora praticate con esiti convincenti, ad una forma più intimistica di espressione creativa. Berretti Erasmus è infatti un memoir, in cui l’autore disegna vicende di fantasia (secondo quanto riporta nella nota introduttiva) acquerellandole con i colori del suo passato, e ponendosi contemporaneamente in una condizione condizione psicologica di acquisito (a volte faticosamente) distacco dal tempo raccontato.

Il racconto si snoda sul filo della memoria degli anni dell’università del protagonista, Giovanni, che agli inizi degli anni Duemila da studente in giurisprudenza partecipa ad un progetto Erasmus in Inghilterra. La prima esperienza lo entusiasma, inducendolo a  replicarla per più volte. Inizia così un’esplorazione che lo porterà in diversi paesi del Nord Europa tra cui l’Olanda, l’Irlanda, la Polonia e la Lituania. I ritorni a Firenze dove è nato e cresciuto acuiscono un senso di sottile estraneità nei confronti della città natale, contribuendo alla formazione di un particolare atteggiamento psicologico che prescinde dall’evidenza della sua bellezza: infatti Giovanni tende piuttosto a comparare le emozioni riesumabili dai ricordi dei suoi primi anni con quelle evocate da altri paesaggi urbani. Non lo affascinano tanto gli abbaglianti splendori dell’arte, quanto piuttosto le sensazioni sottili che promanano da un istante, uno squarcio nella coscienza, che per lui può aprirsi su prospettive di città nordiche, che lasciano immaginare un senso di tepore interiore pur nella visione di candidi scintillii di strade innevate o notturni illuminati dalla gelida luna boreale. Con ciò inizia a crescere nel protagonista un interesse che i soggiorni Erasmus renderanno via via più chiaro: la ricerca su se stesso per scoprire come stare al mondo nel modo più consentaneo alla sua natura.

I soggiorni all’estero enfatizzano le sensazioni, facilitando nel protagonista la conoscenza di una parte di sé forse altrimenti destinata a restare ignota, grazie in particolare alla possibilità di riempire i momenti di intimità con se stessi che a volte suscita il vagabondare in luoghi che non ci appartengono. Giovanni si arricchirà di nuovi incontri, ricercherà l’amore e lo troverà. L’idillio in Cracovia, che il tempo svelerà destinato ad una conclusione tragica, è struggente nel ricordo:  “Cracovia aveva fumi e verità: cinerini i primi, che non vedevi ma sentivi nel naso, respirando l’aria della sera come del primo mattino; a più strati la seconda, non perché equivoca, ma perché formata più livelli…C’era quel filo, quella risonanza tra il percorso che avevamo seguito finora, fin da prima di conoscerci, e insieme i fatti, che ci avevano portati qui praticamente da soli, proprio nel momento in cui, in fondo, desideravamo di più cambiare. E c’era quella mano sapiente, quasi di direttore d’orchestra capace di far esprimere al meglio ciascuno dei suoi musicisti, che sembrava levarsi su di noi dagli edifici barocchi e neoclassici, dalle chiese, dalle luci dei negozi da tutto quell’alone di vita che si faceva strada, quasi che fossimo dei prescelti e che il nostro percorso comune, per qualche imponderabile disegno cosmico, fosse importante. Era come se fossimo stati attesi.”

Sullo stratificarsi di esperienze accumulate studiando all’estero si amplia l’interiorità del protagonista, che a mano a mano intuisce, nei soggiorni che si avvicendano negli anni dell’università, un significato interiore più profondo del perfezionamento professionale, o anche di quello derivante dal turismo colto di cui pure è partecipe. Si forma in lui la coscienza del viaggiatore, fatta di esplorazione esteriore ma anche di invenzione di sé nei posti che si visitano, nei paesaggi che si interiorizzano fino diventare un’abitudine intima. Anche così si cresce, affinando la propria capacità di comprensione empatica del mondo e diventando giorno dopo giorno ciò che si è: anche così, o forse proprio così, nel caso di Agnoloni, si diventa scrittori. 

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Note di lettura: “Floridiana” di Emanuele Pettener.

17 novembre 2021


pettener emanuele - floridiana

“Strappatemi il cuore e mettetelo sulla pagina bianca (attenzione alle sbavature di sangue). Sono un uomo vecchio e, improvvisamente, celibe. Single. Ho lasciato mia moglie a settantun anni, dopo quarantotto di matrimonio, senza contare quelli di fidanzamento. Poh! Il gesto più coraggioso della mia esistenza. Amo mia moglie. Ma mia moglie non mi ama, non mi ha mai amato, almeno negli ultimi quarantott’anni, era giusto farglielo notare, sono stanco e così – dopo l’ultima delusione – le ho detto addio.” 

L’ incipit di Floridiana, il romanzo di Emanuele Pettener recentemente uscito presso Arkadia, immette il lettore direttamente al centro tematico della vicenda narrata, preannunciando fin dalle prime righe un ritmo narrativo notevole,  che si manterrà senza particolari ripiegamenti a sostenere brillantemente l’intera vicenda. 

Tom vive agiatamente la sua vita di dentista in pensione a Boca Raton, in Florida, tra ville con piscina, giardini e barche alla fonda nel vicino porticciolo. Ha una moglie, April, docente universitaria, affascinante, intelligente e che continua a considerare il bellissima a dispetto dell’età, e quattro figli ormai adulti. Ma l’apparenza inganna. Tom ha convissuto con la strisciante frustrazione di non essere riuscito a diventare ciò che più sentiva di essere, uno scrittore, avendo troppo a lungo rimandato di impegnarsi a fondo (a parte la gioia – soprattutto la prima – incommensurabile, della sporadica pubblicazione di qualche racconto). Quando sul peso di questi rimpianti comincia ad incombere una sopraggiunta consapevolezza che la moglie non solo non lo ami più, ma non lo abbia mai amato, decide di dare una svolta alla sua vita, lasciando la sua casa e rintanandosi in un motel. Una serie di indizi lo induce a sospettare che la moglie April abbia una relazione con Juan, suo antico compagno di un corso di scrittura creativa, riapparso dal passato come ginecologo di April. Decide allora, con tre amici più o meno suoi coetanei, di aggregarsi ad un gruppo di studenti di italiano per una vacanza-studio a Venezia. Qui l’approfondimento dell’amicizia con Laura, una ragazza argentina, allargherà l’ambito delle sue riflessioni sul tempo fino ad allora vissuto, finché anche le ombre che oscuravano il rapporto con la moglie verranno dissipate.

La scrittura di Pettener rende al lettore un’impressione di complessiva leggerezza, di non definitività delle situazioni narrate. Ma leggerezza in Floridiana non significa affatto superficialità. In un rutilante avvicendarsi di metafore e suggestioni immaginifiche, di straordinarie descrizioni paesaggistiche e di di dialoghi scoppiettanti, Tom ragiona su se stesso, riepilogando momenti e scelte che, a posteriori (ah! averlo compreso prima!) si rivelano svolte esistenziali, che non consentono ripensamenti. Ma i rimpianti in cui si dibatte Tom sono in fondo anche segni di una vitalità che si mantiene intatta negli anni, di una capacità di desiderare e di progettare che non si cura del fluire del tempo e del suo progressivo consumarsi. Tom vive così l’incertezza di una discrasia esistenziale che caratterizza i nostri tempi, il contrasto tra una senilità esteriore ed il prolungato permanere, senza mutamenti sensibili, della personalità del giovane che si è stati. Di qui il suo trascorrere quasi affannoso tra le attività più diverse, dalla serata al night in cerca di ragazze ( e quali ragazze troverà…) al corso di italiano, all’immediata adesione alla proposta di entrare nel gruppo in partenza per Venezia, inizialmente composto di studenti che potrebbero essere abbondantemente suoi figli. Di qui anche lo sfogarsi delle pulsioni in ricorrenti fantasie erotiche, ma anche in un inesausto ripensare a situazioni passate, forse per porre loro rimedio, forse per trarne ispirazione. 

Finezza psicologica e maestria descrittiva: nella controllata modulazione di una scrittura assai brillante, utilizzata per sondare i caratteri dei personaggi a profondità psicologiche inaspettate, risiede non solo la principale ragione di dignità letteraria del libro, ma anche l’evidenza della consapevole sapienza narrativa dell’autore.

Tutti i corsi della Bottega di narrazione per il 2021-2022

12 giugno 2021

La Bottega di narrazione diretta da Giulio Mozzi ha pubblicato il programma dei corsi per l’annualità 2021-2022. Lo si può consultare visitando il sito della Bottega o prelevando il catalogo in pdf.

Note di lettura: “Dante in love” di Giuseppe Conte.

25 marzo 2021

di Luigi Preziosi

Giuseppe Conte con questo suo Dante in love (Giunti editore, Firenze, 2021)rende al Padre della nostra lingua un omaggio tra i più originali tra i tanti che questo anno ricchissimo di rivisitazioni ci propone. “Che cosa è questa poesia (della Commedia)? È la vita umana guardata dall’altro mondo”. Potrebbe questa affermazione di Francesco De Sanctis essere all’origine dell’opera di Conte? Solo un’illazione, certo, ma la suggestione desanctisiana ben s’attaglia all’intuizione su cui Conte fonda questo suo libro, non esattamente definibile nel genere (fantastico, metastorico, storico – filosofico?), indeterminato nella misura (romanzo breve, racconto lungo), e perfino nella natura ibrida, originata dalla presenza nella seconda parte di inserzioni saggistiche illuminanti non solo per la comprensione piena della parte narrativa, ma per la lettura che un poeta del nostro tempo dedica all’opera dantesca.

L’azione si svolge tutta oggi, 25 marzo 2021.

Conte immagina che l’Altissimo, ricevendone l’anima in Cielo, disponesse che, ogni 25 marzo, giorno dell’inizio del viaggio ultraterreno di Dante, l’ombra del poeta facesse ritorno a Firenze dal tramonto all’alba, per suggerne fascino e rimpianto e ogni volta rinnovata meraviglia, finché non tornasse ad amare una donna in carne ed ossa, essendone, a sua volta riamato: “Hai scritto di aver viaggiato con il tuo corpo e le tue ossa tra le ombre dell’al di là fino al Paradiso, ora farai il viaggio opposto, viaggerai come ombra tra gli uomini in carne ed ossa…”; questo può finire ad un patto: “che una donna che tu amerai corrisponda il tuo amore”. Ben singolare contrappasso, per chi ha proclamato l’ineluttabilità della sentenza per cui “amor che a nullo amato amar perdona”.

Questa è dunque la settecentesima notte: Dante la racconta ad un ignoto interlocutore rivolgendoglisi con quel “tu” così usuale nelle sua cerchia di amici poeti, indirizzato di volta in volta o alla propria ballatetta, alla maniera di Guido Cavalcanti, o anche agli amici poeti, come Lapo e lo stesso Guido.

Da allora, ogni ritorno sulla terra è un ritorno a Firenze, cuore del suo mondo, dove staziona ogni notte davanti al Battistero, cuore di Firenze.

All’ombra del suo bel san Giovanni ha visto mutare di anno in anno costumi, oggetti quotidiani, comportamenti, e, soprattutto, la lingua, “una lingua buona come nessuna altra al mondo per contenere tutto. Tutto. Le invettive più violente e le preghiere più dolci. Le liti più feroci, più turbolente, e l’ascesa calma verso dove tutto è pace e luce.” Ma, soprattutto, nel suo soggiorno annuale sulla terra si è dedicato alla ricerca, apparentemente priva di speranza per chi ha sostanza di ombra invisibile agli umani, di una donna non solo da amare, ma capace di ricambiare il suo amore. Impresa apparentemente priva di speranza, ma certo capace di suscitare antiche emozioni per chi, in vita, ha sentito la passione amorosa con quel vigore che traspare evidente dalle sue pagine: “la passione d’amore per me è stata la prima, e col tempo ho riconosciuto che è stata la più giusta e la più vera. Cosa credi che abbia fatto, queste settecento notti?”

Nelle ultime visite incrocia sulla soglia del Battistero un giovane vagabondo, al quale di tanto in tanto una ragazza porta qualche genere di conforto. La stessa ragazza tenta invano di aiutarlo quando la polizia lo ferma, accusato di furto in un bar nelle vicinanze. Dante la osserva meglio, comincia a scrutarne il volto, tentando contemporaneamente di indovinarne qualche pur minimo tratto del carattere. La rivede nel giro di pochi minuti per tre volte: tre volte, come gli abbracci tentati durante il colloquio con Casella, a rinnovare nel tempo presente quel senso di incolmabile distanza tra viventi e defunti che nell’incontro in Purgatorio gli aveva straziato il cuore.

Tanto basta per convincerlo a lasciare l’ombra rassicurante del Battistero per seguire la ragazza attraverso i vecchi quartieri di Firenze. Non c’è un opalescente orizzonte limbale, in questa sera di fine marzo, piuttosto un senso di trepida attesa primaverile, per ciò che può essere ancora, nonostante i limiti umani che permangono oltre la morte.

La vede consolare un’amica, e nel loro dialogo ne scopre il nome, Grace (Grazia…), e poi anche respingere un’aggressione di due malintenzionati, fare una sosta nel dehors di un bar, dove l’ombra del poeta sfiora la mano della ragazza con la sua. La segue fino al suo appartamento, ed assiste ad un colloquio con un corteggiatore di assai scarsa sensibilità, che viene poi allontanato. Nel breve volgere di una sera di inizio primavera è nata ed è cresciuta, tumultuosa come allora, l’antica e sempre uguale a se stessa passione d’amore: “Avrei bisogno, mio Dio, di avere almeno una voce che risuona…per dire: Grace, sono io che ti tenevo la mano sulla tua, poco fa, sono io che ti amo”.

Infine, Grace prende un libro, iniziando a leggere ad alta voce. È il Canto V dell’Inferno, e quando chiude il libro, in preda ad una sottile commozione, bacia l’immagine di Dante sulla copertina. Dante è dunque di nuovo riamato, in una forma del tutto immateriale, per il tramite dell’emozione che scatena la poesia.

Si conclude così il patto con l’Altissimo? Dante è sciolto dal pesante dovere del perenne ritorno? Per la prima volta in settecento anni, il poeta non sembra convinto di tornare al Paradiso che l’attende, destinazione ultima del suo viaggio oltremondano, tanto da elevare al cielo una imprevedibile preghiera: “Lasciami così, Signore dell’Universo, a fianco di questa giovane straniera che dorme, per amarla come può amare un’ombra innamorata”. Ma è un attimo. Dante si abbandona alla volontà del Signore dell’universo, fiducioso che la scintilla d’amore misteriosamente suscitata in Grace valga a porre fine al suo peregrinare. Qualcosa, comunque, di questa notte del 25 marzo 2021 resterà:” non rimpiangerò da Lassù la mia vita da ombra, ma Grace, l’amore impossibile e meraviglioso con lei, come farò a non rimpiangerlo…”.

In Dante in love la passione d’amore occupa l’intera narrazione, brucia ogni altra prospettiva, si fa tensione che condiziona ogni gesto ancora da compiere. La smisuratezza della personalità di Dante, capace di ogni sentimento al grado massimo, non viene colta come possibile spunto per la monumentalizzazione del personaggio (che, data la sua statura, sarebbe scontata). Si evidenzia invece una sconfinata disponibilità ad amare, a lasciarsi pervadere dall’amore per poi restituirlo per il tramite della poesia a chiunque sia in grado di intenderlo, attraverso le relazioni che misteriose si instaurano tra chi ha calcato questa terra, e che sono capaci di attraversare i secoli.

L’emozione, su cui si gioca tutta la vicenda, si esprime con una scrittura briosa, amichevolmente colloquiale, ma anche fortemente evocativa e sapientemente qua e là riecheggiante atmosfere dantesche. Il tumultuare del cuore suggerisce momenti di forte concitazione espressiva. L’assoluta prevalenza attribuita ai sentimenti, che nella notte raccontata si scatenano senza limiti, rivela che Conte, con felice anacronismo, legge Dante alla maniera dei romantici del nostro Ottocento, che ne esaltavano la sapienza nel rappresentare sia la vastità che l’intensità della passione. Del romanticismo ripropone anche l’attenzione alle suggestioni del mito, regalandoci, oltre alle tante che già aleggiano intorno al poeta sommo, la leggenda dantesca che ancora mancava.

“La scena di orrore più estrema mai scritta”

8 gennaio 2021

Nel Venerdì, supplemento del quaotidiano la Repubblica, Piero Melati – che ringrazio – dedica due pagine al mio romanzo Le ripetizioni, che l’editore Marsilio manderà in libreria il 14 gennaio prossimo.

Note di lettura: “Marca gioiosa” di Roberto Plevano.

19 novembre 2020
di Luigi Preziosi

Marca gioiosa (Neri Pozza editore, 2017, € 18,00) è un libro di cui si può scrivere anche a distanza di tempo dalla sua uscita, prescindendo dalle ordinarie stringenti esigenze di maggior o minore riuscita editoriale. Il suo autore, Roberto Plevano, consegna al lettore un romanzo storico tutt’altro che effimero dalla robusta impalcatura, in cui accanto ad una precisa e circostanziata ricostruzione dei modi di essere dell’epoca di ambientazione, risalta la precisa scansione dei tempi interna alla vicenda narrata, il che è in fondo una delle principali doti che si richiedono al narratore di razza.

La storia si svolge all’inizio del XIII secolo, e si dipana attraverso luoghi e vicende emblematiche dell’epoca raccontata, un Medioevo di indicibili efferatezze e di vertiginose guglie di spiritualità, di carnalità grassa e di sublimazioni del sentimento amoroso.

In Provincia, cioè in Provenza, Amalrico, il giovane protagonista, ritorna al suo paese Bézieres dopo aver studiato presso il dotto magister artium Amalrico (Amalrico di Bène) di Tolosa, per ritrovare il padre barrocciaio e gli amici di infanzia. Ma si scontra con la realtà terribile delle persecuzioni contro i Catari: la crociata contro gli albigesi sta mettendo a ferro e fuoco le campagne e le città. I Crocesignati, preceduti da fama di valorosi nelle crociate in Palestina, si dimostrano nella realtà dei fatti un’orda barbarica, gioiosamente esecutori di quell’“uccideteli tutti: Dio riconoscerà i suoi” pronunciato (probabilmente) dal legato pontificio Arnaud Amaury, in forza del quale si risparmiano il disturbo di distinguere tra cristiani e cristiani, figli tutti dello stesso Dio, anche se non lo sanno più.
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Note di lettura: “Baco” di Giacomo Sartori.

9 febbraio 2020
Luigi Preziosi.

La produzione più recente di Giacomo Sartori, con la sola eccezione del romanzo Sono Dio, è improntata all’esplorazione, condotta privilegiando toni partecipi ed insieme oggettivi, di condizioni esistenziali di segregazione e di confinamento. Così è in Rogo, in cui le tre protagoniste sono materialmente o psicologicamente prive di libertà, così in Cielo nero, in cui la prigionia di Galeazzo Ciano, rinchiuso nel carcere di Verona in attesa della morte, si fa metafora di altre privazioni di libertà, meno storicamente note, ed anche in Sacrificio, dove un arcigno paesaggio alpino restringe gli orizzonti spirituali dei giovani protagonisti.
Anche il protagonista di Baco (Exorma, 2019) vive una condizione di separazione, non claustrofobica, come alcuni dei personaggi dei romanzi citati, ma certamente di isolamento interiore. Si tratta di un ragazzino di dieci anni, di cui non è rivelato il nome, affetto da sordità, iperattivo, a volte protagonista di intemperanze che si manifestano soprattutto in ambito scolastico. (more…)

L’arte di fingersi autore di finzione

17 gennaio 2020

di giuliomozzi

The Life and Strange Surprizing Adventures of Robinson Crusoe, Of York, Mariner: Who lived Eight and Twenty Years, all alone in an un-inhabited Island on the Coast of America, near the Mouth of the Great River of Oroonoque; Having been cast on Shore by Shipwreck, wherein all the Men perished but himself. With An Account how he was at last as strangely deliver’d by Pyrates. Con questo titolo-didascalia, redatto secondo l’uso dell’epoca, si presentò al pubblico, il 25 aprile 1719, il romanzo a tutt’oggi notissimo con il titolo opportunamente scorciato di Robinson Crusoe, e un’attribuzione d’autore diversa: Daniel Defoe. Già: perché questo romanzo che qualche manuale considera più o meno «il primo romanzo moderno» o «il primo romanzo modernamente realistico», eccetera, ovvero questo romanzo che è considerato una pietra miliare del romanzo europeo (e quindi di tutto il romanzo, dato che il romanzo è tutt’altro che una forma universale), tanto che alcuni manuali di storia del romanzo ritengono di poter bellamente ignorare ciò che fu romanzescamente scritto prima del 25 aprile 1719, o di poterlo trattare come se fosse scritto sì ma romanzescamente no, questo romanzo, insomma, si presentò al pubblico dell’epoca non come un romanzo bensì come un libro di memorie: il cui autore, ovviamente, era il titolare della Life e delle Strange Surprizing Adventures, e cioè lo stesso Robinson. All’epoca, sia chiaro, il romanzo non godeva del prestigio del quale gode oggi: se si può dire che attualmente il romanzo è la forma-regina della letteratura, all’epoca del Robinson Crusoe il prestigio andava – nell’ambito anglosassone – piuttosto al poemetto lirico-narrativo-sentimentale, alle raccolte di lettere morali, e così via (roba, in sostanza, che noi oggi ci indigneremmo di avere nella nostra biblioteca). Ma non per schivare il disonore di aver scritto un romanzo Daniel Defoe nascose il proprio nome, lasciando che tutti credessero reale il suo Robinson, e che Robinson avesse realmente scritto quel libro di memorie (due credenze che vanno ben distinte, faccio notare), bensì per accorta strategia anche commerciale ma soprattutto artistica (non che Defoe fosse insensibile al soldo: scriveva solo per quello): quella storia lì, capiva benissimo Defoe, sarebbe stata letta in un modo se fosse stata ritenutavera, e in tutt’altro modo (e con, prevedibilmente, molto minore interesse) se fosse stata ritenuta inventata: l’unica via, dunque, era quella di farne un falso. Alla sua epoca, peraltro, i viaggi – e soprattutto quelli per mare – erano realmente avventurosi, e i naufragi all’ordine del giorno, e le isole deserte frequentissime (non come oggi, che ovunque tu vada ci trovi un Kentucky Fried Chicken o un negozio di telefonini): e, in mancanza del National Geographic Channel, che fu inventato solo molto dopo, il pubblico leggeva avidamente i resoconti di viaggi, e tanto più avidamente quanto più erano avventurosi. Il naufragio, l’isola deserta, i cannibali: questa roba, intuì Defoe, tirava moltissimo.

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Note di lettura: “La lingua della terra” di Giacomo Revelli.

6 novembre 2019

di Luigi Preziosi

L’estate che racconta Giacomo Revelli in La lingua della terra (Arkadia editore, 2019) è la stagione in cui matura il senso del cambiamento, dell’adeguamento al tempo nuovo che prima o poi tutti ci coglie. La genericità di questa formula di ingresso nel libro è dovuta alle diverse modulazioni che il cambiamento assume nei confronti dei personaggi della storia. Il principale, Bedè, è un contadino ormai quasi vecchio che nell’entroterra ligure accudisce con ostentata pervicacia il suo uliveto abbarbicato sulla costa della collina: un pezzo di terra che era di suo padre e prima ancora dei suoi nonni e che difficilmente riuscirà a tramandare ai due figli, i quali proprio nell’estate che abbraccia il racconto maturano un definitivo disinteresse a continuare l’attività di famiglia, impegnati come sono nella ricerca di altre strade: il primo, che è anche la voce narrante, affronta le formule matematiche degli esami del politecnico, mentre le forti emozioni di un primo amore estivo assorbono l’attenzione del secondo. (more…)

Da sé alla finzione, e ritorno. Valentina Durante intervista Giorgia Tribuiani

27 giugno 2019

Valentina Durante intervista Giorgia Tribuiani

Ci sono romanzi fatti per essere amati. Ancor prima che discussi, analizzati, dissezionati, nell’ambizione capìti, semplicemente: letti e amati. È il caso di Guasti, della giovane scrittrice Giorgia Tribuiani. In una manciata di mesi questo breve ma intenso romanzo targato Voland è riuscito a conquistarsi l’attenzione di critica e pubblico: tante recensioni e tanti commenti, impressioni, omaggi, persino lettere alla protagonista Giada. E una prima ristampa.
A colpire, delle restituzioni spontanee, è l’affetto: verso la materia narrata – come spesso, per immedesimazione, succede – ma specialmente (e non è detto che succeda) verso Giada: quest’eroina drammatica, dolente, ossessiva, combattuta fra slanci e ripiegamenti, paralizzata tra una vita non vissuta e una morte inaccettabile, dunque non accettata.
Leggendo Guasti, ci troviamo fin da subito precipitati nel countdown dei trenta giorni di una mostra. Trenta giorni alla fine dei quali, già sappiamo, qualcosa succederà, perché alla fine di un countdown qualcosa succede sempre: un razzo decolla, una bomba scoppia, un nuovo anno si apre. E noi lì, insistentemente lì: dentro la storia e costretti a non abbandonarla, fino a che non è la storia stessa a risolversi e abbandonare noi. È la cifra stilistica e la potenza della scrittura di Giorgia Tribuiani: una prosa nella quale si resta impigliati e che trova il suo specifico seduttivo nel ritmo e in una naturalezza svelta di corpo ben fatto. E questo è tanto più singolare, dato che Guasti ci parla del compianto per un corpo morto: amato, sì, ma morto.

E proprio da questo corpo noi iniziamo.

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“La perfezione”, di Raul Montanari

26 giugno 2019

di Edoardo Zambelli

RAul Montanari, La perfezioneLa perfezione, di Raul Montanari, è uscito la prima volta nel 1994 per Feltrinelli e lo ripropone adesso Baldini e Castoldi, in un’edizione rivista dall’autore. Non ho letto il libro quando è uscito, l’ho fatto solo adesso, e l’ho trovato splendido.

In un breve saggio del 1972, Notes on film noir, Paul Schrader affermava che il noir non è un genere, non è definibile attraverso convenzioni narrative – siano queste l’ambientazione, i personaggi, il tipo di conflitto; si tratta piuttosto di un tono, uno stile visivo che può impregnare ed attraversare qualunque genere. Questa considerazione è, a mio parere, validissima anche per la letteratura, e viene utile anche per operare una veloce differenziazione tra il noir e il giallo, dato che spesso si tende a pensarli simili, se non addirittura a pensarli come sinonimi. Il giallo è un genere, necessita di precisi elementi per definirsi tale: omicidio, indagine, risoluzione. Certo, è pur vero che vi sono stati – e vi sono ancora – autori capaci di giocare che questo schema e piegarlo ad altri risultati, basti pensare a Todo Modo di Sciascia o La Promessa di Dürrenmatt. Il giallo – giusto per darne una definizione veloce e superficiale – è il tentativo di ricomporre l’ordine che è stato compromesso dal fatto delittuoso, e può muoversi e funzionare solo a patto di rispettare determinate convenzioni. Anche gli autori che ho citato prima ne hanno fatto uso, e solo per dimostrare l’impossibilità di restituire al mondo quell’ordine che il giallo si propone di ristabilire. Di tutto questo, il noir non ha bisogno, si muove anzi in una direzione quasi contraria. Anche quando ha il proprio motore nell’investigazione, questa – e soprattutto il suo scioglimento – non si configura come un ripristino di un ordine, al contrario, è l’affondare in un mondo nero, in un mistero che conserva il proprio segreto. Un esempio su tutti: il Marlowe di Raymond Chandler. Indaga, sì, ma è più un fluttuare negli eventi, è più controllato che in controllo, e partecipa della stessa confusione del lettore. Si muove, per così dire, nel caos. Ecco, allora, per concludere direi così: il giallo è sempre il tentativo di rimettere in ordine il mondo, il noir invece ne celebra il disordine.

Di tutto questo discorso sul noir, La Perfezione è un esempio ideale.

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Note di lettura: “N.B. Un teppista di successo” di Riccardo Ferrazzi.

27 gennaio 2019

Riccardo Ferrazzi, con questo suo N.B. un teppista di successo (Arkadia Editore, 2018) intreccia con mano felice il romanzo storico e la biografia, riuscendo a rendere non solo godibile, ma molto spesso anche non scontata, una narrazione su un tema la cui bibliografia è peraltro immensa, di dimensioni proporzionate alla grandezza del mito di cui tratta. Ferrazzi affronta l’impresa senza mostrare timori reverenziali, tentandone piuttosto semplificazioni e cercando, nel dipanarsi degli episodi decisivi, quelle coerenze interne alla vicende senza le quali si rischia di disorientare il lettore di narrativa. Perché questa è infatti una prova di narrativa, prima che un saggio storico, o per lo meno, di essa ha il passo, il senso dei tempi propri del racconto, la cura dei personaggi, la ricostruzione degli ambienti per descrizioni suggestive. (more…)

Note di lettura: “Autismi” di Giacomo Sartori.

27 novembre 2018

Autismi di Giacomo Sartori potrebbe essere preso come esempio della non del tutto serena relazione tra pubblicazione via web e pubblicazione cartacea, oggetto di tante dissertazioni in materia che ormai da una ventina d’anni occupano i siti letterari. Sarebbe facile pensare che una raccolta di racconti in volume pubblicati in prima versione su una delle riviste on line più autorevoli tra quelle in circolazione possa incontrare un largo favore ed una altrettanto ampia diffusione. Diversa la storia di questi racconti. Usciti dal 2008 al 2010 su Nazione indiana, di cui l’autore è tra gli esponenti più autorevoli (e più appartati), sono stati antologizzati a fine 2010, quando, come si legge nella Nota dell’autore, “un microeditore ha stampato centotredici eleganti copie della versione rivista della raccolta, che non sono mai arrivate in libreria, forse perché si sentivano incomprese e sole.” (more…)

Il quadrato di M.

24 settembre 2018

[Il 27 settembre uscirà per D editore una raccolta di racconti dal titolo Illusioni. Ovvero 13 modi di raccontare i quadri, tra i vari contributi c’è anche un non-racconto mio, che grazie al permesso dell’editore pubblico qui. dp]

di Demetrio Paolin

 

[…]Non ho più voglia di scrivere; l’ho capito questa estate al mare, mentre guardavo il cielo e l’acqua entrambi verdastri la mattina. Mia figlia e mia moglie si mettevano la crema e osservavo loro e le altre persone. Ascoltavo i loro discorsi, li registravo, notavo i loro tic, collegavo certe frasi le une alle altre, interpretavo segni, gesti, minuzie e attenzioni. Mi dicevo: ne avrei per scrivere un romanzo o un racconto, potrei averne anche per scrivere un saggio. Poi guardavo l’immensità vedastra davanti a me, la complessità dei riflessi della luce sull’acqua, la precisione con cui l’onda si infrangeva sulla battigia, il modo con cui le nuvole cedevano la loro forma sulle montagne alle mie spalle e mi dicevo: Ecco potrei scrivere una poesia, un poemetto o una frase brillante.
Invece nulla. Poggiavo la mia testa sullo sdraio e mi addormentavo per lungo tempo. […]

Continua a leggere “Il quadrato di M” di Demetrio Paolin (pdf)

“10”, di Dario Voltolini

24 aprile 2018

[Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione alla nuova edizione del romanzo 10, di Dario Voltolini, per la Collana Laurana Reloaded].

di Demetrio Paolin

Dario Voltolini è uno scrittore d’occasione e di trasparenze. So che questo sembra un incipit facile e a effetto, ma sono queste due tra le caratteristiche migliori della sua prosa e della sua opera, che in particolar modo in 10 si trovano riunite.

Ora ovviamente il lettore vorrebbe capire perché io abbia usato queste due categorie per descrivere la prosa dello scrittore torinese, ma mi si permetta, in omaggio al modo un po’ svagato di procedere di Voltolini stesso, di raccontare un piccolo fatto personale.

Io sono un giocatore di calcetto e una persona che scrive; e quando uscì il libro di racconti di Voltolini fu per me una specie di piccola rivelazione. 10 sanciva la possibilità di scrivere di calcio in un modo totalmente nuovo. La scrittura sul calcio in Italia aveva sempre significato Brera, Arpino e Viola; e guardando fuori i cantori del calcio erano sudamericani (Osvaldo Soriano su tutti). La principale caratteristica di questi narratori, soprattutto delle triade italiana, era costituita da una certa coloritura linguistica, che va dalla barocchismo gaddiano di Brera, al tono neorealistico di Arpino, alla vaga ironia ariostesca di Viola, per non parlare dell’epicità che si respira nei testi di Soriano. Ecco questo tipo di modo di raccontare il calcio era dominante, anche per chi, come me, dovendo pagarsi l’università scriveva di sport sui giornali provinciali e parrocchiali, redigendo cronache di scontri in terza categoria simili a resoconti da poema omerico.

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“Più segreti degli angeli sono i suicidi”, di Gian Marco Griffi

14 settembre 2017

di Franco Foschi

[L’opera di Gian Marco Griffi intitolata Più segreti degli angeli sono i suicidi, pubblicata da Bookabook, sarà ufficialmente nelle librerie – o, quantomeno: ordinabile presso le librerie – da domani, 15 settembre 2017. A suo tempo mi spesi perché l’opera fosse pubblicata: ora desidero, veramente, che quante più persone la leggano. Qualche giorno fa ne ho regalata una copia a Franco Foschi, vecchio amico, buono scrittore, formidabile lettore: che mi ha incaricato di far avere a Gian Marco questa lettera. Col suo permesso la pubblico. gm].

Caro Griffi,

benedetto il giorno che Giulio Mozzi mi ha regalato il suo libro! Era da un pezzo che non ridevo così sguaiatamente, che non inorridivo così a fondo, che non arrivavo proprio all’ultimo passo prima dello scandalo, che non godevo dell’iconoclastia invece che della speranza.

Ho già una certa età, quella per intenderci in cui si passa da incendiari a pompieri, per cui da tempo mi sono adagiato su una lettura forse mai del tutto rassicurante, ma comunque sempre più tesa alla ricerca della ‘pregnanza’ che della lucida follia. Il suo romanzo atomico ha ribaltato e scombiccherato questa prospettiva, a favore del leggere come una scudisciata, e a sentirsi appena masochisti perché questa scudisciata ti piace…
Difficile dare una sistemata critica al suo menhir narrativo per cui, esattamente come lei saltabecca come le pare nella scrittura, io farò altrettanto nei pensieri, nelle annotazioni, nelle sbracate, nelle valutazioni. Il suo libro è barocco, eccesivo, indegno, moralissimo, feroce, tenero, laido, ributtante e affascinante. Le idee originali comico-sataniche sono talmente tante che chissà quante riuscirò a ricordarne…

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Note di lettura: “L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi” di Marino Magliani.

2 giugno 2017

di Luigi Preziosi

220Marino Magliani, con L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (da poco in uscita presso Exorma, euro 14,50), continua l’esplorazione di se stesso, già praticata in forma esplicita almeno con Soggiorno a Zeewijck (Amos, 2014) e con Il canale bracco (Fusta, 2015), i suoi ultimi libri più importanti, e con alcuni dei racconti antologizzati in Carlos Paz e altre mitologie private (Amos, 2016). Qui l’autore dismette in parte la procedura narrativa utilizzata in precedenza, consistente nell’individuazione di un pretesto narrativo (raccontare un canale, o la vita in flânerie di una cittadina olandese) che fungeva da spunto per acuminare memorie, ripensare esili, inventare nuove geografie, disegnare mappe e stabilirvi analogie geografiche e spirituali tra luoghi del passato e luoghi del presente. Ne scaturiva l’attribuzione alle cose minime (ma non solo) del mondo di un significato altro, ulteriore rispetto alla sua reale apparenza, quasi un casuale istantaneo scintillio rivelatore del senso dello stare al mondo. Qui il volo si fa più alto, non c’è più ricerca di occasioni contingenti per rendicontare i risultati di questo nuovo modo di investigare se stesso, il pretesto è esattamente ed apertamente il mero bisogno di raccontare.

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Jeremy in a hole

2 Maggio 2017

di Demetrio Paolin

[Queste pagine fanno parte di una “cosa” nuova; è in fase di scrittura, si prenda questa narrazione come una prova di materiali].

Il periodo successivo all’adolescenza è stato  un apprendimento del lutto.

Leggo questa frase sulla musicassetta che trovo a casa dei miei. Sono venuto qui per cercare la mia prima copia di Geremia, quella che lessi nel 1991, subito dopo la morte di Patrick. Sono curioso di vedere cosa avevo sottolineato, cerco un appiglio che mi dica chi ero io come lettore e come ragazzo in quegli anni e dopo quella morte. Ho trovato, invece, una TDK Chrome 90 minuti. Non ci sono altre scritte se non questa che ho appuntato. Vorrei ascoltarla, ma prima cerco ancora bene tra i libri e i testi che ho lasciato a casa nel paese. Per un attimo mi fermo a guardare fuori dalle tre finestre che per i primi 20 anni mi hanno visto crescere. Chi era il ragazzo di allora? Chi è questa massa di carne che ingombra la finestra adesso? Che tipo di rapporto c’è tra loro due?

Niente è più estraneo a me stesso che il me stesso della mia giovinezza: non vedo tra me e lui nessun tipo di familiarità o di vicinanza, eppure il sangue, la carne, i capelli e i difetti di pronuncia sono miei. Sono io senza essere più io.

Il diciassettenne di allora chissà dove è finito, in quale remoto angolo della mia coscienza o del mio profondo. Io non ho nessuna intenzione di suscitarlo adesso, anche se il sole che cade sui tetti e il rumore di mia madre che rigoverna i piatti in cucina sono familiari e morbidi: quanti pomeriggi ho passato in questo modo a guardare i tetti modificare la gradazione di luce e ombra, imparando a memoria le macchie di umido sulle tegole rosse, distinguendo i ciuffi di capperi selvatici sulla muraglia dai semplici arbusti matti; e lì nella piccola porzione di cielo, che l’ovale della finestra mi mostrava, il mio naso sanguinava per i pensieri che avevo, per le cose che immaginavo, per le vergogne che si insediavano nella mia pelle.

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Una lettera d’amore

14 febbraio 2017

di Demetrio Paolin

lettera

Cara Mara

Non so se queste parole arriveranno a te così come le scrivo.  Forse altri occhi che non sono i tuoi, i  tuoi occhi di spillo che guardavano il mare le poche volte che ci siamo stati, vedranno la mia calligrafia, ma nonostante i guardiani cercherò di parlarti chiaramente.

Qui dal carcere, tra le sbarre, vedo uscire la nebbia. Casale è così: un posto pieno di silenzio, che mi viene più facile pensarti in una delle nostre case sicure. Immagino a cosa pensi, immagino quello che senti ora rimescolarti nel sangue. Questo mondo e questa società, così come le abbiamo conosciute e vissute, sono destinate a esplodere. Noi saremo la miccia di questa apocalisse.

So che sorridi perché vedi in me il ragazzo cresciuto tra oratorio e messa. Eppure è così: il mondo è morente. Io lo vedo con nitore da questo angolo buio da cui mi è concessa la vista: tutto geme per la fine prossima. La natura, i pochi alberi che magri appaiono in lontananza, le nubi sparute nel cielo, la pioggia e le cornacchie abbandonate sembrano attendere il momento preciso in cui ogni cosa si svelerà. E io attendo con ansia il momento in cui non ci sarà più nulla di quello che siamo abituati a vedere, ma un mondo nuovo, un cielo terso, una felicità pura, che la sola idea di tutto questo mi rende gravido e partoriente, come se fossi un cavalluccio marino che feconda in sé i piccoli nascituri.

Ci saranno cadaveri lasciati per terra, lo sappiamo. Noi saremo visti come carnefici, ma è il prezzo che si paga per cambiare il mondo. La redenzione è un atto di violenza. Il Dio, in cui noi crediamo, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Marx, il Dio dei poveri è un Dio rabbioso che tira fuori i corpi dal nulla e li riporta in vita, che cambia verso alla terra e separa le acque…

È la nostra fede, la nostra gloria di rivoluzionari, sappiamo a cosa andiamo incontro; potevamo maledire il giorno della nostra nascita e la società in cui viviamo e invece ci siamo fatti strumenti di questo cambiamento.

Ora è venuto il tempo di chiudere questa breve lettera e mi prende una malinconia da quindicenne, stupida e impossibile da trattenere, penso a quando sono stato con te l’ultima volta prima dell’arresto e sono entrato nel tuo corpo.

Ti ho sussurrato che stavamo creando un mondo, separando la luce dalle tenebre, le acque dalla terra ferma, ma neppure questo giustifica i morti che faremo, perché abbiamo scelto –  nonostante l’amore e il bene che sentiamo – la violenza. Siamo armati e sappiamo che finiremo la nostra esistenza terrena sul marmo di un tavolo autoptico. Ci amiamo di un amore che non c’entra con la rivoluzione, ma che sacrifichiamo a essa.

E in questa rinuncia di noi stessi, siamo nuovi.

Con amore
Tuo Renato

Tullio Avoledo su “L’antagonista” di Edoardo Zambelli

11 ottobre 2016

di Tullio Avoledo

[Tullio Avoledo, da poco in libreria con il nuovo romanzo Chiedi alla luce, ha letto L’antagonista di Edoardo Zambelli e ci ha fatto la cortesia di scriverne. Grazie. gm]

cop_antagonistaAvvertenza preliminare: non sono un recensore. Sono un lettore, quindi ciò che sto scrivendo non è una recensione, ma una semplice serie d’impressioni di lettura.
Seconda avvertenza: leggo pochissima narrativa. Divoro saggistica e poesia, ma leggo pochi romanzi, e meno ancora racconti. Così non so fino a che punto sono un giudice attendibile, rispetto a chi, magari per professione, legge tipo venti romanzi al mese.
Nelle due settimane di vacanza dalla scrittura che mi sono concesso per riprendermi da due festival, ho letto tre libri molto belli. Uno solo di questi era un romanzo, ed è L’antagonista di Edoardo Zambelli.

L’autore è giovane, maledetto lui. Anche se non troppo giovane, quindi ritiro il maledetto.
E’ anche maledettamente bravo, e stavolta l’avverbio lo lascio. Mi è capitato solo una volta di leggere un’opera prima altrettanto affascinante, e quel libro era Pugni di Pietro Grossi. Anzi, non era nemmeno ancora un libro, era un dattiloscritto in cerca di editore, fattomi leggere da un’amica. Sono stato contento quando Pietro, non per merito mio, ha trovato un editore.
Sono ancora più contento che l’abbia trovato Edoardo Zambelli, e che L’antagonista sia uscito dal cassetto (o dovunque lo tenesse) per arrivare ai lettori. E’ un libro potente, un libro che emana una strana energia, una specie di luce nera che illumina i nostri giorni purgatoriali.

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