di Giulio Mozzi
Una buona storia è fatta di questo: di un prima e di un dopo. Di un dopo necessitato dal prima, ma anche di un prima necessitato dal dopo. Tanti anni fa, in un bar dalle parti di Macchine – uno degli edifici della facoltà di Ingegneria della mia città, Padova – ebbe luogo una furibonda discussione a causa della morte, avvenuta in circostanze assai improbabili, di una persona a tutti nota – nota a tutto quel pubblico di pensionati impegnatissimi, alle dieci del mattino, nella compulsazione dei giornali e nella verifica di qualità del bianco della casa. Le due fazioni così si dividevano: quella morte, è stata fatalità, o destino? Fatalità (la discussione si svolgeva in dialetto, naturalmente) è il caso; destino è ciò che “sta scritto”. Dopo aver lungamente e duramente discusso, unanimemente i due schieramenti pervennero alla decisione di ordinare dell’altro bianco, e di passare a un altro punto dell’ordine del giorno. Così mi venne riferito: non so se ci fu, nei giorni successivi, un secondo round.
Un sacerdote al quale volli molto bene – è morto una decina d’anni fa – per molti anni frequentò in ospedale un reparto di malati terminali. Erano, all’epoca, soprattutto persone abbastanza giovani, in preda all’Hiv. Una sera, mentre nella sua 126 rossa andavamo da non so dove a non so dove, mi disse: “Andando lì ho capito una cosa. La vita umana non ha senso”. Il che, detto da un sacerdote, potrebbe sembrare a prima vista blasfemo; in realtà è ortodossissimo. Se la vita umana come la conosciamo, se questa vita qui, sulla terra, avesse qualche chance di avere senso, a che cosa servirebbe l’immaginazione di un’altra vita, in un indescrivibile altrove? Dove non ci sarà né morte, né lutto, né dolore e, asciugata ogni lacrima, i nosri occhi contempleranno l’origine e la fine di tutto.
Il romanzo, dico il romanzo così com’è andato assestandosi nelle sue forme e dei suoi modelli dal 25 aprile del 1719 in poi, è in fin dei conti un tentativo di fare a meno del mondo che verrà. Le vite dei personaggi trovano il loro senso, quasi immancabilmente, nello spazio compreso tra la prima e l’ultima parola della narrazione. Dico quasi: perché l’illuministico sforzo, in realtà, non riesce proprio a tappare tutti i buchi. Perfino nei Promessi sposi, scolasticamente spacciato senza esitazioni come “il romanzo della Provvidenza”, nell’ultimissima pagina, nelle ultimissime righe, Renzo e Lucia giungono alla conclusione che “i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani”; o, come si direbbe oggi, “la sfiga non ha regole precise”; e tale conclusione, “benché trovata da povera gente”, pare al narratore “così giusta” da piazzarla lì, alla fine, come “il sugo di tutta la storia” (ed è chiaro che l’ulteriore considerazione, ossia che “i guai, quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”, è biecamente consolatoria).
Peraltro nel corso dell’Ottocento i romanzieri, quasi in massa, caddero in preda a illusioni positivistiche: vedi ad esempio il grande affresco sociale di Balzac o le teorie pseudodarwiniane di Zola (che a Darwin, tra parentesi, avrebbero potuto solo fare ribrezzo). Ma una teoria pseudoscientifica (e vale la pena di ricordare che il positivismo, con tutta la sua idolatrazione della scienza, fu un movimento di pensiero nei fatti antiscientifico) o l’ambizione di un “affresco sociale” (il “marxismo senza Marx”, cioè senza filosofia, di Balzac) non riescono, non ce la fanno, a prendere il posto di un’immaginazione religioso-cosmologica del mondo.
I grandi romanzi modernisti, o acquisiti nel modernismo (è il caso del Moby-Dick di Melville), sono poi o romanzi sostanzialmente mitologici (es. Ulisse di Joyce, Giuseppe e i suoi fratelli di Mann) o romanzi in qualche modo mistici (Doktor Faustus ancora di Mann, L’uomo senza qualità di Musil, I sonnambuli e La morte di Virgilio di Hermann Broch). Poi, certo, c’è Proust: che è Proust, e non mi pronuncio.
In mezzo tra questi e quelli ci stanno, giganteschi, Dostoevskij e Tolstoj: due romanzieri intensissimamente religiosi. L’ultima pagina del romanzo più bello di sempre, I fratelli Karamazov, ovvero l’ultima pagina di Dostoevskij, mette in scena uno sperdutissimo Alëša Karamazov che – al pari dei fratelli Ivan e Dimitri -, nonostante la sua profonda fede non riesce a trovare un senso alla propria vicenda, alla vicenda familiare – quindi a nulla. E Tolstoj scrive un intero romanzo, e pure bello lungo, Guerra e pace, per dimostrare che il lavoro degli storiografi è insensato, perché la vita umana è governata dal caso: peraltro le pagine in cui ci si impegna di più (quelle su Napoleone, l’epilogo “filosofico”) sono di una bruttezza indicibile, mentre laddove rimane un “senso magico”, per non dire “religioso” della vita la bellezza esplode impareggiabilmente: il ballo di Nataša, le nuvole in viaggio osservate dal principe Andrej ferito e a terra…
E’ una lotta, una lotta. Come tra le due fazioni al bar: sempre presi tra un’idea di destino – qualcosa su di noi, su tutti noi e su ciascuno di noi, “sta scritto” da qualche parte – e un’idea di fatalità – nulla ha senso, il caso domina. Questo fa, chi racconta storie: entra in questa lotta.
E questo, vi piaccia o no, è un post pasquale.
Una buona storia è fatta di questo: di un prima e di un dopo. Di un dopo necessitato dal prima, ma anche di un prima necessitato dal dopo.
(Fonti non esplicitate: storia del bar, mio fratello Pietro. Sacerdote: don Franco Geronazzo (https://tinyurl.com/vy6h65s). “Apocalisse”, 21: 3, 4 + preghiera eucaristica III. Data di pubblicazione del “Robinson Crusoe”: Wikipedia. Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” (https://tinyurl.com/sj9xek4). Emile Zola, “Il romanzo sperimentale”, Pratiche 1992. Karl Marx e Friedrich Engels, “Scritti sull’arte”, Laterza 1976. Aki Kaurismaki, “Nuvole in viaggio”. Andrea Mantegna, “Cristo morto”; Piero della Francesca, “Resurrezione”).
14 aprile 2020 alle 22:13
Leggerti è sempre un piacere. Io ti leggo anche per migliorare la mia scrittura. Un caro saluto
15 aprile 2020 alle 12:40
In questi anni ho maturato la convinzione che non è l’etica che conta ma l’estetica.
L’atto di soluzione della continuità, il verbo, crea i contenuti. La catena dei significati va disposta in bella forma. Lo scopo è costruire un’immagine perfetta dell’indistinto. Una copia cosciente del tutto. Due strategie: la consapevole afasia che spinge all’abbandono (virtù praticata dai santi e da pochi artisti veramente), o questo nostro romanzo diffuso che la fenomenologia e la teologia ci consente; una sfida condotta sapendo di perdere. Io che sono loico, e poco predisposto all’abbandono, cerco nella finzione il conforto della forma. Tentado di redimere la colpa che questa condizione prevede.
15 aprile 2020 alle 17:39
grazie
9 Maggio 2020 alle 06:55
A mio avviso, uno degli esempi italiani più belli di questa lotta è Effetto Domino di Bugaro. Un libro che ho letto e riletto più e meglio che ho potuto. Personalmente propendo per la fatalità.
12 giugno 2020 alle 00:51
Ore indugiavo o con sguardo fugace
nei bei discorsi di questo convito,
ma come ospite entrato senza invito
stavo in disparte, ben poco loquace.
Adesso nelle stanze tutto tace.
Col padrone di casa in altro sito,
sembra il ragionare sia finito
e ciò -lo devo ammettere- dispiace.
Noterà qualcuno il mio commento?
Forse sarà solo foglia che vola
e cade nel silenzio dell’inverno.
Di quel che qui ho trovato m’accontento:
ancora mi istruisce, ispira, consola
e guida a intraveder pezzi d’Eterno.