Posts Tagged ‘Valter Binaghi’

“Anatomia di un profeta”, di Demetrio Paolin

5 aprile 2020

di Giulio Mozzi

Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin (Voland 2020) è un libro di cattivo gusto.

L’autore pretende che non sia un romanzo (“Ecco perché questo libro non è un romanzo”, p. 236) e pretende che sia un romanzo (“E quindi non è neppure così strano che questo libro sia effettivamente un romanzo”: stessa pagina!): mi toglierò il problema chiamandolo “libro”, e basta.

Il 19 dicembre del 2017 pubblica in Facebook un post piccolo piccolo, di poche righe ma con un titolo: “PUBBLICA CONFESSIONE DELL’INSEGNANTE DI SCRITTURA. – E’ un mio allievo: tutto quello che sa, l’ha imparato da me. Però l’ha capito meglio, l’ha studiato di più, e lo fa come io non sarei mai capace” (vedi). Demetrio fu il primo a commentare, stolidamente: “È il desiderio che dovrebbe guidare l’insegnamento, che l’allievo sia migliore più capace del maestro”. Non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che io, scrivendo quelle poche righe, avessi in mente lui. All’epoca avevo già letto una prima parziale stesura dell’Anatomia (che non si chiamava ancora così).

In realtà Demetrio non è mai stato mio allievo. Ci siamo conosciuti parecchi anni fa, sì, a mia memoria (ma non mi fido, per principio, della mia memoria) nel 2002, al tempo in cui io curavo per l’editore Sironi la collana Indicativo Presente: Demetrio mi aveva mandato dei raccconti, a me era sembrato che ci fosse dentro “qualcosa”, avevamo concordato di vederci. Passammo insieme forse un paio d’ore, io cercai di dirgli che cosa era quel “qualcosa” che avevo visto, e lo feci nell’unico modo che sapevo e che so: indicandogli alcune pagine nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” ci fosse, e scartandone altre – molte di più – nelle quali mi pareva che quel “qualcosa” non ci fosse. Facemmo anche tante chiacchiere, un po’ imbarazzate come può capitare in un primo incontro, e in mezzo a queste chiacchiere Demetrio mi raccontò quanto segue.

Che qualche anno prima lavorava come cronista di nera, più o meno, per un settimanale piemontese. Che un giorno il suo capo lo aveva convocato, gli aveva buttato là un libro, e gli aveva detto: “Il senatore Ernesto Rossi [eletto in Alessandria] ha fatto un’interrogazione parlamentare per questo libro, ha minacciato una denuncia, sostiene che sia un libro che incita alla pedofilia. Visto che tu sei uno che legge, facci un pezzo”. Che il libro era il mio Il male naturale (quindi era il 1998), pubblicato da Mondadori. Che se lo lesse, e ne rimase folgorato.

(Poi, negli anni, Demetrio ha fatto tante cose, tante ne ho fatte anch’io, alcune ne abbiamo fatte insieme).

Tredici anni dopo, quando Il male naturale fu ripubblicato presso l’editore Laurana, chiesi a Demetrio di scrivere un breve saggio che facesse da posfazione. Demetrio acconsentì e scrisse, e tra le altre cose scrisse: questo libro è “il tentativo di mettere in chiaro il male, ma nello stesso tempo tale nitore è sadico perché infligge al lettore un dolore acuto pagina per pagina come a dire che il male può essere detto, ma l’unica esperienza di male che possiamo fare è quella del dolore fisico. Ovvero io sento il male perché ho un corpo”.

Anatomia di un profeta è il tentativo di non mettere in chiaro il male. Di prenderlo così com’è, oscuro e inspiegabile. Per questo, rispetto a quello che scrissi io, è un libro molto più forte e coraggioso.

Era da un pezzo – perché da un pezzo so di questo libro, ne ho lette due versioni e mezza, e mi sono sempre ben guardato dal dire a Demetrio che cosa me ne paresse: non volevo entrarci – che dicevo a me stesso, e dicevo a certe persone amiche, e credo di aver detto anche all’interessato: “Bisognerà che con Demetrio ci faccia i conti, prima o poi”.

Anatomia di un profeta tenta caparbiamente, pagina dopo pagina, di prendere la forma di romanzo; e continuamente fallisce. Fallisce con un certo compiacimento, direi, e anche con un certo fasto: tutta una serie di trucchi grafici e di impaginazione, palesemente mutuati un po’ dal Tristram Shandy di Laurence Sterne e un po’ dall’Anatomy of melancholy di Robert Burton sono la testimonianza del tremento sforzo sostenuto da Demetrio per dare l’illusione – è complicato da dire, ci provo – che ci sia una “forma”, di tipo “informale”, in un testo che invece è semplicemente “informe”. Un travestimento, insomma.

Ufficialmente Anatomia di un profeta è un tentativo di Demetrio (del Demetrio reale, che ha scritto il libro, attraverso il Demetrio finzionale, che vi compare dentro) di fare i conti con la morte per suicidio di un bambino, Patrick (del bambino reale, che il Demetrio reale conobbe, e del bambino immaginario, che il Demetrio finzionale instancabilmente produce e sonda); e di fare i conti con Dio. Il tramite di questa contabilità è Geremia, il profeta involontario, il profeta inascoltato, il profeta di sventura, il profeta lapidato.

Non è, Anatomia di un profeta, un romanzo spritiuale. Tutt’altro. E’ un romanzo carnale. E’ un romanzo dal quale ogni trascendenza sembra bandita. La stessa speranza della “resurrezione dei corpi” e del “mondo che verrà” (p. 138 sgg) è da un lato presentata come speranza disperata, e dall’altro rappresentata così materialisticamente da non sembrare nemmeno una speranza di un “al di là”: “io mi figuro questo tornare in vita come quando ci si sveglia dopo un sogno angoscioso: il cuore in gola, il respiro affannato, un dolore vasto lungo le membra” (p. 139). Per i Demetrio, tutti e due, una cosa è certa: che ciò che c’è è il corpo, e che non c’è nulla della persona oltre il corpo.

In fondo, nelle sue duecentocinquanta pagine Anatomia di un profeta non fa che ripetere una e una sola cosa. “Lui che si è fatto morte diventerà vita, perché Dio gli è entrato dentro” (p. 65): e potete scegliere chi sia questo “lui”, se sia il Messia o il bambino Patrick o il profeta Geremia o – per immaginazione – il Demetrio finzionale o – per desiderio – il Demetrio reale. Potete scegliere tanto fa lo stesso. La vita è morte, la morte è vita, la perdizione è salvezza, la bestemmia è lode, il Dio è il male, il dolore è il bene, la fine è…

No. In realtà non c’è scritto, che la fine è l’inizio. La fine è la fine, e poi eventualmente c’è quello svegliarsi confuso dopo un sogno angoscioso.

E tanto è il cattivo gusto che abita in questo libro, che spesso non si capisce se ci si trova davanti a un tentativo di dire l’indicibile (letteratura mistica, o giù di lì), o a una rinuncia a dirlo (idem), o a un tremendo gioco di parole, o a un vanitoso “concetto” barocco – come qui: “Ecco la salvezza del mondo: le ossa di Patrick nella terra diventeranno presto alberi e fiori. Saranno il nutrimento delle radici e lui, che ha bevuto il diserbante, diventerà nutrimento per le piante”.

Davanti a tanta sfacciataggine o spudoratezza, davanti a tanto esibizionismo, davanti a tanta mancanza di gusto, davanti a un tale orrore io – che provai, come scrisse Demetrio, a suo tempo, a “mettere in chiaro il male”, mi ritiro in un angolo. Demetrio ha superato questo bisogno – illuministico, in fondo – e ha accettato l’oscurità del male, l’incomprensibilità di Dio, l’inenarrabilità della salvezza, l’indescrivibilità del miscuglio. E infatti mentre io, qua e là, nei miei racconti, e anche nel libricino 10 buoni motivi per essere cattolici che compilai con Valter Binaghi in quello stesso 2011 in cui si ripubblicava Il male naturale, mi sono confrontato con l’immaginario biblico – riducendo così la Bibbia a una cosmologia mutevole ma in fin dei conti ordinata -, con molta più forza Demetrio si è confrontato con il testo biblico: incorporandolo, riscrivendolo, subendone l’incoerenza e la magmaticità, prendendolo per quello che è.

Forse è vero che ho insegnato qualcosa a Demetrio. Certamente è vero che lui, oggi, è molto più in là. In queste settimane (non ditelo a nessuno, per carità) sono tornato alacremente a lavorare su quello scartafaccio – le cui carte più vecchie risalgono al 1998 – che sarebbe il mio famoso romanzo; e, come faccio spesso, pur essendo lo scartafaccio ancora un cantiere aperto ho provveduto già a dotarlo di una “Notizia” finale: che rende brevemente conto del lungo lavoro, delle successive redazioni, e così via. In questa “Notizia” ho scritto anche:

“Mi fa compagnia, e mi istruisce, in questi giorni, il romanzo di Demetrio Paolin Anatomia di un profeta. Demetrio ha detto, ha scritto spesso che fu un mio libro del 1998, Il male naturale, a mostrargli che di certe cose si poteva parlare, e in quali modi si poteva parlarne; Anatomia di un profeta mi ricorda, spero definitivamente, che l’importante non è la letteratura, l’importante è la vita – e il coraggio.

Dunque: m’inchino, e sono grato.

(E un applauso a Daniela Di Sora, la signora Voland, l’editrice: che ci vuol fegato, a pubblicare un libro così).

Questo è ciò che ho saputo scrivere: non una recensione, ma un fatto privato tra me e Demetrio. Se vi interessa una recensione vera e fatta bene, leggete quella che – per conto del gatto Luigi – ha scritto Sandro Campani: è in Facebook, qui.

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Note di lettura: “Il postino di Mozzi” di Fernando Guglielmo Castanar.

9 Maggio 2019

di Luigi Preziosi

A queste Note di lettura non può proprio mancare Il postino di Mozzi (Arkadia editore), che con tutta evidenza fin dal titolo lascia intuire un coinvolgimento del fondatore di questo sito. E’ opera di Fernando Guglielmo Castanar, autore appartato a quanto si sa, e che, a voler attribuire al racconto una coloritura di autofiction, realizza il suo progetto letterario solo dopo una lunga e tormentata attesa della pubblicazione. Il libro sfugge ad una definizione precisa, pur essendo a prima lettura evidente la sua natura di raccolta di racconti: come tale se ne può anzitutto parlare, senza dimenticare però altre sfaccettature che lo rendono un’opera più complessa di quanto appare.

In questa prospettiva, il libro risponde, con felice tempestività, a quella tendenza a rivalutare il genere che ultimamente sembra farsi strada con una certa insistenza. Una recente indagine tra alcuni critici promossa da L’indiscreto ha sancito l’insorgere di una sorta di nostalgia del racconto, pur nel predominio straripante del romanzo (per lo meno sotto il profilo della sua fruizione di massa, e del conseguente successo editoriale). Ad essa si affianca una specie di incredulo stupore circa la contraddizione tra l’attitudine contemporanea al consumo veloce delle emozioni e la posizione marginale del racconto rispetto ad altre forme del narrare. Comunque sia, il racconto non pare oggi comunque in cattiva salute, e lo dimostra la vivacità di alcune iniziative (siti e case editrici specializzate) e certe recenti uscite meritevoli di ben più di una citazione. In prima fila, questo Postino di Mozzi, raccolta notevole anche ad una prima superficiale lettura per la straordinaria invenzione narrativa che la sostiene.

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Due o tre cose che so (o che credo di sapere) sul conto di Tullio Avoledo

7 settembre 2016

di giuliomozzi

Tullio Avoledo

Tullio Avoledo

Spesso, quando parlo di Tullio Avoledo, mi sento dire: ah, sì, quello dell’Elenco telefonico di Atlantide. In effetti quel romanzo, apparso nel 2003 presso l’editore milanese Sironi – per il quale all’epoca lavoravo – fu un esordio memorabile. Dopo il la dato da Antonio D’Orrico, che si era appena divertito a lanciare Giorgio Faletti come “il più grande scrittore italiano” e che aveva reagito positivamente a una mia provocazione (più o meno: a far diventare famoso uno già famoso sono buoni tutti, prova con questo qui che non lo conosce nessuno ed è pubblicato da una casa editrice che esiste da sei mesi), ne parlarono praticamente tutti (nel bene e nel male, ovviamente). Tanto che le vendite effettive dell’edizione Sironi (circa diciassettemila copie, circa un mese di permanenza tra il secondo e il quinto posto in classifica nelle vendite di romanzi italiani) venivano ampiamente sovrastimate anche dagli stessi operatori del settore.

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Riflessione gigantesca su un testo futile (ovvero: le “regole interne” del testo e la “volontà di dire” dell’autore)

21 luglio 2016
Julia Margaret Cameron, Annunciazione, stampa in albumina, 1868, Royal Photographic Society, Bath

Julia Margaret Cameron, Annunciazione, stampa in albumina, 1868, Royal Photographic Society, Bath

di giuliomozzi

Questo articolo è stato suggerito da uno scambio di battute con l’autrice di una delle Lettere delle eroine in corso di pubblicazione qui in vibrisse. Riflettevamo sul fatto che, a volte, produciamo dei testi nei quali, più che la volontà di dire una determinata cosa, sembrano dominare le regole interne al testo. Col risultato che si finisce (o si rischia di finire) col “dire” qualcosa in cui stentiamo a riconoscerci, e di cui stentiamo a prenderci la responsabilità.

A me la cosa sembra (intuitivamente) molto chiara; e non me ne faccio un problema. Se non altro perché nella quasi totalità dei casi, almeno nella mia pratica, le eventuali “regole interne al testo” sono di mia invenzione (o sono regole inventate da altri alle quali ho dato libera adesione: il che è lo stesso). Qualunque cosa il testo finisca col dire, è il risultato di una mia azione. Che la mia autoconsaspevolezza sia talvolta difettiva, non mi pare faccia grande differenza (che io sia o non sia consapevole di star mangiando una mela, una volta che l’avrò mangiata la mela sarà stata mangiata, e da me). Il testo è là, è un significante dotato di una sua autonomia, ma non farò mai finta di non essere stato io a comporlo (e, tendenzialmente, darei credito più al testo composto che a una mia improvvisata testimonianza o labile autocoscienza).

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Dieci cose che Giulio Mozzi intende fare nel corso del 2015

29 dicembre 2014

adynaton

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La formazione dello scrittore, 3 / Tullio Avoledo

5 giugno 2014

Nascita di uno scrittore (a partire dal naso)

di Tullio Avoledo

[Questo è il terzo articolo della serie La formazione dello scrittore (parallela a quella La formazione della scrittrice), che appare in vibrisse il giovedì. Ringrazio Tullio per la disponibilità. gm]

tullio_avoledoPenso di essere diventato scrittore a causa del mio naso.
Credo sia cominciato tutto con l’enciclopedia Conoscere.
Era un’enciclopedia per ragazzi degli anni ’60. La compravi a fascicoli, in edicola, e quando avevi completato la raccolta dei fascicoli di un volume li facevi rilegare. L’odore di colla del volume appena rilegato (da un cugino di mio padre che lo faceva di mestiere) era semplicemente fantastico.
A casa mia arrivarono solo tre volumi, di quell’enciclopedia: l’XI, il XII e il XIII. Non so perché. Forse la cosa fu dovuta al fatto che nel 1966 uscì la terza edizione del Grande dizionario enciclopedico UTET, che rese immediatamente obsoleta Conoscere.
Ma la mia prima formazione alla lettura avvenne sui tre volumi di quell’enciclopedia, che aveva un odore buonissimo e la caratteristica di non essere organizzata per argomenti, o secondo criteri logici: due pagine sui Sumeri potevano seguirne due sul sistema solare, e precederne altre due su Leone Tolstoj.
Il Dizionario enciclopedico UTET piombò su quel mondo caotico e colorato con l’impatto devastante di un meteorite. Sulle rovine fumanti di una giungla d’informazioni e illustrazioni si levò un monolito che aveva sul dorso la scritta A-APO.
Ricordo ancora, a distanza di quasi cinquant’anni, la sequenza degli indici di quei volumi: A-APO, APP-BEQ, BER-CAQ, CAR-CLE, CLI-DAN… Nomi simili a quelli di divinità oscure, a un cupo rituale di evocazione lovecraftiano.
La UTET stava a Conoscere come i tripodi marziani di George H. Wells stavano alle brigate di cavalleria dei Terrestri. Era l’iPod contro il mangianastri, l’iPhone contro un telefono a disco combinatore.
Eppure…

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Alessandra Sarchi, “L’amore normale”

7 Maggio 2014

di Magda Guia Cervesato

[Ecco la prima recensione – spero non resterà l’unica – inviatami per il gioco che ho proposto qui. Magda ha letto il romanzo in edizione digitale. gm]

Istruzioni per ricevere in regalo una copia del romanzo "L'amore normale" di Alessandra Sarchi

Ricevi in regalo una copia di questo romanzo

“Era una domanda vera solo a metà” (p. 136).

Questa la frase simbolo del libro, espressa in forma di pensiero che attraversa la mente di uno dei protagonisti del quadrangolo amoroso messo in scena dall’autrice. Nello specifico Davide, marito di Laura innamoratosi di Mia nelle segrete di una biblioteca pubblica in un tardo pomeriggio di pioggia. Mia: l’unica libera sentimentalmente nonostante fluenti chiome di giovinetta, precoce abbastanza da domandare all’amante adulto una cosa qualsiasi di cui “…l’altra metà era un tentativo di mascheramento, legittimo e brutale…”.

Due ordini di persone necessitano leggere il nuovo romanzo di Alessandra Sarchi: chi di esperienza in faccende amorose ne ha poca per ragioni anagrafiche, e chi di esperienza in faccende amorose ne ha tanta e tutta intrisa di ragioni del cuore invece che di ragione e basta. Sì perché per queste faccende ancor più che per altre “si tratta di guardare a fondo o di restituire facili stereotipi: questo è il punto discriminante di ogni opera letteraria”, sosteneva l’amico Valter Binaghi, uno che a fondo ci ha guardato fino in fondo. E questo romanzo serve meravigliosamente il mandato, guardandosi bene dall’inchiodare la complessità dei sentimenti al trito dualismo “amore romantico” – in cui non si capisce mai “come” vivranno felici e contenti oltre la siepe della luna di miele – versus “amore di lungo corso” – in cui non si capisce mai “come” sopravvissero felici e contenti dentro la siepe del fiele: sì, perché la storia attovaglia alle estremità di un lungo tavolo in legno vivissimo due istanze principi di ogni relazione: menzogna e verità. E l’autrice apparecchia il suo banchetto accogliendo ai lati della tavolata infiniti intrugli dei due ingredienti base, pietanze-girandola inseparabili da una realtà sfumata con un signor rosso d’annata.

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Descrizione a posteriori di intenzioni che a priori non è detto che ci fossero davvero, corroborate da impressioni di lettura per le quali ringrazio gli amici

19 dicembre 2013
13 dicembre 2013, ore 19.30

13 dicembre 2013, ore 19.30

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Per Valter Binaghi

14 luglio 2013

di Franz Krauspenhaar

Valter Binaghi, il mio amico Valterone, non c’è più. Una delle pochissime persone dell’ambiente letterario a cui voglio bene. Un uomo vero. Se mi chiedete cosa vuol dire per me ‟uomo vero” non saprei rispondere con esattezza. Forse è un modo di essere, di sentire, di esserci anche quando non si è – e come adesso non si è più – che è delle persone che danno, che accolgono, che vogliono il bene degli altri, non solo il loro. Valterone è stato un autore vero, un insegnante amato dai suoi alunni, un amico raro. Sapevo da tempo che era malato, lo avevo sentito al telefono non molti giorni fa, avevamo riso come ai vecchi bei tempi, quando ci si trovava magari al Bar Magenta con altri scrittori, con l’amico Marino Magliani, per esempio, o con Riccardo Ferrazzi, Gianni Biondillo e altri ancora, a parlare di mille cose, a imparare l’uno dall’altro. Adesso sono molto più solo, prigioniero della mia seconda strada, gli abbracci con Valterone sono finiti. Era come essere usciti da una maledetta guerra: lui da quella della droga: era stato uno dei tanti ragazzi intelligenti e di estrema sinistra che aveva trovato la continuazione della lotta, deflagrata in un potente nulla, nell’eroina. Io, di qualche anno più giovane, ed ex simpatizzante del MSI, ero finito straperso nei miei incubi da sveglio, nelle mie paranoie, nei miei dolori insanabili. E ci eravamo incontrati quando tutto era finito da gran tempo, in un dopoguerra del cuore e della mente, quando il mondo era dirottato verso una disperazione mascherata con mille facce dello stesso prisma allucinante.

Continua a leggere l’articolo in Torno giovedì.

Per Valter Binaghi

14 luglio 2013

di Saverio Simonelli

Era un uomo sempre oltre. Oltre il suo tempo, le cose, le voci, i progetti. Bisognava sempre sforzarsi di inseguirlo, di stargli dietro. Oggi ci è sfuggito per l’ultima volta, stroncato da un male con il quale aveva combattuto con forza, con quel misto di fierezza e ironia che erano anche il segreto della sua personalità inimitabile e della sua scrittura. Valter lo avevo conosciuto qualche anno fa. Dopo avrelo letto per mesi sul web provai a chiedergli un ‘intervista in occasione dell’uscita di un suo romanzo, I custodi del talismano. Mi sorprese e mi chiamò lui al telefono dicendo che era un onore essere intervistato dalla mia tv.
Di lì nacque, ultima tra le ultime per lui l’amicizia, che è stata lunghe chiacchierate al telefono, scambio di pareri editoriali, qualche raro pranzo consumato insieme in una trasferta di lavoro. Sempre per me un chiedere e stupirmi di trovare accesso alla sua anima grande, ricca, sfaccettata, un’anima arcobaleno dove potevi trovarci tutto: la sua storia, l’impegno politico giovanile nell’estrema sinistra, il tunnel dell’eroina, poi la conversione, una fede maturata nel dolore personale, nella prova più acuta e quindi splendente e rigorosa, debordante, appunto come era lui.

Continua a leggere nel blog di Saverio Simonelli.

Per Valter Binaghi

14 luglio 2013

di Riccardo De Benedetti

C’è un significato davvero condivisibile alla frase «vedersi morire»? La forma riflessiva fa problema, è il problema. Solo gli altri ci possono vedere, se ci pensiamo. Per quanti specchi possiamo circondarci, mentre viviamo, e il nostro mondo è un mondo di specchi deformanti, nessuno mai ci consentirà di vederci; rinvierà solo l’immagine di quel noi di cui possiamo innamorarci, ma di cui mai potremmo osservare le vere movenze allo stesso modo di come osserviamo quelle degli altri.
Noi sì che soli ti abbiamo visto morire. Tu hai continuato a vivere fino alla fine.
La Priora, in un passo dei «Dialoghi delle carmelitane» di Bernanos, si spaventa quando non si vede più morire. «Dio stesso è diventato un’ombra… Ahimé! Ho più di trent’anni di professione, dodici di superiorato. Ho meditato sulla morte in ogni ora della mia vita, e questo ora non mi serve a nulla!…».
Esponendoti fino alla fine ci hai obbligato non alla semplice meditazione sulla morte che ora non serve a nulla (fino alla prossima) ma a qualcosa di più grande, di più impegnativo, forse anche di contraddittorio.

Continua a leggere l’articolo in Cronache di Pastrufazio.

Per Valter Binaghi

14 luglio 2013

di Paolo Pegoraro

[da Bombacarta, vedi].

«Svaniscono idoli e speranze, e i molti nomi di Dio, e muore sulle labbra ogni invocazione o bestemmia: la stessa luce del giorno trascolora nell’argento, nel rame, nel ferro, fino al piombo di una tenebra sconfinata.
Eppure la notte non è completa: io vivo, io vedo ancora.
Là in fondo, quale fioco barlume impedisce al nulla di proclamare l’ultima verità?
Qualcosa persiste e si muove lontano nel buio e io, che non ho più nome né figura ma solo l’inerzia dell’antico volere, continuo a seguire, come vele nel vento, le mani bianche della mia bambina»

(Valter Binaghi, I custodi del Talismano)

Parlare di un amico che si saluta non è facile. Domani [oggi 14 luglio, ndr] sarebbe stato il suo compleanno, è dovuto partire prima. Valter era una persona conquistata dalla verità. E dall’amore. Uno scrittore allegorico, che ha attraversato tanti generi per parlare sempre di ciò che lo appassionava. Un filosofo nel senso autentico della parola, un amico della sapienza. Non l’ha mai abbandonata: compromessi mai, giudizi ambigui mai, allisciate al potente di turno mai. E per questo ha sempre pagato. I suoi amori: Bernard Lonergan, Gaston Bachelard, Pavel Florenskij. Autori che hanno affrontato globalmente il mistero della realtà, pensatori forti, incontri dai quali non si esce uguali. Anche Valter era così. Ribollente. Per quattro anni abbiamo dialogato a distanza a partire dai suoi libri, romanzi che potevano essere anche formalmente imperfetti, ma in cui rullava sempre la sua anima, potente come un tamburo tribale. Siamo riusciti a incontrarci dopo anni di discussioni al telefono e via mail, è stato come abbracciare l’amico d’infanzia andato a vivere all’altro capo del pianeta.

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Per Valter Binaghi

14 luglio 2013

di Marco Rovelli

[Dal blog di Rovelli in Micromega, vedi].

Valter Binaghi se ne è andato guardando in alto, verso il cielo. “Lo spirito si libera”, mi ha scritto nella mail che ho ricevuto da lui un paio di settimane fa. Non ha nascosto la morte che veniva, ma l’ha guardata in faccia. E ha voluto consegnare ad alcuni suoi contatti quella che lui stesso ha definito “un’eredità”: uno scritto assai articolato (Valter insegnava filosofia) cui ha lavorato negli ultimi mesi della sua vita sulla “conoscenza simbolica”, ovvero sul valore di conoscenza di simboli, metafore e analogie, “laddove i concetti risultano indisponibili o inadeguati”. Ed era così che Valter praticava la letteratura: “come costruzione di simboli, forme articolate in cui si allude come si può all’indefinibilità del mondo”. Valter ha scritto nove romanzi, da L’ultimo gioco del ‘99 a Melissa, la donna che cambió la storia, dello scorso anno. Il romanzo del ‘99 veniva dopo venti anni di silenzio: Binaghi infatti negli anni settanta era stato attivo nella “controcultura” dell’epoca, redattore di Re Nudo, pubblicando per Arcana libri su Pink Floyd, Lou Reed e il punk. Dopo aver traversato – anche e soprattutto esistenzialmente – i territori estremi, territori dell’eccesso, se ne era distaccato radicalmente, con una vera e propria metanoia, una rivoluzione interiore che culminó in una conversione al cattolicesimo, in cui trovó la sua “prima radice”.

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Per Valter

12 luglio 2013

di giuliomozzi

Mi è arrivata poco fa la notizia della morte di Valter Binaghi. Il funerale sarà domani mattina, sabato 13 luglio, alle 10.30, nella chiesa principale di Busto Garolfo (Mi).
Non ho molto da dire. Valter mi ha insegnato molto. Mi ha voluto bene e io ho cercato di volergliene.
In paradisum deducant te Angeli; in tuo adventu suscipiant te martyres, et perducant te in civitatem sanctam Ierusalem. Chorus angelorum te suscipiat, et cum Lazaro quondam paupere æternam habeas requiem.
Tutti noi siamo pauperes in terra.

Tre pezzi difficili, 1 (esortazioni)

5 luglio 2013

Valter Binaghi, Lettera all’amico miscredente

morimondo5La prima volta che ti ho incontrato eri uno scolaro sporco e malvestito, l’abominio della maestra di terza elementare, quello che graffiava le pagine col pennino spuntato e regolarmente prendeva due in calligrafia. Te ne fottevi del bello scrivere, e succhiavi castagne secche fregate al cartolaio: mentre col mio sussiego di bravo figlio d’impiegati ti mettevo in guardia dalle spaventose reprimende della zitella, allargavi il tuo sorriso sgangherato:
– Dagli una spanna di cazzo e vedrai come si calma –
E così grazie, amico, per avere una prima volta sgomberato l’altare dall’idolo.
Nessun Dio nel candore pastorizzato della pagina di scuola, ma solo addestramento all’obbedienza, e il castigo dei sensi che mimava la virtù.

Ti ho incontrato più tardi, all’angolo della strada, mentre allungavi circospetto una banconota al ragazzino, a venti passi dalla farmacia: – Alcol a 95 gradi. Capito? Di che è per tua mamma, per fare il nocino – A te, nessuno nel paese serviva più nemmeno un bicchierino: eri il barbiere rovinato dal delirium che ha fatto uno sbrego alla guancia paffuta dell’assessore, ubriacone con un piede nella fossa, strafelice di esplodere nell’alto dei cieli come un’inutile cometa, obbrobrio del borghese che amministra i suoi giorni.
E così grazie ancora, per avermi insegnato che siamo figli del lusso e dello spreco: nessun Dio nella partita doppia, nell’economia pelosa dei buoni propositi, nel programma fariseo che affetta il paradiso giorno per giorno senza lacrime e senza gioia: solo uno sbirro cosmico a guardia di quei loro sudati risparmi.
E di nuovo sei venuto sulla mia strada, a scardinare le premesse di un’educazione scientifica mentre imparavo i segreti del motore e dell’accelerazione che ha nome Progresso: eri un bidello che masticava bestemmie, smerciavi panini al salame sottocosto agli studenti alla faccia dell’azienda incaricata dal Consiglio d’Istituto, e ogni giorno deridevi i miei sforzi: – Bella cosa la macchina, e il concerto dei pistoni, e le ruote come mandibole affamate di strada, ma chi guida? – dicevi – chi è che schiaccia il pedale, e decide dove si deve andare? Questa, caro mio, è la scienza che qui ti si nasconde! –
E di nuovo grazie, per avere infranto con una sassata lo specchio mentitore: nessun Dio nell’algido silenzio dei laboratori, nè davanti alle lenti del cannocchiale di Galileo, solo volontà di dominio, e lavori forzati per la natura stuprata.

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Creazioni, 1

31 Maggio 2013

Valter Binaghi, Il mito Kanaji della creazione (1)

la-lunaAl principio il Creatore non sapeva affatto di essere un Creatore.
Non faceva che dormire dalla mattina alla sera, e mentre dormiva dal suo respiro usciva ogni sorta di cose alla rinfusa.
Oceani sconfinati, al fondo dei quali ribolliva un fuoco liquido, pesci enormi e guizzanti che appena nati erano già bolliti.
Montagne aguzze come zanne e uccelli talmente grossi e stupidi che passandovi sopra si ferivano.
Sulla terra, poi, si muovevano creature di ogni forma e dimensione, che si mangiavano l’un l’altra senza avere il tempo di riprodursi, così nello spazio di una notte tutto tornava deserto e silenzioso, e all’alba di nuovo veniva ripopolato dal pesante respiro del Dormiente. Anche gli alberi incommestibili, erano così privi di misura da schizzare troppo in fretta verso il cielo dove il sole ne bruciava le cime, oppure divenivano talmente alti da oscillare spaventosamente nel vento, finché si piegavano a terra esausti e si spezzavano con un secco crepitio, distruggendo ogni cosa sotto di loro.
Era un mondo senza memoria: non brutto a vedersi, ma forsennato e crudele, condannato ad estinguersi ogni sera e a rinascere il mattino dopo, senza che nessuno potesse trarre profitto dall’esperienza del giorno precedente e provare a migliorare un po’ le cose. Questo dovette pensare la Luna, che da lassù osservava ogni cosa.

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La conoscenza simbolica / 4

6 Maggio 2013
Salvador Dalì, La persistenza della memoria

Salvador Dalì, La persistenza della memoria

di Valter Binaghi

La quinta parte è qui.

6) L’approccio terapeutico: il simbolo tra sintomo, profezia e catarsi

a) L’eredità romantica: la consapevolezza ermeneutica.

“Una sorta di dolce sopore lo vinse, in cui sognò fatti indescrivibili da cui lo riscosse un altro chiarore. Si trovò su un molle prato, alla sponda d’una sorgente, che sgorgava nell’aria, e sembrava struggersi. Rocce turchine con vene versicolori si levavano a una certa distanza; la luce diurna che lo avvolgeva era più chiara e più dolce del solito, il cielo era turchino e tutto terso. Ma ciò che soprattutto lo attrasse fu un alto fiore azzurro chiaro, che stava presso la fonte e lo sfiorava colle sue larghe foglie lucenti. Tutt’attorno a quello erano innumerevoli fiori d’ogni colore, e il più dolce profumo empiva l’aria. Ma lui non vedeva che il fiore azzurro, e a lungo lo contemplò con ineffabile tenerezza. Infine volle avvicinarglisi, quando esso prese d’un tratto a muoversi e a mutarsi; le foglie divennero più lucenti e si strinsero al crescente gambo, il fiore si piegò verso di lui e mostrò un’espansa corolla azzurra, in cui si cullava un tenero volto. Il suo dolce stupore cresceva colla rara metamorfosi, quando all’improvviso la voce di sua madre lo destò, ed egli si ritrovò a casa sua nella stanza che già il sole del mattino indorava”(61).

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12 aforismi da Facebook

21 aprile 2013

Magritte-Specchio-Falso

di Valter Binaghi

Uno di questi giorni

Dopo aver creduto ferocemente alla redenzione del mondo attraverso la poesia e aver constatato amaramente la nostra incapacità di praticare con serietà una qualsiasi religione, siamo fortemente tentati di farci commercianti d’armi come Rimbaud in Africa, ma essendo inetti anche a questo superbo cinismo ci accontentiamo di fare spallucce al mondo.
Portiamo a spasso il cane sulle rive del canale, fingiamo di credere alle virtù terapeutiche del tarassaco e al fatto che un presidente femmina salverà il paese dal declino. Riduciamo da 20 a 5 la dose di sigarette quotidiana, leggiamo romanzi scritti dai redattori di Nuovi Argomenti e recensiti da quelli di Nazione Indiana. La disperazione è in agguato, ma ci trova la sera quieti, sul divano, mentre scorrono i titoli di coda di un film dei Fratelli Coen.

Stanco

C’è una stanchezza del corpo, una della mente, e una dello spirito.
La prima è banalmente uguale per tutti, la seconda può creare strane solidarietà tra chi condivide le medesime idiosincrasie, la terza è singolare, incomunicabile. Chi mi ridarà non il bambino che sono stato, ma quello che avrei potuto essere e ancora si agita in me, a 55 anni suonati, come in un bozzolo?
Poi c’è la stanchezza di un’intera cultura: è tutto un linguaggio e i suoi retori di cui ci si vorrebbe liberare, ma accadrà solo quando tutti saranno disposti a un lungo istante di silenzio. Allora, meravigliosamente, dalla prima parola di un dio neonato prenderà forma un mondo senza infamia.

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La conoscenza simbolica / 3

13 aprile 2013

Friedrich - Le rovine di Eldena

di Valter Binaghi

La quarta parte è qui.

5) L’approccio romantico – La natura “indiffinita” della mente umana

a) La tradizione impossibile

Consultando un dizionario etimologico si scopre che il termine “simbolo” anticamente stava a significare una delle due parti di un oggetto che, una volta ricomposto, permetteva il riconoscimento tra due sodali. In effetti, abbiamo visto che qualcosa viene esperito come “simbolico” quando allude o rimanda a più di quel che in esso appare. Tuttavia, perchè il rapporto simbolico sia culturalmente possibile, bisogna che questo “rimando” sia colto non solo da una coscienza singola, ma da una comunità che lo condivide. E’ in questo senso che il simbolo può diventare la cifra di un sottinteso comune, mentre il mito e il rito possono avere valore denotativo e performativo per un intero gruppo sociale, il che implica una tradizione, condizione necessaria anche se non sufficiente per favorire la rinnovata capacità di riattualizzare l’evento simbolico da parte di ogni giovane generazione. Ma la tradizione può estenuarsi, per il congelamento del suo linguaggio o l’indegnità dei suoi interpreti e di conseguenza estinguersi per mancanza di linfa vitale, oppure essere brutalmente interrotta da un drammatico episodio di acculturazione.

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La conoscenza simbolica / 1

22 marzo 2013
René Magritte, Gli amanti.

René Magritte, Gli amanti.

di Valter Binaghi

La seconda parte è qui.

1) L’approccio epistemologico – L’eccezionalità della metafora

Nei confronti di ciò che pertiene a simboli, metafore e analogie (che provvisoriamente considereremo non come sinonimi ma, diciamo, come membri di una stessa famiglia) esiste, ed è molto diffuso, un approccio che si potrebbe definire “retorico”, secondo cui non si tratta di forme di conoscenza, ma solamente di espedienti che servono ad illustrare ciò che potrebbe essere detto in termini più rigorosi: un discorso “ornato” insomma, a scopo per lo più pedagogico o persuasivo, dove si tratta più di abbellire che di rivelare. Se mi permettete, trascurerò del tutto questo approccio, perchè la premessa da cui muove il presente testo è di tutt’altro tipo: simboli, metafore e analogie hanno un valore di conoscenza, laddove i concetti risultano indisponibili o inadeguati.
Potremmo definire questo secondo approccio “epistemologico” in quanto pone il simbolo al servizio del sapere, anche se ne fa una funzione di supporto rispetto a quella che del sapere resta la forma primaria e preferibile, cioè la conoscenza concettuale. Questo approccio, che da un certo momento in poi diventa egemonico nella cultura occidentale, è riassunto molto bene da Tommaso d’Aquino (XIV secolo): “…la conoscenza poetica si occupa di ciò che non può essere colto dalla ragione per difetto di verità, pertanto accade che la ragione venga guidata da alcune similitudini; la teologia, d’altra parte, si occupa di ciò che è superiore alla ragione. Pertanto, giacché nessuna delle due è proporzionata alla ragione, hanno in comune la modalità simbolica”(1)
Sembra che per Tommaso il simbolo abbia sì diritto di cittadinanza nell’ambito del conoscere, ma solo nei territori di confine: l’ineffabile dei sentimenti, troppo viscerali per giungere al pensiero, o la trascendenza di Dio, che eccede la misura del concetto umano. Per tutto il resto, vale a dire la conoscenza della natura e le costruzioni culturali, la rappresentazione concettuale basta a sè stessa.
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