di Marco Candida
« Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare. »
Il punto fondamentale del presente intervento è il seguente: siamo sicuri che l’Infinito di Giacomo Leopardi dia conto di un’esperienza di fusione del poeta con l’infinito? La questione ruota intorno a una figura retorica ampiamente utilizzata dal Leopardi che si chiama deissi. Nell’Infinito il Leopardi utilizza una deissi prossimale (“questo”) e una deissi distale (“quello”). La deissi distale serve a indicare l’infinito, ma anche la deissi prossimale alla fine dello pseudo-idillio leopardiano ha la medesima funzione. Quando il Leopardi scrive “Così tra questa immensità s’annega il pensier mio” e il conseguente “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, il Leopardi si sta riferendo a un infinito nel quale egli ormai si trova beatamente in mezzo. Ma se non fosse così? E se invece, Leopardi avesse più semplicemente utilizzato sì le deissi “questo” e “quello”, ma mantenendo l’opposizione netta dal principio alla fine? Il Leopardi scrive: “E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando”. La scena è questa. L’autore è seduto davanti a una siepe su un colle isolato e s’immagina l’infinito al di là di quella: spazi interminabili, silenzi sovrumani, quiete profondissima. Insomma, per il Leopardi l’infinito è immobilità e silenzio. Silenzio e immobilità tanto grandi da atterrirlo. Dopodiché, l’autore sente un fruscio: è il vento che soffia tra le piante, i rami, le foglie. Così, paragona l’infinito silenzio di cui ha appena avuto percezione a quel fruscio. Lo paragona, sì: poiché il Leopardi usa “vo comparando”; e dunque, lo “stormir” del vento non suggerisce al poeta una sensazione di infinito, come quando, ad esempio, ci si porta una conchiglia all’orecchio e quel che si sente fa pensare, suggerisce l’incessante sciaguattio delle onde del mare. E questo fruscio cosa fa balenare in mente al poeta? Il Leopardi avverte in quel fruscio un chiassoso passato: in un momento stagioni morte e sepolte gli riecheggiano nella testa sino ad arrivare al “suono” del presente. Ed è curioso che nello Zibaldone sia proprio il Leopardi a scrivere: “”La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può essere poetico; e il poetico, in uno o in altro modo si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago”. Com’è possibile che il Leopardi nel rappresentare l’infinito faccia riferimento, pertanto, al “presente”? Forse perché quel “presente” non è all’infinito che si riferisce: è da ricondursi, invece, al fruscio. Ecco qual è la spaventosa prospettiva del più celebrato idillio leopardiano. Ecco, il soffocante pessimismo cosmico del poeta di Recanati. Che cosa siamo noi? Difronte al silenzio dell’infinito noi siamo soltanto un fruscio. E questo “fruscio” rimane pur sempre un’eternità, secoli e secoli, millenni, stagioni su stagioni, un’immensità dove perdersi e annegare; ma pur sempre un’immensità dove “naufragare”, ossia non smettere di perdersi, annaspando, (e “immensità” e “mare”, di per sé, connotano uno spazio finito) è mille volte più confortante che restare inghiottiti da quell’infinito glaciale, annichilente per il quale noi siamo solo rumore prodotto da un po’ di vento, fruscio.
L’infinito di Giacomo Leopardi risale al 1819 ed è la punta di diamante della raccolta più famosa del poeta di Recanati. La raccolta contiene anche La sera del dì di festa risalente all’anno successivo, ed è interessante notare che questa poesia presenta una percezione uditiva che porta il poeta a ricordare cose del passato, e anche qui il “silenzio” serve a dar idea di una situazione di sostanziale indifferenza.
«Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona. »
In questo componimento il Leopardi esprime in modo chiaro ciò che nell’Infinito lascia in uno stato di indeterminatezza. La qual indeterminatezza rende legittima la presente interpretazione, e rende altrettanto legittima, ovviamente, l’interpretazione ortodossa che tutti conosciamo, quella della “fusione”, certo più rasserenante.
Tag: Giacomo Leopardi, L'infinito
31 luglio 2018 alle 12:48
Grazie per questa rilettura del Leopardi e del suo”L’Infinito.”La trovo confacente alla mia sensibilità . Il”fruscio”diventa segno di una eternità,immensità in cui si ritrova l’umanità tutta ,passata,presente e futura e può diventare confortevole per il poeta come per noi
.Il “fruscio”non è l’oggetto di contrapposizione con l’infinito “glaciale e annichilente “che sembra evocarlo.E’ così?
31 luglio 2018 alle 16:57
Scrivi:
“Così, paragona l’infinito silenzio di cui ha appena avuto percezione a quel fruscio”
Siamo sicuri che Leopardi non paragoni invece il fruscio del vento tra le piante al fruscio del silenzio tra la sua voce (cioè a un tutto o a un nulla esperito, in cui la voce del poeta si fonde)?
Immagino che nel tempo sia stata considerata, questa interpretazione (che suffraga ovviamente la lettura “ortodossa”):
– nel caso, sapresti dirmi da chi?
– In caso contrario: perché no? Sarebbe errata da qualche punto di vista che non sono in grado di cogliere io?
31 luglio 2018 alle 20:38
Molto interessante. Grazie.
31 luglio 2018 alle 22:04
Ci sto pensando. Il Leopardi mi sembra porre l’accento, nella sua rappresentazione dell’infinito, sull’aspetto sonoro del “silenzio”. Ripete questa parola due volte. “Sovrumani silenzi”. “Infinito silenzio”. A questo punto, sente un fruscio: il vento soffia tra le piante. E, secondo l’interpretazione tradizionale, quel fruscio suggerisce al poeta un’immagine d’infinito: l’eterno, le epoche passate e l’epoca viva del presente. Di questa sente addirittura il suono. Ma non ha appena detto, il Leopardi, che l’infinito è “infinito silenzio”? Se è “infinito”, come può essere quel silenzio già… finito? Invece, ecco cosa succede. Il Leopardi sulla sommità di un colle s’immagina l’infinito. Poi, si ricorda dell’infinità delle cose mondane: ma questa infinità è un soffio di vento, vola via in un attimo, con i suoi suoni, e i suoi trambusti, a paragone dell’infinito silenzio che il poeta si è appena immaginato. E in questa immensità, pur perdendosi, è lieto, il Leopardi, di naufragare (ossia di essere senza requie sballottato), in questo mare-isola, perennemente tumultuoso e senza approdi, migliore nondimeno della prospettiva di incontrarsi con il silenzio infinito e distante di là fuori. .
1 agosto 2018 alle 12:09
Riflessione molto interessante che qualifica il poeta nella sua grandezza . Egli che avverte in modo estremo tutte le tensioni esistenziali(contrasto finito-infinito)
, le elabora nella loro assoluta complessità, trova infine una forma di superamento: accettazione della condizione umana e del suo mistero? Grazie ancora per avermi aiutato a rileggere e meditare il poeta,ora che mi pare di poterlo comprendere un poco di più.
1 agosto 2018 alle 22:59
Nello Zibaldone Leopardi scrive: “L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vita si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario”. L’anima immagina quello che non vede, scrive il Leopardi. Ma non scrive, il Leopardi, “immagina quello che sente”. La vista è il senso dell’immaginazione. L’udito il senso della memoria. Come accade con maggiore chiarezza nell’idillio La sera del dì di festa. Suoni. Grida Fragore. Dei popoli antichi, ma anche del presente (“e la presente, e viva, e il suon di lei”); e anche del futuro (“mi sovvien l’eterno”, che è qui quasi sinonimo di “ciò che sempre avverrà”). Ci sono molti indizi, io penso, che possono indurre a credere a una contrapposzione tra l’infinito spaziale distante, silenzioso e ultraterreno e una chiassosa temporalità mondana. Altro elemento da considerare è il paragone con lo stormire del vento. Sostenendo che Il Leopardi per rappresentare l’infinito, pur volendo rimanere nel vago e nell’indefinito il più possibile, abbia comunque bisogno di un oggetto da contrapporgli per rendere l’idea d’infinità, temo che così si sottovaluti il Leopardi. In fondo, è un’esperienza comune, no? Difronte a un paesaggio sentiamo una cicala frinire e ci rendiamo conto del silenzio che ci circonda. Per descrivere la quantità di silenzio in una stanza di solito ci ritroviamo a parlare dei minuscoli rumori che persistono in sottofondo. Ma Leopardi fa altro. Lui vede la creazione dell’universo nella lucciola che si accende improvvisamente nella stanza buia. Lui sente il suono dell’eternità nel soffio del vento. Non si serve di quel rumore per dirci: “Oh guardate che silenzio!”. Dentro ci sente l’eterno.
Personalmente, ho una visione molto drammatica di questa poesia. Non mi pare che Leopardi si limiti a svolgere il compitino di dirci che cosa sia per lui l’infinito e l’effetto che gli fa. Spazio. Tempo. Un po’ di paura. Piuttosto, ci parla di un’entità che intravede appena. Un qualcosa difronte al quale il cuore quasi gli salta. Come in un racconto di spettri, nei primi tre versi il quadretto è idilliaco. Dopodiché, c’è quel “Ma”. “Ma sedendo e mirando”. Perché il Leopardi usa quel “Ma”? Che strana contrapposizione esisterebbe tra un colle e una siepe che ci sono care e sedersi e mettersi a guardare la siepe? Perché da una situazione idilliaca iniziale arriva il brivido: l’infinito. L’infinito appare al poeta costringendolo a pensare alla volatilità del tutto. E alla fine, il Leopardi trova un po’ di mesta consolazione in questo naufragio continuo nel circo chiassoso dove si trova suo malgrado a vivere; prospettiva certo migliore, comunque, che misurarsi con quella cosa là fuori. 😉
2 agosto 2018 alle 14:49
Sì.il tormento del poeta è la “volatilità del tutto” Beh,non esiste arma per evitarlo,solo sedarlo,superando quella visione che gliela evocano con la distrazione dei rumori della vita(passeggera).
2 agosto 2018 alle 15:15
E.C. “evoca” e non già “evocano”.
2 agosto 2018 alle 16:29
Lucida analisi di uno dei testi più letti e studiati del Leopardi. Leggendoti, mi è venuta in mente una poesia della Dickinson:
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte,
eppure tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’ anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.
Saluti
3 agosto 2018 alle 13:07
Lucia, anch’io ho avuto la tentazione di considerare “questa voce” come “questa mia voce”. Ma il problema di questa interpretazione è che tu stessa hai utilizzato l’espressione “il fruscio del silenzio”. Se è silenzio come può esserci “fruscio”? E’ interessante perché Leopardi scrive “quello infinito silenzio”. Non scrive: “quel silenzioso infinito” (espressione certamente incomporabilmente più povera). Questo per dire che la connotazione del “silenzio” associata al concetto di “infinito” è così importante, per il Leopardi, da fargli sostituire l’infinito stesso con il silenzio: “quello infinito silenzio”. Il soggetto della poesia non è più l’infinito, ma diventa addirittura il silenzio. Ciò nondimeno, per noi ciò che segue dopo i due punti sono descrizioni dell’infinito – che improvvisamente cessa di essere silenzioso e si mette a far suoni, a frusciare, a stormire. Io dico che invece l’eterno, le morte stagioni e la presente, e viva, e il suon di lei sono descrizioni, pur vaghe, del tempo degli uomini e del mondo, di una temporalità finita, benché “immensa”: una “infinità” – e “infinità” è la prima parola scelta dal Leopardi al posto di “immensità”, poi depennata. Un’immensità dove il Leopardi si perde, annega, ma dove gli si offre la possibilità almeno di un naufragare continuo. Ma appunto se “naufraga” in un mare (espressione carica di significati), dove sta l’evento che ha provocato questo sia pur scomodo naufragio? L’immensità terrestre protegge il poeta dall’infinito.