Mercoledì 19 febbraio 2020 si è parlato del romanzo di Marco Candida “Incendio nel bosco” nel corso della puntata di Fahrenheit su Radio Rai 3. Qui il podcast. (Un sentito special thank a Tommaso Giartosio)
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Fahrenheit Radio Rai 3
20 febbraio 2020“Incendio nel bosco””, di Marco Candida
20 dicembre 2019Il Furore di Steinbeck
26 luglio 2019“Storie”, di Angelo Bottiroli
10 giugno 2019di Marco Candida
La letteratura non è la matematica, ma una delle poche certezze in narrativa è che quando hai difronte un libro scritto da un giornalista o da uno scrittore di fantascienza sarai al cospetto di una storia, comunque sia, ben fatta, e che faticherai a smettere di leggere. La letteratura di fantascienza non vive un momento esaltante, ma il giornalismo ha schiere e schiere di giornalisti-scrittori che dimostrano sul campo l’assunto di questa verità. I giornalisti sono bravi a scrivere. Punto. E’ un dato di fatto. Qualsiasi giornalista che si metta a scrivere un libro di narrativa scriverà un’opera degna di rispetto. Se poi questo giornalista è anche un’amante della fantascienza…
“Storie” di Angelo Bottiroli (appassionato di Isaac Asimov) è un libro di racconti brevi. I racconti sono lunghi in media quattro o cinque pagine. Ogni racconto ha come titolo il nome del protagonista del racconto stesso e ogni storia affronta un sentimento. “La paura”, Maria Teresa e Giusy. “L’angoscia”, Enrica e Mimmo. “L’intraprendenza”, Patrizia e Johnny. “La perseveranza”, Graziella e Luisa. “La debolezza”, Daniela e Carlo. Per ogni sentimento viene offerta al lettore una definizione, un calembour. L’angoscia: “L’angoscia nasce dal nostro inconscio, si impossessa di noi e rimane latente, per poi emergere nelle occasioni che meno ci aspettiamo”. L’intraprendenza: ”L’intraprendenza è agire dove altri starebbero fermi perché non sanno cosa fare o come muoversi”. La rabbia: “La rabbia nasce dall’impotenza di agire difronte a qualcosa che riteniamo ingiusto”.
I racconti si leggono d’un fiato. Ed è quasi increscioso. Stai lì, e pensi: “Ma guarda come si leggono bene, questi racconti”. Come sono belli. E quante cose innegabilmente giuste dicono. Fanno quasi rabbia. Perché stai lì, e potresti berti qualsiasi cosa pensando che sia vera, e giusta, e in forza solo di una prosa rintoccante, scoppiettante, avvolgente.
Come quando leggi: “Il sole non era ancora alto in cielo ma lui aveva già effettuato tutte le incombenze del mattino: portato fuori il cane, fatto i suoi tre chilometri di corsa, le figlie a scuola e salutato la moglie che andava al lavoro”. Esiste una frase più deliziosa, nella sua semplicità? E poco importa che “portare fuori il cane” o “salutare la moglie” siano o non siano davvero una “incombenza” – per alcuni potrebbe essere un “piacere”, ad esempio. E poco importa anche mettersi lì a fare deduzioni sugli orari in cui queste azioni (piuttosto impegnative e molto diverse tra loro) possano essere state compiute. Se porti le figlie a scuola, le lezioni cominciano alle 8 e 30. Però, se abiti lontano, devi partire almeno per le 8.00 o le 8.15. Potrebbe anche darsi che abiti a cinque minuti dalla scuola. Ma allora, perché accompagnarle, le bambine? Potrebbero andare da sole, le figlie. Ne deduciamo che devono essere molto piccole. Prime classi delle scuole elementari o addirittura la materna. In ogni caso, “portare fuori il cane” e “fare tre chilometri di corsa” sono azioni compiute prima delle 8 e 30, se non 8 e 15 o addirittura 8.00. “Portare fuori il cane”, poi, quanto tempo porta via? Mezz’ora? Un quarto d’ora? E “fare tre chilometri di corsa?”? Be’, dipende dal tipo di “corsa”, anche. Se è corsetta da corsa campestre o corsa da centometrista. Così, insomma, ma quand’è che quest’uomo si è svegliato per fare tutte queste cose impegnative prima di accompagnare le figlie a scuola… e in tempo per tornare a casa e salutare la moglie che sta andandosene al lavoro? E che orari ha la moglie? Forse comincia alle 9.00. Forse ha uno di quei lavori dagli orari flessibili…
Ma appunto, il bello di questi racconti è che sono scritti talmente bene che tutte queste domande uno non se le fa minimamente. Legge spedito fino alla fine gustandosi una storia breve fatta di fatti, idee, sentimenti e tante emozioni.
Angelo Bottiroli è un giornalista (Direttore di “Oggi cronaca”, ex-giornalista per il Gruppo Espresso) e come scrittore locale Angelo Bottiroli è bravo, in gamba, assolutamente non retorico, ma senza nemmeno essere cinico. Non è facile trovare libri di “scrittori locali” (una categoria di scrittori precisa e forse ormai un po’ romantica) ben fatti e di buona fattura come questo.
Appunti sul concetto di Trinità
30 dicembre 2018di Marco Candida
(Questi appunti riprendono qualche pensiero espresso in questo articolo qui)
Mi è venuto in mente che uno dei limiti della storiografia è che si occupa di cose le quali vanno inesorabilmente allontanandosi giorno dopo giorno. A pensarci, questo genera alcuni paradossi. Uno studioso che si concentri in particolare sulle questioni del bellum sociale a Roma nel 90 a.C., e lo faccia da circa quarant’anni, anziché “saperne sempre di più”, dovrebbe “saperne sempre meno” visto che si allontana dai fatti di cui si occupa ogni secondo che passa. Ma non credo uno studioso tenderebbe a sorridere di questo paradosso.
La fantascienza invece occupandosi del futuro si avvicina via via alle cose che ha per oggetto. Qui non ci sono paradossi particolari. Semmai, rispetto alla storiografia, è più facile smascherarla. Ad esempio, gli extraterrestri non si sono fatti ancora vivi come vaticinavano i fumetti degli Anni 50 ambientando le loro storie ai giorni nostri; né usiamo gli areoplani al posto delle automobili per recarci in ufficio, eccetera.
Ecco, una delle qualità della Bibbia è che riesce a intrecciare passato e futuro, mescolando, per così dire, storiografia e fantascienza. Da un lato testimonia di eventi sempre più lontani, dall’altro grazie al libro dell’Apocalisse, di cose a cui ci si avvicina ogni giorno – e non ci sono nemmeno date precise.
La domanda che mi faccio da un po’ è: la Bibbia è quel libro confuso e fantasioso che ci appare oggi? O è percorso al contrario da estremo rigore? Ed è questo rigore estremo che abbiamo perso di vista, non capiamo più. Abbiamo smarrito il senso unitario totale della mastodontica narrazione biblica. Eppure, non solo la Bibbia è un libro che si colloca nel passato e nel futuro, ma essendo “libro”, essendo lì, consultabile, è anche nel presente e ci offre la possibilità di riconquistare quel messaggio unitario fondamentale in esso contenuto. La Bibbia parla di cose passate e di cose future, ma è anche presente.
Allora, se la Bibbia non è un libro fantasioso, bensì rigoroso, è possibile spiegare lo strano concetto di trinità alla luce di una tale regolatezza? In questi appunti abbozzo, certo in modo un po’ goffo per uno studioso, qualche ipotesi.
Già nel Vecchio Testamento Dio appare con diversi nomi, e da questo punto di vista si potrebbe ravvisare una tendenza a presentare Dio stesso, nel Vecchio Testamento, come un’entità non del tutto padroneggiabile. Sì, Dio è uno, e l’unicità del Signore viene a più riprese confermata e ribadita nel corso della narrazione veterotestamentaria, ma il Dio Unico ha quantomeno una molteplicità di nomi a designarlo. Sotto questo profilo, l’elemento trinitario introdotto dalla dottrina del Cristianesimo non è altro che un’espansione di questa sorta di “monoteismo debole” già ravvisabile nel Vecchio Testamento. Dio non solo può avere più nomi, e può presentarsi sotto forme diverse (il roveto ardente), ma può anche assumere intere identità o essere Spirito.
(Un paio di riflessioni a margine: 1) per i fratelli ebrei Dio può diventare un roveto ardente, e questo non è blasfemo, ed è accettato; ma se diventa uomo, questo è dubbio, eresia; 2) Dio in quanto carne viene flagellato, e una volta risorto porta sulla carne i segni di cicatrici orribili, mentre invece a Dio in quanto Spirito, pura immaterialità, nulla accade: pertanto, si potrebbe dedurre (dico, si potrebbe!) che il male non è nel mondo terreno, ma nella carne. Ecco la differenza tra il mondo biblico e ad esempio Dostoevskij: per Dostoevskij il male è nel mondo, e investe sia le persone che le cose – tutti sono dissoluti, maligni o brutti, e tutte le cose mezze rotte e sporche, decadenti, e non è possibile, mai, manifestazione di bene. Invece, Sant’Agostino è assai più in linea con il messaggio cristiano: secondo il Santo, la carne è la casa del peccato e del dolore, e solo nella condizione di puro spirito non è possibile (è materialmente impossibile) peccare).
A ogni modo, riprendendo il discorso, lo stesso Gesù ribadisce, nel Nuovo Testamento di cui Egli è artefice e protagonista, l’unicità di Dio Padre, e lo fa nel modo più netto e chiarificatore possibile, affermando che il comandamento più importante è il primo: “Non avrai altro Dio all’infuori di Me”. Chiarito questo, Gesù non ha problemi, più tardi, a farsi riconoscere come Figlio di un Dio Insostituibile. Il che non è una contraddizione, ma un’affermazione della consustanzialità Padre-Figlio. Poiché non può esservi nessun Dio all’infuori di Dio, se Gesù è Dio allora Gesù è Dio. Non un rappresentante o la longa manus: è Dio nel suo intero. Il primo comandamento, nell’economia della narrazione biblico-neotestamentaria, viene osservato in pieno nel caso e solo nel caso in cui Dio, per così dire, si sostituisca a Sé stesso.
Il primo comandamento è il principio-guida di ogni evento raccontato nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. Tutto ciò che accade non contradice mai, in nessun caso, il primo comandamento. Ecco la straordinarietà del messaggio cristico. Gesù è venuto a spiegare meglio la Bibbia. Il Dio biblico non è quel castigatore severo che può sembrare a un’occhiata superficiale. E’ l’uomo a essere malvagio e a volersi sostituire a Dio per dominare sugli altri uomini (e magari su Dio stesso). L’uomo fabbrica continuamente idoli. Nel Vecchio Testamento Dio interviene per fare piazza pulita di questi uomini – sia di chi si propone come idolo sia di chi a questi da corda adorandoli. E se qualcuno pensa di potersi sostituire a Dio o di potersi mettere alla pari con Lui o che si trova nella posizione (anche senza volerlo) di poter essere venerato come un dio, allora Dio è costretto ad agire. Si veda la storia di Giobbe, buon osservatore delle leggi di Dio, ma che proprio per questo avrebbe finito per essere paragonabile a Dio stesso. O come altro esempio lampante si veda Mosè che se avesse portato il popolo d’Israele nella Terra Promessa, sarebbe inevitabilmente stato venerato come un dio e avrebbe regnato come un dio. Così, il Signore non volle fargli vedere la Terra per cui Mosè tanto aveva combattuto e sofferto. E poi, ovviamente, il figliolo di Dio. Che è Dio, ma anche Uomo, e che è stato martoriato nei modi peggiori, perché non può esserci un Dio in Terra, quand’anche questi – il Vangelo lo dimostra – fosse il Dio Vero. E poi, Gesù è l’Agnello offerto da Dio agli uomini per togliere i peccati dal mondo. Anche qui, se vogliamo, una ripresa e un’espansione dell’episodio biblico di Abramo e del figlio Isacco. Il Dio biblico non vuole sacrifici umani. Non solo, ma è disposto a fare Lui un sacrificio umano per le sue creature. Un capovolgimento totale, rivoluzionario – qui sì, quasi eresia. Il Figlio è l’Agnello che Dio offre agli Uomini; e gli uomini non esitano naturalmente a farne ciò che vogliono. Anche in questo caso, è interessante notare come la narrazione rispetti con estremo rigore il primo comandamento: abbiamo un Dio-Padre che fa sacrifici umani agli uomini quasi come a chiedere scusa per il diluvio universale e le altre cose, pur meritate e assolutamente in linea con i principi cardine della narrazione biblica, inflitte alle sue creature; e abbiamo altresì un Figlio che non ha nessun potere di Dio, ma anzi è prostrato e inerme difronte agli uomini. Il Dio del Vangelo è un Dio che si comporta come se non fosse un Dio. Antitesi massima, se ci soffermiamo a riflettere, degli atteggiamenti che generano di solito idolatria: forza, imbattibilità, invulnerabilità.
Ora, è chiaro che nel Nuovo Testamento se Dio è un Dio che non si sostituisce, Lui per primo, a Se Stesso (non dice mai, per dire: “Adesso vi faccio vedere di che cosa sono capace”, o se lo fa lo fa attraverso opere buone e meravigliose come camminare sull’acqua o guarire i malati), allora anche il concetto stesso di Dio è un concetto ad alto potenziale esplosivo. Se il primo comandamento è il più importante, e non esiste un Dio al di fuori di Dio, come si fa a dire infatti con sicurezza: “Dio è questo” o “Dio è quest’altro”?. Come si può dire: “Dio è Uno, Vero, Bene”? Se fossimo in grado di stabilirlo, allora noi il concetto di Dio lo padroneggeremmo. Saremmo noi i padroni. Noi decideremmo. E presto fabbricheremmo vessilli, bandiere, gonfaloni… Ma così si contravverrebbe, e nel modo più paradossale, al primo comandamento. Allora, ecco il trinitarismo. Il trinitarismo serve a gettare quell’incertezza necessaria a non padroneggiare mai pienamente un concetto tanto vasto e inesauribile e inafferrabile (e potente – oh sì, tremendamente potente) come quello di Dio. Dio è unità e trinità, e questo per l’uomo è inconcepibile, dunque è incomprensibile, e se non si può capire, non si può padroneggiare. Ecco il senso della trinità divina all’interno della logica (logica, sì) narrativa del Libro di Dio – dove ovviamente non viene espressa a chiare lettere la trinità divina, ma che è assai plausibilmente deducibile, così come assai plausibilmente deducibili sono i concetti fisici di spazio e tempo…). E la disputa nicena e la teologia negativa… tutto questo non fa che confermare quanto l’espediente, dopotutto, abbia funzionato. L’uomo difronte a Dio è inerme, e non può nulla. Persino il concetto stesso di Dio non gli è chiaro. Venera qualcosa che non riesce a comprendere, non può, non gli è dato. Non è in suo potere.
Ecco, più o meno è qui che volevo arrivare con i miei appunti sul concetto di trinità, e mi fermo.
Il vento dell’immensità nell’infinito leopardiano
31 luglio 2018di Marco Candida
« Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare. »
Il punto fondamentale del presente intervento è il seguente: siamo sicuri che l’Infinito di Giacomo Leopardi dia conto di un’esperienza di fusione del poeta con l’infinito? La questione ruota intorno a una figura retorica ampiamente utilizzata dal Leopardi che si chiama deissi. Nell’Infinito il Leopardi utilizza una deissi prossimale (“questo”) e una deissi distale (“quello”). La deissi distale serve a indicare l’infinito, ma anche la deissi prossimale alla fine dello pseudo-idillio leopardiano ha la medesima funzione. Quando il Leopardi scrive “Così tra questa immensità s’annega il pensier mio” e il conseguente “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, il Leopardi si sta riferendo a un infinito nel quale egli ormai si trova beatamente in mezzo. Ma se non fosse così? E se invece, Leopardi avesse più semplicemente utilizzato sì le deissi “questo” e “quello”, ma mantenendo l’opposizione netta dal principio alla fine? Il Leopardi scrive: “E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando”. La scena è questa. L’autore è seduto davanti a una siepe su un colle isolato e s’immagina l’infinito al di là di quella: spazi interminabili, silenzi sovrumani, quiete profondissima. Insomma, per il Leopardi l’infinito è immobilità e silenzio. Silenzio e immobilità tanto grandi da atterrirlo. Dopodiché, l’autore sente un fruscio: è il vento che soffia tra le piante, i rami, le foglie. Così, paragona l’infinito silenzio di cui ha appena avuto percezione a quel fruscio. Lo paragona, sì: poiché il Leopardi usa “vo comparando”; e dunque, lo “stormir” del vento non suggerisce al poeta una sensazione di infinito, come quando, ad esempio, ci si porta una conchiglia all’orecchio e quel che si sente fa pensare, suggerisce l’incessante sciaguattio delle onde del mare. E questo fruscio cosa fa balenare in mente al poeta? Il Leopardi avverte in quel fruscio un chiassoso passato: in un momento stagioni morte e sepolte gli riecheggiano nella testa sino ad arrivare al “suono” del presente. Ed è curioso che nello Zibaldone sia proprio il Leopardi a scrivere: “”La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch’egli sia, non può essere poetico; e il poetico, in uno o in altro modo si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago”. Com’è possibile che il Leopardi nel rappresentare l’infinito faccia riferimento, pertanto, al “presente”? Forse perché quel “presente” non è all’infinito che si riferisce: è da ricondursi, invece, al fruscio. Ecco qual è la spaventosa prospettiva del più celebrato idillio leopardiano. Ecco, il soffocante pessimismo cosmico del poeta di Recanati. Che cosa siamo noi? Difronte al silenzio dell’infinito noi siamo soltanto un fruscio. E questo “fruscio” rimane pur sempre un’eternità, secoli e secoli, millenni, stagioni su stagioni, un’immensità dove perdersi e annegare; ma pur sempre un’immensità dove “naufragare”, ossia non smettere di perdersi, annaspando, (e “immensità” e “mare”, di per sé, connotano uno spazio finito) è mille volte più confortante che restare inghiottiti da quell’infinito glaciale, annichilente per il quale noi siamo solo rumore prodotto da un po’ di vento, fruscio. (more…)
“Non avrai altro Dio”
26 dicembre 2017di Marco Candida
[“La casa benedetta” è un romanzo uscito da non molto per una piccola casa editrice tenuta da un editore giovane. Qui se ne può leggere un consistente estratto. Però, desidero precisare ancora il contenuto dell’estratto (che è poi il cuore del libro) con le righe che seguono. mc]
Nel Vangelo di Marco si racconta che Gesù interrogato dai dottori della Legge su quale fosse il comandamento principale indicò il primo: “Avrai un solo Dio; questo Dio”. Poi il Cristo aggiunge un secondo comandamento, il quale riassume gli altri: “Ama”. Se ami, non uccidi. Se ami, non menti. Se ami, onori i genitori. Se ami, non desideri altro da quel che hai.
Dicendo questo, il Gesù secondo Marco, lascia intendere: i comandamenti sono ordinati per importanza; e sono tutti la conseguenza del primo. Se avere un Dio e solo questo Dio è tanto notevole, allora (secondo comandamento) non usare il Suo nome appiccicandolo come un’etichetta: se lo fai non solo contravvieni al secondo comandamento, ma anche al primo, e indirettamente agli altri: rubi a Dio, cancelli Dio, porgi una testimonianza lontana dalla Verità di Dio, tradisci Dio… E se hai questo Dio, bada (terzo comandamento) di santificarlo e di celebrarlo: lui è da festeggiare, non altro. Onora i genitori; loro ti hanno messo nella condizione di scorgere Dio, di essere Sue creature. Gli altri comandamenti sono: non lasciare che nulla si sostituisca a Dio. Tieni lontani i demoni. I demoni sono un falso dio. Ti dice, questo dio falso, che, date alcune circostanze, uccidere è cosa che si può fare. Rubare. Mentire. Tradire. Desiderare altro da ciò che si ha. E se si cede a questo dio, si sostituisce Dio; ma Dio è uno e uno soltanto e si contravviene, pertanto, al primo e più sostanzioso dei comandamenti: “Non avrai altro Dio”.
Se il primo comandamento è la legge fondamentale, domandiamoci: non sarà forse che ogni episodio del Libro di Dio dal più piccolo al più grande soggiaccia a una e una sola regola, una e una sola logica? E che tale norma sia da individuarsi proprio nel primo e più importante dei comandamenti?
Non c’è nessun Dio sulla Terra. (more…)
Qfwfq e Yhwh
24 novembre 2017di Marco Candida
[Il racconto di Giulio Mozzi Acqua comparve nella prima edizione, Einaudi 2001, della raccolta Fiction. Non compare nella nuova edizione, Fiction 2.0, Laurana 2017, Si può leggere qui. gm].
Mi butto.
E se Qfwfq e Yhwh appartenessero alla stessa tribù?
Prima di tutto, chi sono Qfwfq e Yhwh?
Qfwfq è il protagonista di una serie di racconti scritti da Italo Calvino; appare nelle raccolte Le Cosmicomiche, Ti con zero e qua e là ancora. Yhwh, invece, per chi non lo avesse riconosciuto subito, oramai tutti lo abbiamo presente con il nome di… Dio. Qfwfq è noto alle cronache dal 1963 d.c., quando apparve per la prima volta all’interno di un racconto pubblicato sulla rivista Il Caffè. Yhwh, invece, è noto da tempi molto più antichi.
Dunque, ripartiamo: e se Qfwfq e Yhwh appartenessero alla stessa grande famiglia?
Qualche pensiero (con molte pretese) sulla Bibbia
16 agosto 2017di Marco Candida
[Dopo aver letto qui la rubrica Come sono fatti certi libri, 16/”La Bibbia”, di Dio (prima parte) mi sono venute in mente un po’ di cose. mc]
Ogni volta che qualcuno dice che la Bibbia racconta cose irrazionali o contradditorie, io mi chiedo: ma a chi lo sta dicendo, quel tipo lì, che la Bibbia racconta cose contraddittorie e irrazionali? Forse sta rivolgendosi a dei ragazzini: già, perché solo un fanciullino potrebbe avere qualche dubbio sull’immacolata concezione, e l’arcangelo Gabriele, e San Giuseppe, e Maria, e l’acqua che si tramuta in vino, e pesci che si moltiplicano, e acque che si dividono, e Adamo, Eva, la mela, il serpente, il Giardino dell’Eden. A chi lo dicono, queste persone, che la Bibbia racconta favole? A chi lo spiegano, mi dico, a chi si rivolgono?
Credo che almeno al giorno d’oggi ci sia un presupposto errato in chi analizza criticamente la Bibbia. Credo che chi analizza criticamente la Bibbia faccia diventare la Bibbia il centro del credo di tutti i credenti. Ma anche qui, occorre rendersi conto che un discorso critico sulla Parola di Dio che ponga la Parola di Dio al centro del credo cristiano, non può rivolgersi a tutti: può rivolgersi solo a quei cristiani che per l’appunto pongono la Parola di Dio al centro del loro stesso credere in Dio. Perciò, da questi vanno certamente esclusi i cristiani di confessione cattolica.
Complessità/semplificazione: considerazioni e appunti
19 aprile 2017“Grida quando stai bruciando”
8 febbraio 2017[Ho letto con interesse l’articolo del Professor Brugnolo “I fannulloni nella valle fertile” di Albert Cossery e propongo come umilissimo controcanto questo scritto (un temino) su “La peste” di Albert Camus scritto di getto qualche mese fa. Se Cossery mi sembra riprendere e ampliare Gončarov, Camus mi sembra riprendere Balzac. La questione posta dal mio intervento credo sia principalmente: alcune cosiddette allegorie del ‘900 non sono un po’ troppo artificiose? mc]
di Marco Candida
Iniziamo con un paragrafo delle Illusioni Perdute di Balzac:
“La necessità di coltivare il padre, del quale la signora de Bargeton aspettava l’eredità per andare a Parigi, e che invece li fece aspettare tanto che il genero morì prima di lui, costrinse il signore e la signora de Bargeton ad abitare ad Angoulême, dove le brillanti qualità della mente e le ricchezze naturali celate nel cuore di Naïs dovevano perdersi senza frutto, e col tempo diventare addirittura ridicole. In effetti, i nostri lati ridicoli sono in gran parte originati da un bel sentimento, da virtù o da facoltà spinti all’eccesso. La fierezza, non attenuata dalla pratica del gran mondo, si trasforma in durezza quando si esercita sulle piccole cose invece di spaziare in una sfera di sentimenti elevati. L’esaltazione, questa virtù nella virtù, che genera i santi, che ispira dedizioni segrete e stupende poesie, diventa esagerazione quando si appiglia alle inezie della provincia. Lontano dall’epicentro in cui brillano i grandi intelletti, in cui l’atmosfera è carica di pensiero, in cui tutto si rinnova, l’istruzione invecchia, il gusto si altera come un’acqua stagnante. Per mancanza di esercizio, le passioni si rimpiccioliscono ingrandendo le cose trascurabili. Ecco la causa dell’avarizia e dei pettegolezzi che appestano la vita di provincia. La persona più degna è portata in breve ad imitare le idee ristrette e le maniere meschine. Così soccombono uomini nati per essere grandi, donne che, se emendate dagli insegnamenti del mondo e formate da spiriti superiori, avrebbero potuto diventare delle creature affascinanti” (Neretto mio, ndr)
In fondo, Albert Camus, nella Peste, si è ispirato molto a Balzac. Ha preso una cittadina di provincia e ha mostrato come abitudini e vezzi proseguano anche se in questa cittadina sopraggiunge il morbo della peste. Questo, l’assurdo di Camus – che Balzac, nel profluvio del secondo capitolo delle Illusioni Perdute, definisce “ridicolo”. L’assurdo sta nel continuare a far le cose, anche se non ha più senso farle. Camus si appropria di un aspetto della “commedia umana” di Balzac, e lo espande, facendolo diventare il caposaldo di un intero sistema filosofico. Il provincialismo è specchio di una condizione esistenziale. Il provincialismo è ritagliarsi un’isola, un vivere scollegato, una sorta di volontaria auto-emerginazione. (more…)
Rivoluzione Quentin
11 novembre 2016di Marco Candida
[Il testo si intitola La rivoluzione di Quentin]
con affetto a Quentin Tarantino
È sbalorditivo constatare quanto Ernest Hemingway sia debitore di Sherwood Anderson. Eppure, pochi autori come Hemingway hanno consolidato il cammino della letteratura negli ultimi decenni – e qui “letteratura” ha valore altissimo: significa soprattutto “modalità di rappresentazione del mondo”. Esempi come quelli di Hemingway, in letteratura, ce ne sono un bel po’. Generalmente, sappiamo che tutti i grandi autori, o una parte non trascurabile d’essi, sono debitori. Forse, però, questa parola, la parola “debitore”, colpisce ormai in maniera troppo debole la nostra immaginazione. Infatti, se i grandi autori sono “debitori”, allora dobbiamo immaginarci “debitori” “pieni e strapieni di debiti”: non soltanto un paio di collane in una gioielleria e qualche bottiglia di whisky nel negozio di liquori sotto casa. Se sono “ladri”, li dobbiamo immaginare non semplici furfantelli che svaligiano un appartamento o commettono qualche scippo per strada: piuttosto quel tipo di birbanti che s’impadroniscono di capitali interi, società, know-how. Ecco, questo è il tipo di “debitori” o di “ladri”, se vogliamo usare i vocaboli “ladri” e “debitori”, che dobbiamo immaginarci. Ma, se sono “debitori” o “ladri”, che cosa consente a questi grandi autori di seguitare a essere considerati “grandi”? O, ancora meglio: perché questi autori sono indubitabilmente più grandi, importanti, belli e migliori degli altri autori?
Marijuana al buio
22 settembre 2016di Paolo Galli
[Paolo Galli, di Reggio Emilia, classe 1986, ha una raccolta di racconti inediti sul mondo delle discoteche e dei buttafuori. Chissà se ce la farà, a trovare l’editore. Il vantaggio per tutti, nel frattempo, è che lo leggiamo gratis. mc]
Qualche birra e un paio di canne
Un venerdì pomeriggio mi ha chiamato Incio. Era pieno luglio. I ventilatori non facevano altro che spalare tonnellate di umidità da un posto a un altro. Faceva un caldo d’inferno. Si poteva star bene solo con l’aria condizionata. Io non l’avevo. Me ne stavo sdraiato nudo sul pavimento.
Incio era uno degli amici di mio fratello. Era anche lui alla cena per il compleanno della biondina un po’ troia. Aveva una gran cotta per quella biondina. Non che a me fregasse un accidente, ma questa cosa della cotta per quella biondina non riuscivo proprio a capirla. Incio era un tipo sveglio, uno che si dava da fare. Aveva una gran passione per le moto e faceva il meccanico part time. Studiava da ingegnere. Era anche un bel ragazzo, a parer mio. Era alto, largo di spalle, e aveva una faccia pulita, da bambino. Quella biondina non valeva uno sputo di tabacco masticato.
Devo aver visto Incio tre o quattro volte in tutto. Ma avevo il suo numero, e lui aveva il mio. Mi sono alzato, ho preso il telefono. Mi sono sdraiato di nuovo e ho risposto.
“Incio”, ho detto.
“Ciao Pà”. Mi chiamava Pà, non so perché. Non mi piaceva quel soprannome, ma non gliel’ho mai detto. “Stasera ti va di venire con me a una festa”?
Il caldo umido m’imprigionava le forze. Non avevo voglia di parlare. Non avevo voglia di fare assolutamente nulla che non fosse starmene sdraiato nudo sul pavimento. Quindi ho tagliato corto. “Va bene”.
“Autunnale”, di Dario Voltolini
24 Maggio 2016di Marco Candida
Dario Voltolini si è autopubblicato un romanzo che s’intitola Autunnale (dalla finestra al teatro). Sulla quarta il libro viene presentato così: “Sono scene che si manifestano in ordine sparso come tessere di un puzzle appena rovesciato dalla scatola che le conteneva. Il protagonista è come un albero a cui l’esperienza, simile a un vento autunnale di tramontana, porta via poco alla volta tutte le foglie”. Un albero a cui il vento dell’esperienza porta via poco alla volta le foglie. Un interessante capovolgimento di prospettiva, dato che di solito l’esperienza “fa maturare”. E infatti il protagonista di questo romanzo via via che procede di capitolo in capitolo, di scena in scena sa sempre meno. Eugenio è come se fosse al centro di un tifone che trasforma tutto in sabbia. Le persone, le cose non hanno più forma, identità. Ed è il lettore che ha compito di mettere insieme i tasselli del puzzle e verificare se un senso nella vita di Eugenio è ancora possibile. Una sfida che non lascia scampo. Dove siamo noi lettori chiamati ad avere autorevolezza. E con questo romanzo scomposto Voltolini non si produce in un intellettualistico gioco combinatorio: parla invece al cuore di tutti coloro che, come Eugenio, stanno vivendo un periodo di transizione e hanno, si spera non per sempre, perso la bussola. Così, si affidano. Prima alla compagna. Poi all’amico. Poi al dottore. E magari ai passanti occasionali – come i lettori di un libro. Magari a qualcuno che possa capirli per loro. Qualcuno che sappia loro dire che cosa diavolo sta accadendo perché loro non ce la fanno più, non ci riescono più, non capiscono più. Tutto, per costoro, si sfrangia, sfilaccia, sfarina e allo stesso tempo ogni cosa si salda, riunisce, rinserra.
Quando cadono le stelle, di Gian Paolo Serino
21 Maggio 2016di Marco Candida
Di ritorno dalla presentazione alla Libreria Mondadori di Alessandria del romanzo d’esordio di Gian Paolo Serino Quando Cadono le stelle Baldini Castoldi. A presentarlo Angelo Marenzana. Marenzana è autore del romanzo noir L’uomo dei temporali edito da Rizzoli. Scrittore ottimo e vero, a parer mio, la principale forza di Marenzana è la caratterizzazione di luoghi e personaggi. In Italia l’opinione più diffusa è probabilmente che l’abilità dello scrittore stia nel dipingere il quadro con poche pennellate. Invece, i romanzi quasi sempre necessitano indugio e questo Marenzana lo fa, con il risultato che i suoi personaggi (ispettori o commissari che siano) sono persone di carne e sangue e non solo inchiostro.
Sentendo Serino presentare il suo romanzo mi è venuta una riflessione. Da anni Vasco Rossi sostiene Serino affermando che è una mente geniale. Usa parole forti, importanti. Sicuramente, Serino ha una carriera che testimonia la veridicità dell’asserzione del rocker. Mi chiedo, però, se il mondo letterario abbia preso sul serio in considerazione le parole di Vasco. Ascoltando Serino, insomma, ho pensato: Vasco Rossi ha ragione a parlare bene e molto bene di Serino. E poi ho pensato: come mai quando qualcuno spende parole importanti per qualcun altro non viene quasi mai preso del tutto sul serio? Mi è venuto da pensare che quello che fanno gli altri è sempre facile, vale poco, non è da prendere molto in considerazione. Vasco Rossi parla bene di te? Oh be’, sì: lo farebbe anche di me, se ci conoscessimo, fossimo amici… E’ sempre facile quello che ottengono gli altri. Invece, bisogna capire che non è facile, non è scontato, mai.
Famiglia
28 marzo 2016di Marco Candida
[In questi giorni si è parlato di “unioni civili” e “famiglia”]
Una premessa dell’ispettore Balti
Essendo un ispettore di Polizia ci si aspetterebbe forse che sia pieno di nemici. In quattordici anni, da quando ho i due pentagoni dorati appuntati sulle controspalline della divisa, ho operato qualcosa come settantasei arresti. Ho messo dentro Carlo Tontelliano che ha ammazzato sei persone e si può quasi considerare un serial killer, anche se erano tutte persone che lo avevano rovinato. E devo confessare che è stato dopo il successo di quell’operazione che ho cominciato seriamente a occuparmi del tuo caso e ad assumerlo direttamente quando l’ispettore Rettondi ha fatto la fine che ha fatto. Pace all’anima sua. Ho fatto incarcerare parecchi criminali e alcuni di loro oggi sono liberi, non stanno più in carcere. Molti conducono una vita non dico onesta ma normale. Altri invece probabilmente sono impelagati negli stessi giri di sempre – cosa di cui sono piuttosto certo almeno per quel che riguarda Arturo Colaffini o Girolamo Venicchianni o Ettore Bollemponci. Magari, se sei stata attenta alla cronaca degli ultimi anni nel pavese, i nomi che ho appena fatto possono risuonarti nelle orecchie in qualche modo. Sì, per la miseria. Ho fatto incarcerare settantasei criminali. Tuttavia, se mi stai chiedendo chi è il mio nemico più grande, allora non ho dubbi su chi potrebbe essere. Lasciamelo dire chiaro: il mio nemico più grande non è uno degli ex-carcerati che ho fatto arrestare. Invece è una donna. Come te. Si chiama Elma Comolli. E il motivo per cui dovrebbe avercela tanto con me al punto da desiderare di vedermi morto è che temo di averle rovinato la vita. Perciò se ti aspetti che mi metta a raccontare di questo o quel criminale che ho arrestato e fatto incarcerare e del quale temo la vendetta, allora ho paura di doverti deludere in partenza. Non ti parlerò di storie di arresti e criminali. Ti racconterò, invece, la storia del mio matrimonio. Un matrimonio decisamente fallito. E ti parlerò della mia famiglia.
“Carlos Paz e altre mitologie private”, di Marino Magliani
2 marzo 2016di Marco Candida
Prendiamo l’attacco del terzo racconto “Andante crociera”. “Con un paio di amici argentini vivevamo a Gulpen, una cittadina del sud dell’Olanda, nella regione Limburg. Un giorno, non so per quale motivo – forse perché si trovava sulle rotte del Grande Nord, o perché avevamo nostalgia delle montagne – comprammo tre biglietti per la Norvegia. Destinazione Stavanger. Il traghetto salpò al tramonto da Amsterdam, infilò il Nordzeekanaal e costeggiò la cittadina di JImuiden, con le sue case di mattoni e i bunker della seconda guerra, il porto affollato di pescherecci e gru, con la spiaggia e i quartieri di Zeewijk” O il secondo paragrafo del quinto racconto dal titolo “Un taxi a Utrecht”: “Utrecht è al centro dell’Olanda, ripeteva il professore indicandola sulla carta geografica. Utrecht, ragazzi, sta con precisione millimetrica al centro dell’Olanda e ha il campanile più alto dell’Olanda.” Poi c’è il secondo racconto dal titolo “Carlos Paz”, dove ci sono capitoletti intitolati “La Germania”, “La Spagna” oltre a “Il Piemonte”.
“Carlos Paz e altre mitologie private” di Marino Magliani fa venire voglia di pensare che dovrebbero sempre essere gli autori italiani a scrivere storie ambientate all’estero. A parte qualche eccezione come La neve nera di Oslo di Luigi di Ruscio o Norvegia di Angelo Ferracuti, e Tabucchi e Magris, i paesi stranieri ci arrivano, come sappiamo, grazie alle traduzioni. Ma se ci si riflette, un libro straniero presenta una sorta di doppio esotismo che lo rende sempre un po’ oscuro: sono stranieri, infatti, sia la storia che l’autore. Pertanto, non solo risultano stranianti le ambientazioni e i personaggi della storia, ma straniante risulta anche il modo di condurre la narrazione, la scelta di privilegiare alcuni fatti anziché altri, lo sguardo. Diventa difficile sentire una storia come realmente nostra, familiare, vicina. E invece le storie migliori sono forse quelle dove elemento familiare e fattore straniante si incontrano e confrontano trovando un punto d’intesa. Un equilibrio.
Dino Campana
4 febbraio 2016di Marco Candida
[L’articolo che segue s’intitola “Un genio da manicomio”. Appare qui su minima&moralia e qui su Atti Impuri. Ne ho parlato anche qui].
Impossibile accostarsi all’opera di Dino Campana senza concentrarsi in via preliminare su chi fosse analizzandone vita e personalità; ma, prima di far questo, si può forse tentare uno sguardo d’insieme domandandosi: che storia è quella di Campana?
Un modo per rispondere a questa domanda è affermare che si tratta della storia di un uomo che ha subito una tremenda ingiustizia. Un altro modo è rispondere affermando che si tratta di un individuo che, per varie ragioni, fra cui quella di aver ricevuto una tremenda ingiustizia, si è rovinato la vita ed è diventato pazzo.
“Sono io che l’ho voluto”, di Cynthia Collu
6 gennaio 2016di Marco Candida
[Un’intervista a Cynthia Collu autrice del romanzo Sono io che l’ho voluto, Mondadori. Ringrazio Cynthia Collu].
Descrizione. Se è vero che ogni famiglia infelice lo è a suo modo, quella di Miriam si potrebbe definire “normalmente” infelice: qualche discussione, la scontentezza del marito per il modesto stipendio da insegnante, a volte delle litigate furibonde ma sempre, dopo, la riappacificazione, la felicità del sesso, una cena fuori, un piccolo viaggio. Sebastiano ritorna premuroso, gentile, e a Miriam questo è sufficiente per tirare avanti. D’altra parte gli deve pur essere riconoscente, lui “la mantiene”, permettendole di stare a casa a occuparsi del loro bambino di tre anni, Teodoro. Un giorno, sistemando gli abiti di Sebastiano, Miriam vede uscire dalla tasca una traccia inequivocabile lasciata da un’altra donna. Inizia la lenta discesa agli inferi del sospetto, del bruciore per il tradimento, del tentativo di parlarne e dell’acuirsi della violenza di lui: maltrattamenti psicologici, all’inizio, destinati a trasformarsi presto in violenza fi sica. Un romanzo che narra con straordinaria intensità la “normalità” della violenza domestica, e i meccanismi per i quali tante donne non riescono a riconoscerla, tanto meno a ribellarvisi. Miriam, risalirà dal suo inconfessabile inferno solo quando riuscirà a guardarsi con occhi nuovi, a ritrovare l’autostima che, come lei, tante donne hanno smarrito.
1) La trama di “Sono io che l’ho voluto” è già riportata all’inizio di questa intervista. Ma ti chiedo lo stesso: di cosa parla, questo libro? Parla di violenza domestica o di sottomissione? Già il titolo “Sono io che l’ho voluto” è la tipica frase di chi sembra recitare un mea culpa trovandosi nel bel mezzo di un pantano.
Il romanzo affronta il tema di quelle che vengono definite “molestie morali” o anche “violenza domestica”. La protagonista è una donna, Miriam, bella, intelligente e colta, ma incapace di liberarsi dalla soggezione psicologica del marito, o meglio, incapace di difendersi dalle continue denigrazioni che ledono a dosi progressive la sua autostima. Il romanzo, quindi, parla soprattutto di violenza psicologica all’interno della coppia, violenza sommersa, che coinvolge famiglie di qualsiasi ceto sociale, violenza ancora più pericolosa di quella fisica in quanto meno riconoscibile.
Per quanto riguarda il titolo mi è capitato di sentire diverse interpretazioni da parte dei lettori. In effetti, il titolo ha più chiavi di lettura. Leggendo però il romanzo mi sembra alla fine risulti chiaro che la frase è tutt’altro che un mea culpa, bensì è il grido liberatorio di una donna che si riappropria della sua autostima e dignità. Ma, come si sa, una volta pubblicato un libro non è più tuo, è del lettore, e quindi che ognuno interpreti il titolo come meglio preferisce.
Saggio su Giulio Mozzi
5 dicembre 2015di Marco Candida
[Questo articolo dal titolo Mutazioni senza storia appare già su Pupi di Zuccaro Cronache contro lo svanire. Finalmente mi sono deciso a scriverlo dopo anni di articoletti scherzosi. Qui non scherzo].
Per quanto deludente, quando arriva un cambiamento del modo di percepire la vita, la maggior parte di noi non ha alcuna storia da raccontare. Il mutamento arriva e basta. Un giorno ci alziamo persone diverse e non sappiamo dire perché. Percepiamo le cose in maniera differente da prima, ma non sappiamo rintracciare il percorso che ci ha condotto a quella mutazione. Il fatto è che succede e basta. Giulio Mozzi, nei suoi racconti, sembra proprio voler porgere all’attenzione del lettore questo aspetto. Il desiderio di Mozzi sembra, in primo luogo, quello di fermare e raccontare l’istante di crescita senza storia.
La ragazza Ruota va in pizzeria con amici. Mentre aspetta con gli amici le pizze, è piena di pensieri. Immagini, riflessioni, ricordi. In particolare la giovane donna pensa a che cosa sia passare dall’adolescenza all’età adulta. Anzi, c’è una parola più adatta: in quel momento, in pizzeria, avviene in Ruota una presa di coscienza. Pagina 35 da Il male naturale, edizione Mondadori.
Djuna si è trovata questo Carlo e per due mesi ha fatto tutto da sola senza mai parlare […] Questo è un tradimento, pensa Ruota. Non staremo più una accanto all’altra, tremanti nella tana buia, aspettando le belve. Ci tratteremo con dignità. Provocheremo ciascuna il buon giudizio dell’altra. Se ci ricorderemo per caso di quando ci amavamo e ci odiavamo senza schermi penseremo: oh, che stupide: eravamo bambine, e proseguiremo immutate, ormai immutabili. Tutto questo per Ruota non sarebbe mai dovuto accadere e non lo aveva mai nemmeno immaginato: ora è accaduto e non si può cambiare. Djuna è diventata adulta irrimediabilmente e per la prima volta oggi Ruota pensa all’adultità come a una cosa che non si può evitare ma alla quale si devono trovare dei rimedi o dei sollievi; per non morire, semplicemente.