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Note di lettura: “Il cannocchiale del tenente Dumont” di Marino Magliani.

7 settembre 2021

        

Il cannocchiale del tenente Dumont - Marino Magliani - copertina

Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma, mese di fiorile, anno CCXXIX) di Marino Magliani:  ecco finalmente un libro che conferma che ci si può ancora appassionare, che l’entusiasmo per ciò che si legge non è sensazione legata solo alla stagione lontana delle prime letture, quando occhi e intelligenza sono ancora esenti da intellettualismi e da ardite sovrastrutture mentali di critica letteraria, e quindi capaci di intercettare il piacere sorgivo di “essere dentro” il libro.

         Si tratta di un romanzo storico dalla robusta intelaiatura, ambientato in epoca napoleonica, che prende avvio da una impersonale Notizia relativa alla costituzione, da parte di Napoleone, di una Commissione di indagine sulle diserzioni verificatesi durante la campagna d’Egitto, nella quale figura anche il medico di origine olandese Johan Cornelius Zomer. Tre soldati della spedizione, il capitano Philippe Lemoine, il tenente Gerard Henri Dumont e il soldato basco Bernardo Gilbert Urruti hanno, come molti loro commilitoni, scoperto come lenire le angosce della guerra consumando una sostanza che gli indigeni chiamano hascisc, considerata dal dr. Zomer un viatico alla diserzione. Per sperimentare questa teoria, vengono perciò sottoposti a stretta osservazione. Imbarcatisi sulla nave Carrère per rientrare in patria, vengono destinati all’armata che partecipa alla campagna d’Italia. I tre, prevedendone erroneamente un esito catastrofico, disertano effettivamente durante la battaglia di Marengo, non a caso definita “la battaglia che alle cinque era persa e alle sette era vinta”.

            Con la fuga non cessa la sorveglianza, coordinata da Zomer, anche tramite un incaricato di nome Pangloss, che per mezzo di una rete di emissari, spie e informatori locali, riuscirà a rendere puntualmente conto dei movimenti dei tre fuggiaschi.

          Inizia una lunga marcia nell’interno della Liguria, con frequenti attraversamenti di improbabili confini che la bufera napoleonica aveva appena tracciato tra il Piemonte meridionale, la Liguria ed il Nizzardo. Il piano consiste nel raggiungere Porto Maurizio, per trovarvi un imbarco per qualche destinazione remota (Cipro, ma in ultimo si profila anche l’Argentina) dove ricominciare una nuova vita. Allo scopo di tenersi accuratamente lontani da ogni contatto con gli abitanti dei luoghi che percorrono, Lemoine, Dumont e Urruti peregrinano tra monti, pascoli e bivacchi, schivando transumanze e casolari di contadini, ma anche lebbrosari e pattuglie di eserciti tra loro nemici, che continuano in forma diversa ciò che Marengo non aveva concluso. Conducono una vita di stenti, si cibano di ciò che riescono a trovare nei boschi o a sottrarre ai pastori o ai contadini, dormono all’addiaccio. Smettono abbastanza presto di fare uso dell’hascisc, e a mano a mano si abituano alla loro nuova condizione di disertori, iniziano a conoscere il paesaggio, e non solo si adeguano alle sue forme, ma anche le adeguano al fondo oscuro delle loro riflessioni sul proprio destino.

         Li aiuta il cannocchiale del tenente, attraverso il quale scrutano incessantemente l’orizzonte sempre circoncluso da coste di colline, meraviglioso per il paesaggio da cui è colmato, ma anche sempre troppo angusto per le loro aspirazioni di libertà, e soprattutto per il loro interrogarsi sul futuro.

         L’occhio, attraverso il cannocchiale, contempla un paesaggio monotono nel suo splendore, se non per il volgere lento delle stagioni, e non incrocia quel confine che  i tre sperano di attraversare. E’ vincolato al pezzo di terra o di bosco su cui lo strumento è puntato, ma la mente dei soldati aspira ad una visione che è altra (metafora piuttosto trasparente di una specifica condizione umana di latente inquietudine esistenziale): il mare, sempre troppo lontano, ombra irraggiungibile, ma presente come visione: “il capitano diceva che non importa se il mare non appare, in Liguria; c’è lo stesso, dappertutto, è incollato alle foglie delle palme, alle pietre”. La dicotomia tra occhio e mente risalta così nella disarmonia struggente tra la visione a cui i tre anelano e la relativa immobilità del presente.

         Ed in vista del mare arriveranno, guidati da Lemoine, che, per aver combattuto nella zona qualche anno prima, ostenta una sicura conoscenza dei luoghi, espressa a volte in forme oscillanti tra il sentenzioso ed il visionario. Un segreto desiderio lo anima, forse Urruti lo conosce, ma il tenente Dumont ne resterà estraneo per tutto il viaggio. Al progressivo diminuire della sua lucidità corrisponde una crescente disponibilità di Dumont all’osservazione meticolosa del paesaggio, fino a riempirsene gli occhi, e naufragare in esso, nella tensione di cogliere ogni possibile significato da ogni suo infinitesimale elemento.

            Alla fine, la vicenda si dipanerà, per progressive accelerazioni, ci saranno conti da saldare, vite da recuperare, sentimenti da coltivare con cura: il tempo delle vicende umane scorre a velocità proprie e non prevedibili, diverse da quelle che disciplinano lo scorrere delle stagioni sulle aspre alture liguri, e ognuno dei tre soldati incontrerà un destino diverso.

         La storia ci viene consegnata come complesso narrativo originato da più fonti: la  “Cronaca di una diserzione” è il racconto della diserzione di Dumont, Lemoine, Urruti, arricchita dalle “Carte del dottor Zomer”, in forma di appunti e di epistolario; seguono “La Cronaca di Baldiueri”, personaggio dalla identità non dichiarata, ma facilmente smascherabile, e in chiusura, un “Taccuino del dottor Zomer”.

         La composizione del tessuto del romanzo, fondata com’è su documenti così eterogenei, contribuisce a rafforzare la verosimiglianza della storia narrata, ancorandola ad elementi storici (o parastorici). Unitamente all’uso del presente, ne facilita anche in via indiretta l’attualizzazione, consentendo una lettura in filigrana che supera l’ambito cronologico. Non si tratta tanto della diserzione, presumibilmente traslabile ai nostri giorni come tentazione di abbandonare schieramenti politici e culturali che non colmano le richieste di senso che i tempi sollecitano. Si tratta anche della facoltà di traguardare oltre un destino collettivo in cui pare percepirsi, allora come oggi, l’ineludibilità di un naufragio imminente.

         Ma più che per gli aspetti strutturali che lo caratterizzano o per gli itinerari interpretativi che suggerisce, il Cannocchiale impressiona per potenza di scrittura e per finezza stilistica. Magliani, infatti, marchia a fuoco l’immaginazione di chi legge, donandogli una storia epica certo non così consueta nella nostra narrativa contemporanea. La storia dei tre disertori è avventura pura, quella che toglie il fiato e occupa ogni aspettativa sul domani, e coinvolge tutte le risorse fisiche, ma anche e soprattutto psicologiche, di coloro che la vivono. Per Magliani, così come per Conrad, l’ avventura non è fine a se stessa, gusto del rischio o senso della sfida. E’, invece, occasione di svelamento di se stessi in un aspro confronto con il mondo, rivelazione esistenziale di parti di sé nascoste nel profondo. Ai tre soldati la lunga cavalcata sui monti dell’interno ligure offre il destro per aprirsi sulla loro nuova condizione di disertori, che assume significati che trascendono l’episodio contingente: “perchè disertore non significa mica sbandato, uno sbanda e bene o male si risolve, ma disertare è qualcosa che non finisce, diventa una missione, una carriera. Un grado. A uno dovrebbero scriverlo sulla pietra. Gerard Henry Dumont. Disertore”.

         “Disertore non significa mica sbandato”: certamente è così, se oltre alla sopravvenuta insopportabilità dell’orrore della guerra, il vagabondare dei tre fuggiaschi è sostenuto dall’anelito ad una sperata nuova tollerabilità del vivere, da raggiungere, alla maniera dell’hemingwayano tenente Henry, attraverso un addio alle armi personale, come se fosse mai possibile stipulare una qualche forma di pace separata.

         Nel Cannocchiale colpisce l’equilibrio assoluto raggiunto tra l’oltranza descrittiva e il respiro epico della narrazione. La straordinaria limpidezza di scrittura di Magliani riesce a far vivere il paesaggio, gli attribuisce misteriosi rimandi  E’ evidente lo sguardo al Biamonti maestro di descrizioni di paesaggi liguri (ma anche a tratti al Boine estimatore del valore non solo estetico ma anche e soprattutto etico degli uliveti liguri). Rimane comunque ferma l’attenzione alla storia narrata, in Biamonti a volte poco più di un pretesto per dire altro; per dire le radici di un uomo nel suo mondo, la capacità di trarre dalla terra dove si nasce i modi di sentire la vita che ci circonda e nella quale siamo immersi.

         Qui c’è anche la perfezione del meccanismo narrativo, che attrae e stupisce,  che è costruito sul poco, ma che ad ogni pagina si rinnova, propone svolte nel racconto, a volte minime, a volte perfino difficilmente distinguibili.

         D’altro lato, in Magliani il paesaggio non può segnare i caratteri dei protagonisti, come in  Biamonti: nessuno di loro lo ha vissuto nell’infanzia, nessuno ha origini familiari nei luoghi narrati. Piuttosto, qui il paesaggio viene progressivamente abitato dai tre fuggiaschi, che ne divengono sia osservatori via via sempre più attenti, sia veri e propri elementi costitutivi, alla stessa stregua dei pastori e dei contadini che lo popolano, assorbendone gradatamente l’essenza aspra e scontrosa. Qualcosa di vagamente simile sperimenta anche l’ussaro Pardi di Giono, nel suo vagabondare per terre non distanti da quelle descritte in questo romanzo.

         Ed allora il paesaggio diventa desiderio, emozione, dialogo: “Un vapore annunciava qualcosa, e dietro il buio li aspettava l’aurora degli ulivi. Sono di un muschio azzurro e coprono le fasce fin sui costoni di fronte. Il mare non c’è nemmeno oggi,  in qualche  modo le onde degli alberi sostituiscono il contraltare liquido. Risaltano  strutture di diamanti, sentieri, crepe, da cui emergono gruppi di tetti di ardesia. Al mare degli ulivi manca solo il mare, ed è davvero come se fosse nell’aria, nei colori.”

         Il paesaggio, in Liguria, come insegnano anche alcuni tra i suoi autori più illustri frequentati da Magliani, forma l’uomo che lo abita: ”Qui la vita è mica nient’altro, compimento delle stesse cose severe e sofferte, un’unica attesa, in mattinata s’aspettano le campane di mezzogiorno, la sera quelle dell’Ave Maria, e il resto si fa fatica, preghiera da buio a buio. Poi a un certo punto le mulattiere assomigliano a colonne di formiche ed esce la luna”.

         Più passa il tempo, più la natura pare compassionevole verso i fuggiaschi: “lo spettacolo della natura, fin su per le fiancate, è in ciò che manca: il colpo di luna sulla rugiada; e in ciò che si sente: il filo d’acqua del corso e la brezza e poco lontano le rane…I giorni dell’attesa non si ripetono come il resto, non si danno il cambio, è solo come se allungassero un rantolo. Se sommassero paure”.

         Anche dal mare, finalmente visibile in lontananza, possono echeggiare emozioni umane, consentanee al momento vissuto: “…lo stesso avviene al largo: la pelle del mare si chiazza di terra che sale dai fondali e si sgretola dagli scogli, raccoglie i colori delle palme e degli ulivi, e delle dolcezze dei dossi prativi, delle sabbie. Della noia.”

         Magliani concentra l’attenzione sul singolo gesto, traendone significati che superano l’immediato. Il carattere dell’uomo è nella sequenza di gesti che compongono il suo agire. Magliani si compiace del gesto, vi si adagia, nella sua curvatura individua a volte una sicurezza, a volte un modo di esporre se stessi. Stare dentro il gesto è come stare dentro la vita che ci tocca, espletare un destino. “Tornati al bivacco,  Urruti affila la baionetta sulla pietra di cote, si avvicina alla riva e si rasa alla bell’e meglio. Gli stracci di divisa cantano, le labbra sempre riarse, e la ferita alla fronte che non secca, ma lui si rade lo stesso regolarmente, è la prima cosa che fa quando si fermano su una riva. Lemoine si sveglia: “le tracce della rassegnazione, basco, non le cancella una barba fatta.”  C’è,  a volte, un gesto che ci definisce, che supera il momento contingente in cui avviene, che, nella memoria altrui, può proiettarci oltre l’oblio cui siamo destinati. Per il tenente Dumont arriva quando consegna l’ultimo bottone della sua divisa: “(il bambino) se ne andò che i licheni dormivano ancora sotto la neve, e quando lo seppellimmo nel luogo recintato e pieno di crocette che l’aspettava, prima di coprirlo con la terra nera che nella notte avrebbe accolto altra neve, vidi Enrico chinarsi sulla piccola morte, mettergli in mano il bottone, e stringergli le dita.”  Anche noi, come l’autore, vorremmo credere che sia lo stesso bottone ritrovato due secoli dopo di cui abbiamo notizia dall’elenco iniziale dei materiali che hanno costituito questo racconto.

         Il cannocchiale del tenente Dumont, nonostante il fatto che la storia si dipani attraverso un percorso di avventure su sipari ottocenteschi, riesce a comprimere al minimo possibile la distanza che separa il lettore dalla materia narrata, dandoci contemporaneamente notizie, in via indiretta, del nostro vivere e suggerendo modi di leggere il mondo in cui viviamo: i paesaggi, in primo luogo, ma anche il modo di tentare di decifrare natura e stati d’animo, e di capire se e ed in quali circostanze sia possibile definire un continuum tra questi due elementi tra cui si aggirano i nostri sguardi, quello interiore e quello  esteriore. Per l’ampiezza del respiro narrativo, per l’opulenza degli spunti che ne derivano, per la straordinaria capacità evocativa di pagine che affastellano colori suoni sensazioni di un tempo che non ci appartiene ma che inopinatamente ritroviamo come nostri, Il cannocchiale del tenente Dumont può iscriversi a pieno titolo nella ristretta categoria dei romanzi imprescindibili, quelli in grado di ampliare, anche in modo appena percettibile, gli orizzonti che delimitano i nostri sguardi  di lettori.

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Dimmi chi leggi e ti dirò chi sei

27 gennaio 2016

Due scrittori a confronto

Due scrittori a confronto

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci (vedi qui la sua “storia di formazione”) ha pubblicato: Terremoto, Terre di mezzo 2010 (vedi); La dissoluzione familiare, Indiana 2012 (vedi); Breve storia del talento, Mondadori 2015].

Tempo fa postai su Facebook, per gioco ma nemmeno troppo, una frase in cui Cormac McCarthy disprezzava Marcel Proust, e aggiunsi di ritenere il francese inferiore a Dostoevskij: valanga di commenti, educati ma accalorati. Proust rappresenta oggi una delle poche figure letterarie davvero indiscutibili, un totem, un imperativo categorico, per tanti addetti ai lavori “il più grande scrittore di ogni tempo.” Ciò è indice, credo, di un’epoca oramai del tutto mondana e secolare; ma non è questo il punto.

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Che cos’è “Il quinto evangelio”?

26 ottobre 2015

di Enrico Macioci

[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Che cos’è Il quinto evangelio di Mario Pomilio? Alla domanda si può rispondere in almeno due maniere.

Anzitutto consideriamo l’oggetto narrativo. Pomilio lo pubblicò dopo prove quali L’uccello nella cupola, Il testimone, Il nuovo corso, Il cimitero cinese, e dopo un lungo blocco durante cui stese saggi e riflessioni e maturò risposte profonde alla sua crisi di uomo e scrittore, allestendo l’officina e forgiandosi gli strumenti per edificare il capolavoro. Veniva da un decennio di stasi creativa che lo portò ai confini del silenzio, e Il quinto evangelio rappresentò la svolta attraverso cui ribaltare le difficoltà in risorse e l’afonia in una diversa, più potente voce. Accade abbastanza spesso, del resto, che un autore consacri il proprio genio attraverso un solo, grande libro – pensiamo a Dante, a Melville, a Musil; è anche il caso di Pomilio.

Il quinto evangelio venne pubblicato nel 1975 (lo stesso anno in cui uscì Horcynus Orca di D’Arrigo), dunque in pieno postmoderno; tuttavia esso riassume, forse più di qualsiasi altro testo narrativo in Italia e in Europa, la migliore essenza postmodernista per poi scavalcarla. Si tratta cioè di un’opera aperta, metatestuale, labirintica, autoriflessiva, debordante, ramificata, potenzialmente infinita; è l’opera di un autore assai consapevole; è colta; ama gli intrighi; mette e si mette in scena; è insomma un’opera intelligente, che richiede al lettore una collaborazione attiva e quasi una co-creazione. Ciò che invece manca di postmoderno – mancanza che non stona e anzi aggiunge merito a Pomilio – sono l’ironia e il disincanto che finiranno per divorare parecchi scrittori a venire, determinando la deriva nichilista che Foster Wallace, già nella seconda metà degli anni ’90, denunciò con toni piuttosto allarmistici. Non si può scherzare (per) sempre, e Pomilio nel suo romanzo non scherza. Del resto Il quinto evangelio parla della questione delle questioni, la questione che per brevità potremmo chiamare del Libro. Quale prova più ustionante per uno scrittore?

Qualche titolo, in breve.

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La formazione dello scrittore, 31 / Ivano Porpora

19 febbraio 2015

di Ivano Porpora

[Questo è il trentunesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Ringrazio Ivano per la disponibilità. Le due rubriche ormai escono irregolarmente, seguendo l’arrivo dei contributi. gm]

Domenica è morta mia nonna Teresa.
Aveva 86 anni e andava per gli 87. La testa, ormai, andava e veniva. Quando veniva diceva cose come: È ora che io vada. Non parlava di essere stanca o meno, ma di necessità; e in questo è stata la nonna di Correggioverde, in provincia di Mantova. (Per quella di Napoli ricordo sempre una delle due imprecazioni più divertenti che abbia sentito in vita mia, un giorno che la esclusero da un problema tenendola all’oscuro di quanto stesse realmente accadendo: Azz, cazz e stracazz).
Quando la testa andava, la nonna Teresa diceva: C’è il prete nell’aia – e non c’era nessuno –, oppure: C’è il nonno, e il nonno sono due anni che è morto.
Ho assistito alla cerimonia funebre, officiata da un prete cieco, in una panca della terza fila della chiesa di Dosolo. Quella di Correggioverde, una chiesolina di campagna, è inagibile dal terremoto. Quando sono arrivato al cimitero che stava proprio di fronte alla casa della nonna, nel mio dolore di petto causato dalla bronchite, ho pensato: Se ne vanno radici che non ho mai voluto. Un pensiero patetico.
Poi ho visto l’inserviente del cimitero darsi da fare come un pazzo con la pala per caricare dal cumulo di terra quanto più peso, e rovesciarlo sulla bara; caricare e rovesciare; caricare e rovesciare. Quando l’inserviente, dai capelli bianchi, si è girato, ho scoperto che non di quello si trattava ma di mio zio Ivano. Aveva detto al vero inserviente di farsi da parte, e con un’intelligenza che gli è tutta nelle mani, e che sempre e solo nel lavoro si è rivelata, ha deciso che l’addio a sua madre avrebbe dovuto darlo in un modo solo: con il lavoro. Ci sono volute le insistenze dei fratelli, e alcuni minuti di sessanta secondi l’uno, per fermarlo.

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La formazione dello scrittore, 25 / Flavio Santi

13 novembre 2014

di Flavio Santi

[Questo è il venticinquesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Flavio per la disponibilità. gm]

Domanda. Si può amare la scrittura avendo come stella polare questa frase di Joseph Conrad: “Il peggior nemico della realtà sono le parole”? Io volevo dipingere. Anzi, no. Disegnare fumetti. Fare il liceo artistico e poi chissà (oltre a voler fare il calciatore nelle file dell’Udinese). Invece a metà terza media – dopo che il mio rendimento scolastico era calato bruscamente, frequentavo teppistelli, importunavo vecchiette per strada e prendevo una nota sul registro a settimana – trovo un’antologia scolastica di mio padre ferroviere (i miei non leggevano, un po’ mio nonno materno che non ho mai conosciuto ma che mi ha lasciato in eredità un bel po’ di Bur grigi stagionati). Iliade e Odissea. Nelle traduzioni neoclassiche di Vincenzo Monti e di Ippolito Pindemonte. Traduzioni che oggi troverei indigeribili, al limite dell’illeggibilità, guarda tu che effetto sortiscono su un povero tredicenne. “… contra i Greci / pestiferi vibrò dardi mortali”, “Nove giorni volâr pel campo acheo / le divine quadrella”, “E come quando di Favonio il soffio / denso campo di biade urta” ecc. ecc. Basta poco e mi innamoro delle parole. Non voglio più giocare a calcio – l’allenatore della Pozzolese viene sotto casa a implorarmi di giocare, e io niente – manco dei fumetti me ne frega più e mi metto a studiare come un forsennato latino e greco. Gli anni del liceo. Spesso mi capita di fermarmi a pensare a quegli anni di letture totalizzanti e mi domando, un po’ inebetito dai ricordi: Lo rifarei? Lo rifarei di leggere per tutta la notte le tragedie di Seneca, le commedie di Plauto, gli annali di Tacito? Con mio padre che rientra a casa dal turno di notte, mi trova chino su Orazio e mormora sconsolato: “Ho un figlio cretino…”? Sì, probabilmente lo rifarei. Lì scopro la bellezza della traduzione (oltre a tante altre cose, però quei primi esperimenti dal greco e dal latino in italiano sono inebrianti).

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La formazione dello scrittore, 24 / Enrico Macioci

10 novembre 2014

di Enrico Macioci

[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]

La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.

La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.

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La formazione dello scrittore, 10 / Marco Candida

24 luglio 2014

di Marco Candida

[Questo è il decimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Marco per la disponibilità. Con questo articolo la rubrica va in vacanza: riprenderà giovedì 4 settembre con il contributo di Raul Montanari. gm]

Marco CandidaHo scritto il primo romanzo a dodici anni. 1990. Quell’anno passavano in televisione la serie televisiva Twin Peaks. Avevo visto La Casa Russia con Sean Connery e Michelle Pfeiffer. A scuola leggevamo in classe Zanna Bianca di Jack London e avevo trovato presso le bancarelle in Piazza Duomo a Tortona Martin Eden e Il richiamo della foresta nell’edizione cartonata e molto voluminosa dei Fratelli Melita. Il richiamo della foresta è stato un grande libro, ma Martin Eden è stato un libro che ha rappresentato per me, come per molti altri, un caposaldo. Casa Russia. Twin Peaks. Martin Eden. Ricordo d’essermi seduto per la prima volta alla scrivania nella mia stanza soprattutto con le suggestioni e le atmosfere date da queste storie nella testa – come non rimanere suggestionati dalla colonna sonora composta da Angelo Badalamenti per la serie televisiva girata da David Lynch? E’ venuto fuori un romanzo lunghissimo scritto in sei mesi con tre diversi tipi di penne (una penna biro blu, una Bic nera e poi un bavoso tratto pen) in un quadernetto con la copertina rigida (che recava l’immagine della maglietta della Juventus con qualche adesivo acquistato in un negozio sottocasa dal nome Chewing-gum, vera e propria oasi di colori, plastica e gomma nel grigiore paludoso, di pietra e di stucco, della mia città natale) con fogli a spirale a quadretti e poi a righe. Ora che lo riguardo mi accorgo come nel quaderno i caratteri della grafia diventino sempre più piccoli man mano che la narrazione procede. Più il romanzo si scioglie e diventa solo una storia e non il tentativo di un ragazzo di scrivere, di fare lo scrittore e più la grafia si rimpicciolisce, cosa che forse suggerisce una forma di pudore: nelle parti dove non stavo facendo lo scrittore, ero soltanto me stesso con una penna e dei fogli e questo mi procurava imbarazzo, e scrivevo piccolo per rendere quello scritto accessibile solo a me, comprensibile solo ai miei occhi e a nessun altro sguardo occasionale – mi figuravo i miei genitori curiosare tra le mie cose e poi me li figuravo leggerle agli Elemento o ai Taverna o a Piero e Assunta. Ciò che è davvero interessante del quadernetto si trova nella prima pagina. C’è una griglia con un calcolo approssimativo del numero di parole all’interno del romanzo. Se non ricordo male era un discorso letto per la prima volta proprio presso Jack London. Tenere conto del numero di parole in uno scritto. Mi stupisce ora pensare che un ragazzino di dodici anni si appassionasse a dettagli come calcolare il numero di parole dei suoi romanzi perché è una questione molto molto tecnica – e nemmeno particolarmente praticata presso i più affermati scrittori nostrani. Di qua avevamo un ragazzo che aveva attaccato il suo romanzo con la descrizione del canto del gallo, delle foglie nella rugiada, l’alba e di là lo stesso ragazzo vedeva tutte quelle cose con sguardo aritmetico, considerava ogni emozione e palpito dato dalla prosa come quantità.

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La formazione dello scrittore, 6 / Flavio Villani

26 giugno 2014

di Flavio Villani

[Questo è il sesto articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Flavio per la disponibilità. gm]

flavio_villaniPioveva forte. Di questo sono certo. Ricordo le sensazioni ancora oggi, a distanza di quarant’anni. Mi basta chiudere gli occhi e in un attimo, ecco: la felicità, l’appagamento, il calore del letto, il-libro-stretto-fra-le-mani.
Ricordo bene anche le pagine: un bianco strano, ingiallito, rassicurante, le illustrazioni ricche di dettagli affascinanti da scoprire poco a poco, e per la prima volta niente mamma o papà a leggermi la storia serale, quella di cui avevo bisogno per addormentarmi…

Ma a ripensarci, no, forse non pioveva affatto, e i miei genitori mi spediscono malamente a letto rifiutandosi di leggermi l’ennesima storia alla ormai veneranda età di otto anni. Leggi da solo, mi dicono, ormai hai l’età per farlo.

Morale: dei ricordi non ci si può fidare. Neanche un po’. Questo, per me, è uno dei pochi fatti certi della vita. Troppo labili. Il più delle volte ci si illude. Si ricama. Ci si convince. Ecco che la banale biografia diventa mito.

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