di giuliomozzi
I due genitori conviventi di un bambino di tre anni sono andati in Comune – in provincia di Bologna – e si sono sposati. La madre del bambino ha dichiarato, come riportato da un quotidiano:
Lo Stato ci costringe a farlo per tutelare la nostra salute e nostro figlio. Era l’unico modo. […] Ci siamo sposati per tutelare nostro figlio e perché le leggi dello Stato Italiano non garantiscono l’assistenza e la facoltà decisionale della compagna e del compagno di vita in caso di gravi malattie che purtroppo possono capitare a tutti. […] Trovo una pagliacciata tutto ciò che ruota attorno ad un contratto.
Un giudice del Tribunale ecclesiastico di Bologna (nonché avvocato) ha scritto, in un articolo apparso nel settimanale diocesano (ma cito da qui, non riuscendo a trovare l’articolo in rete):
Non si può decidere di sposarsi solo perché così si ottengono diritti e benefici che diversamente, non si avrebbero secondo la legislazione vigente. Così tutto perde il suo senso, diventa un pro-forma, una farsa, una simulazione: per l’ordinamento italiano quel matrimonio è nullo, così come è nullo il matrimonio celebrato al solo fine di acquistare la cittadinanza. Il senso di celebrare il matrimonio non può stare nella ricerca di una tutela istituzionale. […] Ridurre il matrimonio a un contratto significherebbe adulterarlo, come quando al buon vino si aggiunge l’acqua! E le istituzioni devono avere a cuore il matrimonio proprio per questo.
Se “la facoltà decisionale della compagna e del compagno di vita in caso di gravi malattie” può essere garantita solo dal matrimonio (e non, mettiamo, da vent’anni di amorosa convivenza), mi pare evidente che è l’ordinamento stesso a spingere verso il – chiamiamolo così – “matrimonio per tutela”. E che l’unico modo per far sì che non avvengano “matrimoni per tutela” è fare una legge che preveda “la facoltà decisionale della compagna e del compagno di vita in caso di gravi malattie”. Il nostro Parlamento ci sta lavorando, da anni, con estrema riluttanza.
La crudeltà esibita dal giudice del Tribunale ecclesiastico (e, visto il luogo della pubblicazione, avallata dalla Curia: suppongo) mi pare decisamente fuori luogo (sempre che la crudeltà possa, in qualche occasione, essere in luogo). Queste due persone, che si amano e vivono insieme e hanno un figlio, vogliono solo essere trattate in certe situazioni come se fossero ciò che sono: due persone che si amano e vivono insieme e hanno un figlio. C’è un modo per ottenere questo? Sì, uno solo: sposarsi. Che devono fare, dunque, queste due persone?
Queste due persone avrebbero potuto fare altrimenti. Avrebbero potuto, per esempio, sposarsi e stare zitte. Come gli amici miei che si sono sposati per accedere alle agevolazioni sul mutuo per la casa. O il mio anziano vicino che non potendo remunerare decentemente la badante l’ha sposata e l’ha resa erede dell’unico suo bene: la casa. O un celebre scrittore che adottò il compagno. Spesso l’ipocrisia – anche quella minore, fatta solo di omissione – rende più semplice l’esistenza.
Invece queste due persone hanno deciso di parlare, e secondo me hanno fatto bene.
(Ah: è vero che nell’ordinamento giuridico italiano il matrimonio non è un contratto, bensì un negozio giuridico. Ho l’impressione che negli ultimi decenni la popolazione italiana lo abbia sempre più percepito come un contratto).