di giuliomozzi
Dal sito di Eugenia Roccella, sottosegretario al ministero della Salute.
Comunicato stampa, 26.11.2010. E’ molto importante, in particolare in questo momento di acceso dibattito, che dal prossimo anno il 9 febbraio sia la Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi. A volerla fortemente sono state le associazioni dei familiari delle persone che vivono in questa condizione, che hanno lavorato al Libro Bianco del Ministero della Salute. Questa data ricorda a tutti noi l’anniversario della morte di Eluana Englaro, una ragazza affetta da disabilità grave la cui vita è stata interrotta per decisione della magistratura. Con questa giornata il ricordo di Eluana non sarà più una memoria che divide ma un momento di condivisione per un obiettivo che ci unisce tutti. Da oggi sarà un’occasione preziosa in più per ricordare a tutti noi quanto è degna l’esistenza di tutti coloro che vivono in stato vegetativo e non hanno voce per raccontare il loro attaccamento alla vita. Questa giornata sarà anche un appuntamento per fare il punto scientifico su tutte le scoperte su queste situazioni di cui sappiamo ancora troppo poco. E potrà rappresentare una finestra di visibilità per queste persone e le famiglie che le accudiscono amorevolmente, troppo spesso coscientemente accantonate dai media che si rivolgono al grande pubblico, come ha dimostrato la recente vicenda della trasmissione “Vieni via con me”. (Vedi).
Propongo di istituire, in una data qualsiasi, una Giornata Nazionale per le Persone in Stato Vegetativo. Invito il Ministero della Salute a pubblicare in rete il Libro bianco del quale parla Eugenia Roccella. Visto che – basta un controllo con un motore di ricerca – l’unico documento pubblicato in rete nel quale (alle 23.10 di venerdì 3 dicembre 2010) compaiono le parole “Libro bianco del ministero della salute” è, appunto, il succitato comunicato stampa. (Aggiunta: il libro è in rete, e s’intitola Libro bianco sugli stati vegetativi. Mi scuso per non esserci arrivato prima). Invito inoltre Eugenia Roccella a esplicitare quale sia l’ “obiettivo che ci unisce tutti” (e, in subordine, come fa lei a sapere che tale obiettivo effettivamente “unisce tutti”). Domando infine a Eugenia Roccella che cosa sarà nell’essenziale questa giornata, visto che sarà “anche“, ma solo “anche”, per l’appunto, “un appuntamento per fare il punto scientifico su tutte le scoperte su queste situazioni di cui sappiamo ancora troppo poco”. Agli eventuali rètori in ascolto chiedo di valutare l’espressione “una ragazza affetta da disabilità grave”, riferita alla ragazza Eluana Englaro: si tratta di eufemismo, di delicatezza, o di crudeltà mentale? (escludo l’ipotesi più terra-terra, ossia che il sottosegretario Eugenia Roccella non sappia chi è stata, e qual è stata la storia di, Eluana Englaro). Agli eventuali giuristi in ascolto chiedo lumi sull’espressione: “la cui vita è stata interrotta per decisione della magistratura”: la magistratura non aveva forse stabilito che la volontà di non continuare a vivere in determinate condizioni – quelle nelle quali effettivamente si è trovata per diciassette anni a vivere – apparteneva appunto alla ragazza Eluana Englaro? E se così è, non è semplicemente una falsità sostenere che l’interruzione di quella vita è stata “decisa dalla magistratura”? E la frase in questione non sarà semplicemente un modo come un altro per denigrare – con un’affermazione falsa – la magistratura, così poco simpatica al datore di lavoro del sottosegretario Eugenia Roccella?
Con tutto questo: ben venga una giornata di riflessione. Ma mal verrà una giornata di riflessione le cui conclusioni sono anticipate – e prego di notare: per via allusiva, dàndole per scontate, senza formularle, per mezzo di affermazioni false – tre mesi prima della giornata stessa, dall’organizzatore.
E, già che ci siamo: due anni fa l’attuale governo tentò di emanare addirittura (senza sentire il bisogno di una giornata di riflessione) un decreto legge sul “fine vita”; non potendolo fare, tentò una legge – diciamo così – per direttissima. La ragazza Eluana Englaro morì però troppo in fretta perché il settimo cavalleggeri governativo, mobilitato solo nel momento in cui non c’era più niente da fare, potesse appunto fare qualcosa. Da allora, l’urgentissima legge è sparita dall’agenda del governo: può spiegare il sottosegretario Eugenia Roccella questa sparizione?
(Domanda collaterale: a quale ennesima misdirection stiamo assistendo?).
Per finire: indubbiamente le persone e le famiglie che accudiscono amorevolmente le persone amiche e/o familiari in stato vegetativo vengono “troppo spesso coscientemente accantonate dai media che si rivolgono al grande pubblico”. Personalmente condivido quanto ha scritto, in riferimento a un recente programma televisivo, Valter Binaghi (qui). Nella mia memoria ho storie di persone che hanno per amore deciso di far terminare la vita della persona amata e storie di persone che hanno per amore accudito fino a situazioni estreme la persona amata: in questi e in quei casi con il consenso e la gratitudine della persona stessa – quando questa era in grado di esprimere un consenso e comunicare la gratitudine.
La mostruosità di questi potenti – intendo il sottosegretario Eugenia Roccella e tutto il branco al quale ella appartiene – sta in gran parte nella loro abilità nel mescolare il vero e il falso, col risultato di trasformare qualunque vero in una perversione. La speculare sindrome dei loro oppositori finisce di guastare quanto di vero eventualmente fosse rimasto in giro. Ed è tanto continuo e ostinato, questo esercizio compiuto dall’una e dall’altra parte, che perfino io – l’uomo più pedante dell’emisfero occidentale – non ne posso più, e provo solo disgusto. Tanto disgusto da rischiar di perdere anche la traccia, l’odore, di quel poco di vero che c’è.
E che, credo, è questo: ci sono situazioni nelle quali solo chi è lì, chi è vicino, chi è implicato, può prendere una decisione. Ed è impossibile che chi non è lì, chi non è vicino, chi non è implicato, possa capirci qualcosa – e tantomeno giudicare.
Tag: Eugenia Roccella
3 dicembre 2010 alle 23:39
è proprio così – credo – che ci si dovrebbe porre nei confronti del “nostro” branco: opponendogli una lucida analisi, impietosamente rigorosa e chirurgica, senza arrivare agli insulti o alle espressioni offensive (soprattutto perché non solo sono inutili, ma ha imparato perfettamente, il branco, dico, a usarle contro chi li utilizza, ottenendo di solito un vantaggio)
4 dicembre 2010 alle 07:40
Il punto centrale è il rispetto. Il rispetto della libertà individuale. Singolare che, da una parte politica che fa motivo di vanto l’appropriazione del concetto di libertà, non venga conseguentemente applicato un principio base, direi cardine, della libertà individuale (quello di decidere come quando andarsene).
Purtroppo, come giustamente hai sottolineato anche tu, non è che dalla sponda opposta si adottino argomenti in grado di depotenziare questa pretesa. Col risultato, sotto gli occhi di tutti, di buttarla in caciara e finire come sugli spalti di uno stadio. Ognuno ad urlare dalle rispettive curve.
Salvo dimenticarsene, a partita finita.
4 dicembre 2010 alle 08:21
“Principio base”, Cletus, che io stento assai a condividere – nel modo in cui è rappresentato più spesso: che è poi il modo più radicale. Credo di non aver mai deciso nulla, nella mia vita, da quando sono in grado di decidere qualcosa, senza tener conto degli affetti, degli interessi, delle aspettative, dei bisogni, eccetera, di altre persone.
Se ragioniamo in termini di “libertà individuale”, dobbiamo ragionare anche in termini di “responsabilità individuale”. Un padre con figli da mantenere – faccio un esempio terra terra – non può andarsene come e quando vuole: può andarsene solo dopo aver provveduto al mantenimento dei figli negli anni futuri, e dopo averli preparati (nei limiti del possibile) alla perdita.
Sennò, ci ritroviamo con padre liberale felicemente suicida e figli orfani socialdemocraticamente a carico della collettività.
4 dicembre 2010 alle 08:55
Opino che però, siccome in questo bel giochino in cui siamo tutti presi la discriminante è la produzione di reddito, dubito che chi si trovi in quelle condizioni (fine vita, accanimento terapeutico) sia in grado di produrne.
In coda; cito quest’esempio illuminante. Anni fa un mio collega ebbe un incidente piuttosto serio. Quando lo andai a trovare (malconcio, camminava su stampelle) disse, non fare come me, fatti subito un’assicurazione aggiuntiva per i fatti tuoi. L’assicuratrice, davanti la quale mi sedetti per concordare la polizza, disse molto pacificamente “fai attenzione: il problema non è solo assicurarsi sulla vita. Se te ne vai, amen. La tua famiglia (posto che me ne sia rimasta una, ma una figlia si) non avrà il tuo reddito. Ma se ti infortuni seriamente oltre a non avere reddito diventerai un costo, perchè dovranno provvedere a te. Giusto.
Ora, in tutto sto ragionamento economico, vorrei semplicemente sostenere che la scelta di porre fine all’accanimento terapeutico spetta al soggetto.
Il ritratto che citi nel tuo commento qui sopra, oltre a far sorridere per l’ossimoro “felicemente suicida”, del resto sembra attagliarsi a situazione generale di disagio. Converrai che chi decide di mettere in atto un suicidio non sia nelle condizioni democratiche di rendersi edotto di tutto il paradigma da te illustrato. Qui, mi sembrava, non si parlava di suicidio generico. Meglio sarebbe dire eutanasia. In questo caso concordo pienamente con le tue affermazioni.
4 dicembre 2010 alle 10:41
Ho scritto qualche tempo fa una “Fiaba Moderna” dedicata ad Eluana Englaro e alla sua triste vicenda: “Luanella Fontanabella”…
http://www.box.net/shared/19576t79q6 …
Sarei felice di poterla far leggere alla signora Eugenia Roccella… E a chi sfrutta in malissima fede, per puri scopi politici, il dolore altrui… ps: ho “apprezzato”, o meglio stimato, il gesto di Mario Monicelli, che è risultato chiarissimo a chiunque lo conoscesse personalmente…
4 dicembre 2010 alle 10:56
E quindi, Cletus, se ne conclude che: in un discorso che assume a paradigma la “libertà individuale”, solo chi è almeno benestante può prendersi la responsabilità di andarsene responsabilmente come e quando vuole. gm
4 dicembre 2010 alle 11:08
affatto, e ritengo di averlo espresso malissimo, volevo proprio prescindere dalla dimensione economica e riconsegnare, per una volta, all’idea di essere umano (a prescidere dal suo Modello Unico o 730 che sia) la libertà di decidere cosa farne della propria vita, trovo fuorvianti (o comunque non centrali) discorsi ricolleganti al reddito.
4 dicembre 2010 alle 11:15
La Roccella sostiene che ancora sappiamo “troppo poco” sulla “vita” vegetativa di chi si trova in quella condizione. Dal momento che non credono a ciò che molti medici ed infermieri constatano tutti i giorni, propongo ai sostenitori della “vita ad ogni costo” di aspettare che una di queste persone, anzichè morire dopo anni di incoscienza, si risvegli e ci racconti la sua esperienza e cosa avrebbe voluto mentre era in quello stato. In alternativa, la persona deceduta dopo anni di “vita” vegetativa potrebbe mettersi in contatto con noi dal paradiso ultraterreno nel quale evidentemente i sostenitori della “vita ad ogni costo” credono. Allora, e solo allora, le dichiarazioni di questi signori potranno considerarsi legittimate.
4 dicembre 2010 alle 11:23
Vorrei far notare questo: la decisione di istituire una giornata dedicata allo “stato vegetativo” (e non alle persone, come fa notare Giulio) è discutibile di suo, ma può comunque sensibilizzare su un problema effettivo. Ma la scelta dell’anniversario della morte di Eluana Englaro è una di quelle forme di vampirismo intollerabili, per cui ci si appropria di qualsiasi cosa abbia un minimo di risonanza pubblica per attaccarci il proprio cappello e sfruttarne il valore di scambio promozionale.
Mi fa schifo. Io quando incontro cattolici come la Roccella sono tentato dall’apostasia, e infatti credo seriamente che la Roccella appartenga in segreto al “partito di Repubblica”. Se una così non ci fosse se la dovrebbero inventare.
4 dicembre 2010 alle 11:38
@Giulio
“Se ragioniamo in termini di “libertà individuale”, dobbiamo ragionare anche in termini di “responsabilità individuale”. Un padre con figli da mantenere – faccio un esempio terra terra – non può andarsene come e quando vuole: può andarsene solo dopo aver provveduto al mantenimento dei figli negli anni futuri, e dopo averli preparati (nei limiti del possibile) alla perdita.”
discorso che vale per tutti i possibili modi di “andarsene” che un padre con figli può attuare, dal divorzio al fallimento negli affari alla condanna al carcere. Tutti casi che a me paiono più attinenti tra loro e a quello che tu citi (l’ “andarsene” per suicidio) di quanto il caso del suicidio sia attinente alla situazione a cui, mi pare, tu stesso ti riferisci nel brano, cioè all’eutanasia opposta al mantenimento in stato vegetativo. La differenza mi pare enorme: da un lato si tratta di “scegliere di andarsene da qualcosa (la vita – con tutte le relazioni e responsabilità che essa comporta) nella quale si è”, dall’altro si parla di “scegliere di andarsene del tutto da qualcosa nella quale non si è (quasi) già più”.
C’è, è vero, un “quasi” sul quale dibattere e discutere e scannarsi finché si vuole: ma qualunque valore si attribuisca a quel “quasi”, la differenza con il primo caso mi pare incolmabile.
4 dicembre 2010 alle 12:08
Giuliana, eviterei di questi discorsi. E’ vero che nessuno di noi ha la minima idea di come stia, di come si senta, umanamente, una persona in certe condizioni. Non si sa nemmeno bene se una persona in certe condizioni “si senta”.
Questo non autorizza nessuno a dire che le persone in certe condizioni “non sono più veramente vive”; né autorizza a dire che le persone in certe condizioni siano in condizione di “disabilità grave”, che mi pare un bell’eufemismo (senza dimenticare il “Potrebbe anche fare figli” a suo tempo sostenuto dal Grande Capo).
Cletus, ripeto: se c’è libertà, c’è anche responsabilità. Se uno vivesse da solo in una bolla, potrebbe fare di sé ciò che vuole senza problemi. Ma nessuno di noi vive in una bolla. Se si ragiona in termini di “libertà individuale”, bisogna ragionare anche in termini di parallela “responsabilità individuale”. Tanto un individuo è considerato libero di agire in un certo modo, altrettanto deve essere considerato responsabile delle sue azioni (e delle prevedibili conseguenze).
Il padre di famiglia che decida di andarsene senza provvedere ai propri cari, fa un uso irresponsabile della libertà.
Fabio: il mio ragionamento (che ho qui sopra riformulato) era rivolto a Cletus, dover parla di “un principio base, direi cardine, della libertà individuale (quello di decidere come quando andarsene)”. Che è questione ben più ampia di quella relativa alle persone in stato vegetativo.
Per queste ultime, il primo problema è: come si può conoscere con certezza la loro volontà?
Il secondo problema è: una volontà espressa in un certo momento può essere considerata certa anche in un altro momento?
Risolto questo (e mica è facile), la questione di quale conto fare di tale volontà è uguale per tutti: sia per chi è in grado, nel momento e nella situazione, di esprimerla; sia per chi non è in grado.
Ovviamente, c’è sempre il timore degli abusi. Che non è timore da poco.
giulio
4 dicembre 2010 alle 15:29
il ministro sa un sacco di cose che a noi mortali non è dato sapere: anche che le persone in stato vegetativo vorrebbero “raccontare il loro attaccamento alla vita”. Loro non hanno voce… ma qualcuno “sa”… e “sapeva” anche per Eluana… al suo posto… senza magari non averla nenache vista un secondo… senza aver stretto la mano a suo padre…
4 dicembre 2010 alle 19:08
Giulio, certo che i problemi riguardo alle persone in stato vegetativo sono “come si può conoscere con certezza la loro volontà” e “come si può valutare la validità di una volontà espressa in un altro momento da adesso”. Solo che questi problemi attengono appunto al riconoscimento di una “libertà”, cioè al diritto di quella persona in stato vegetativo. Mentre i diritti delle altre persone che gli sono intorno attengono, eventualmente, alla “responsabilità” di quella persona. E hai ragione a dire che “se si ragiona in termini di “libertà individuale”, bisogna ragionare anche in termini di parallela “responsabilità individuale”.” Solo che, appunto, la responsabilità è parallela, corre di pari passo ma una cosa distinta dalla sua libertà e ad essa non riducibile. Non posso dire di essere libero se non posso scegliere di fare il male, no? Il fatto di riconoscere alla persona in stato vegetativo la libertà di decidere della propria morte non implica che gli si tolga la responsabilità per le eventuali conseguenze della sua scelta; ma è vero pure il contrario: il riconoscimento della responsabilità in merito alle conseguenze non deve far venire meno il diritto alla scelta, nei casi in cui questo viene riconosciuto.
Nei casi in cui. Lo sottolineerei, visto che, appunto, i casi per i quali si chiede di riconoscere il diritto alla scelta – con tutta la difficoltà di determinare la scelta, ovviamente, come tu sottolinei – hanno caratteristiche tali per cui il problema della responsabilità mi pare che difficilmente possa assumere rilevanza decisiva in casi concreti. Se “Il padre di famiglia che decida di andarsene senza provvedere ai propri cari, fa un uso irresponsabile della libertà”, non riesco francamente a immaginare una situazione in cui la morte di una persona in stato vegetativo – accertato, perdurante, irreversibile – possa costituire un danno per i propri cari. Danno materiale, economico, ma anche, scusate il cinismo, danno personale o affettivo.
4 dicembre 2010 alle 20:54
E’ proprio vero: tutti parliamo senza sapere. A volte parlare può aiutare a capire, ma è difficile, fino a che non si tocca con mano la realtà, fino a che si ha la fortuna di stare bene e di poter decidere della propria vita.
Le storie delle persone in stato vegetativo sono infinite e diverse l’una dall’altra, è impossibile raggrupparle in una legge che valga per tutti. Non c’è niente di certo, nemmeno una dichiarazione fatta dalla persona in un dato momento può esserlo: se io avevo dichiarato di non voler vivere in quello stato, può darsi che, una volta che ci sono, mi attacchi disperatamente alla vita, perchè è bello comunque esserci, piuttosto che fare il salto in un posto sconosciuto. O può essere valido il discorso contrario. O può darsi che io non sia in grado di capire la differenza.
Non lo sapremo mai, giacchè le persone in stato vegetativo sono definite tali perchè non sono in grado di comunicare il proprio stato d’animo o la propria volontà. Come un vegetale, appunto.
In queste forme di vita, come dire, sospesa?, non c’è alcuna certezza, finora è prevalsa la sensazione soggettiva dei familiari: mi sente, non mi sente, partecipa, non partecipa, è vivo, è praticamente morto.
Quello che penso è che bisogna tenere sempre presente il singolo caso, la singola storia, la singola situazione clinica, la singola situazione familiare. Generalizzare è facile, ma bisognerebbe viverle queste storie, per tentare almeno di comprendere cosa sia la sofferenza, cosa sia la gioia, cosa sia l’amore.
Pontificare e speculare su questi argomenti, come nei casi riportati di Giulio (“disabilità grave” e “può anche fare figli”, nonchè il tentativo di legiferare all’ultimo secondo per i propri tornaconti politici) è vergognoso e disumano.
Ci sono casi in cui la vita è appesa al tubo di un respiratore automatico, e anche quando non ci sono più speranze dal punto di vista clinico (che volendo qualcuno potrebbe pure contestare:”hai visto mai che, anche se l’elettroencefalogramma è piatto, mi senta?”), è già difficile dire ok, stacchiamo la spina, magari doniamo gli organi: è una scelta difficilissima, non dimentichiamolo, però legittimata e incentivata. La scienza dice che non ci sono speranze: sarà vero? C’è chi non se ne convincerà mai, nonostante le evidenze e le differenze con i casi di coma vegetativo.
In altri casi quel respiratore è necessario per vivere, ma la persona non è in coma, e capisce da sè che senso dare alla propria vita. Il rifiuto delle teapie è legale, è un diritto, così come è tollerato il suicidio anche se incomprensibile. Non dimentichiamoci di un vecchio di 95 anni che, malato, si è suicidato, quando sarebbe morto comunque a breve… ha fatto una scelta che è stata perfino applaudita. La scelta di staccare volontariamente il respiratore, invece, solo perchè necessita dell’aiuto materiale di un’altra persona, è considerato atto immorale e forse anche perseguibile penalmente.
E volendo si potrebbe prolungare un elenco etico e morale che forse non ha fine (vogliamo parlare di un allungamento della vita non accompagnato da un aumento della qualità della stessa, che comporta un aumento delle disabilità importanti, fisiche e psichiche?), e volendo si potrebbe incolpare la tecnologia e il progresso, che ci ha portato a questo: almeno una volta si moriva e basta!
Di fatto la soluzione uguale per tutti non c’è. Ci vuole amore, empatia, condivisione, solo per tentare di capire, e magari aiutare in qualche modo, chi si trova a dover vivere una situazione difficile, sia da una parte che dall’altra del letto.
scusate, mi sono dilungata assai!!!
6 dicembre 2010 alle 10:54
Si, ognuno di noi può raccontare quello che prova o ha provato per esperienze vissute, riguardo le umane faccende riguardanti la vita e la morte, ma non si può giudicare. Non si può anche perché noi stessi potremmo essere sicuri di fare bene a scegliere una delle due ‘opzioni’ e poi pentirci e ripensarci, insomma è una faccenda delicata, complessa, complicata. Una legge però ci vorrebbe; una qualche normativa certa, sull’eutanasia, sul testamento biologico che non precluderebbe certo la facoltà a chi lo ritenesse opportuno, poter esprimere il suo sentire, contrarietà o consenso che sia.