Archivio dell'autore

L’apologo dell’uomo schifoso

31 Maggio 2019

di Demetrio Paolin

Ieri stavo guardando la televisione quando mi sono imbattuto nelle immagini del funerale dell’uomo, che è stato ucciso dalla figlia. Mentre il feretro usciva dalla chiesa alcune persone hanno urlato, scandito con forza, che il morto era un brav’uomo. Le loro parole stridevano con tutto quello che di lui sapevamo e di lui c’era stato raccontato. La diretta continuava, l’eco di quelle parole si assottigliava e rimaneva il silenzio e il motivo strano del perché la gente avesse sentito il bisogno di dire che quell’uomo, accusato di aver picchiato la figlia e la moglie, fosse un bravo o al massimo uno che ogni tanto beveva troppo.

Davanti alla televisione nasceva in me un senso di disagio, la stesso che mi prende quando all’improvviso mi appare la mia figura allo specchio (non amo la mia immagine riflessa). Guardavo quel funerale come se fosse il mio; ascoltavo quelle parole come se fossero rivolte a me, perché – è vero – io sono un brav’uomo, io sono una persona buona. Sorgeva in questo asimmetrico rispecchiamento un intento giustificatorio, che mi ripugna e non riesco a tenere a bada. Una parte di me, nascosta in qualche antro oscuro, che alcuni possono chiamare coscienza, sentiva che quel sentimento di fratellanza verso l’uomo nella bara era qualcosa di sbagliato, nonostante ciò il senso di intimità verso il morto  cresceva. Con molta semplicità quello schifoso non era diverso da me: bianco, cattolico, di genere maschile.  Forse la mia cultura, il mio modo di stare nel mondo e la mia educazione mi hanno permesso di non essere come lui e non essere in quella bara. Mi sentivo più colto, meno violento, ma non meno colpevole.

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Piombo (un’autobiografia)

30 novembre 2018

[è uscita a inizio novembre per la casa editrice tedesca NonsoloVerlag una antologia che raccoglie 10 racconti di  autori italiani dal titolo Vite allo specchio.  Pubblico qui il mio racconto.]

Di Demetrio Paolin

 

Sono nato nell’agosto del millenovecentosettantaquattro il giorno quattro di trentadue settimane, e questa furia di uscire mi ha salvato la vita, o così dice mia madre, che altrimenti sarebbe stata sull’Italicus per salire a nord da mio padre. Il mio nutrimento è stato il piombo dei ‘70, mi hanno ingrassato un latte che sapeva di zinco e gli ormoni negli omogeneizzati; le mie ossa non sono altro che il risultato della crisi energetica e il sangue è quello dei poliziotti e dei terroristi mischiato insieme. Io sono venuto al mondo mentre ogni cosa esplodeva e l’aria sapeva di tritolo e di C4. Sono nato e i corpi come quello di mia madre venivano uccisi da pallottole vaganti. Come era bella di schiena Giorgiana Masi quando il proiettile le si infilò all’altezza del polmone e lo perforò per uscire dall’altra parte, e la donna continuò la sua corsa per qualche secondo per poi sfiorire a terra morta. Io sono nato nel tempo in cui saltavano in aria treni, banche e loggiati medioevali. Io sono figlio di questa patria che chiamo Italia che è una lunga giovinezza piena di pomeriggi di noia, di sogni disfatti, di donne che avrei potuto amare e che ho cancellato; ho levigato la mia persona con una ferrea disciplina di purezza e oggi – passati 44 anni dal mio nascere – se leggete queste parole, io, Demetrio Paolin, sono morto, saltando in aria con la mia classe di alunni del liceo scientifico Keplero di Torino.

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Auschwitz ovvero il male “pop”

29 ottobre 2018

di Demetrio Paolin

Molti, tra ieri e oggi, hanno condiviso una foto, dove è ritratta una donna dal sorriso sguaiato, la dentatura orribile, con indosso una maglietta che, ricalcando i caratteri della Disney, portava scritto “Auschwitzland”. Il mio primo sentimento è stato di indignazione, mi sono sentito offeso, poi mi sono chiesto: cosa ha reso possibile quella maglietta? A me interessa più  comprendere questo che non il semplice condannare un gesto scriteriato.

Provo a fare un ragionamento che inizia con un cortocircuito, che potrei riassumere in questo modo: la maglietta “Auschwitzland” non è molto diversa dalla scritta – che imperversava sui social qualche anno fa – #iosonoannefrank. Anzi direi che sono due facce del medesimo atteggiamento.

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Il quadrato di M.

24 settembre 2018

[Il 27 settembre uscirà per D editore una raccolta di racconti dal titolo Illusioni. Ovvero 13 modi di raccontare i quadri, tra i vari contributi c’è anche un non-racconto mio, che grazie al permesso dell’editore pubblico qui. dp]

di Demetrio Paolin

 

[…]Non ho più voglia di scrivere; l’ho capito questa estate al mare, mentre guardavo il cielo e l’acqua entrambi verdastri la mattina. Mia figlia e mia moglie si mettevano la crema e osservavo loro e le altre persone. Ascoltavo i loro discorsi, li registravo, notavo i loro tic, collegavo certe frasi le une alle altre, interpretavo segni, gesti, minuzie e attenzioni. Mi dicevo: ne avrei per scrivere un romanzo o un racconto, potrei averne anche per scrivere un saggio. Poi guardavo l’immensità vedastra davanti a me, la complessità dei riflessi della luce sull’acqua, la precisione con cui l’onda si infrangeva sulla battigia, il modo con cui le nuvole cedevano la loro forma sulle montagne alle mie spalle e mi dicevo: Ecco potrei scrivere una poesia, un poemetto o una frase brillante.
Invece nulla. Poggiavo la mia testa sullo sdraio e mi addormentavo per lungo tempo. […]

Continua a leggere “Il quadrato di M” di Demetrio Paolin (pdf)

“10”, di Dario Voltolini

24 aprile 2018

[Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione alla nuova edizione del romanzo 10, di Dario Voltolini, per la Collana Laurana Reloaded].

di Demetrio Paolin

Dario Voltolini è uno scrittore d’occasione e di trasparenze. So che questo sembra un incipit facile e a effetto, ma sono queste due tra le caratteristiche migliori della sua prosa e della sua opera, che in particolar modo in 10 si trovano riunite.

Ora ovviamente il lettore vorrebbe capire perché io abbia usato queste due categorie per descrivere la prosa dello scrittore torinese, ma mi si permetta, in omaggio al modo un po’ svagato di procedere di Voltolini stesso, di raccontare un piccolo fatto personale.

Io sono un giocatore di calcetto e una persona che scrive; e quando uscì il libro di racconti di Voltolini fu per me una specie di piccola rivelazione. 10 sanciva la possibilità di scrivere di calcio in un modo totalmente nuovo. La scrittura sul calcio in Italia aveva sempre significato Brera, Arpino e Viola; e guardando fuori i cantori del calcio erano sudamericani (Osvaldo Soriano su tutti). La principale caratteristica di questi narratori, soprattutto delle triade italiana, era costituita da una certa coloritura linguistica, che va dalla barocchismo gaddiano di Brera, al tono neorealistico di Arpino, alla vaga ironia ariostesca di Viola, per non parlare dell’epicità che si respira nei testi di Soriano. Ecco questo tipo di modo di raccontare il calcio era dominante, anche per chi, come me, dovendo pagarsi l’università scriveva di sport sui giornali provinciali e parrocchiali, redigendo cronache di scontri in terza categoria simili a resoconti da poema omerico.

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Appunti su Una grazia di cui disfarsi di Elisa Ruotolo

18 aprile 2018

di Demetrio Paolin

Elisa Ruotolo torna in libreria con un breve testo dedicato a Antonia Pozzi Una grazia di cui disfarsi (rueBallu editore, con disegni di Pia Valentinis). Uso la parola “testo” non a caso perché in questo frangente mi risulta difficile spiegare al lettore quale sia il genere a cui le pagine della Ruotolo appartengono. Da un lato potrebbe essere una sorta d’invito alla lettura per i più giovani; l’autrice infatti descrive e traccia una breve biografia della poetessa accompagnata da disegni molto belli e concludendola con una breve antologia di poesie della Pozzi, tra l’altro con una scelta non scontata e diversa dalle liriche che solitamente si legano al nome della giovane poetessa suicida.

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Desiderare figlio non è come scolpire marmo

5 marzo 2018

di Demetrio Paolin

[questo articolo è stato pubblicato nel numero de La lettura, supplemento del Corriere della sera, in edicola questa settimana].

Gabriele Dadati con L’ultima notte di Antonio Canova (Baldini & Castoldi, 2018) ci consegna, coraggiosamente, un romanzo storico alla vecchia maniera. Siamo a Venezia nel 1822, il grande scultore Antonio Canova, prossimo alla morte, decide di raccontare al fratellastro Giovan Battista Sartori una vicenda di cui è stato protagonista e spettatore, e che riguarda l’uomo più potente del quel tempo: Napoleone Bonaparte. Nel 1810 Canova è a Fontainebleu, l’imperatore di Francia l’ha chiamato perché vuole che Maria Luisa d’Austria venga ritratta in un busto di marmo. Lo scultore, mentre è a corte, viene avvinto nelle spire di una strana congiura, che riguarda Napoleone, la sua sposa e il futuro della Francia.

L’ultima notte di Antonio Canova è un serie di cerchi via via più stretti, che corrispondono a diversi punti focali della narrazione: in primo luogo abbiamo il grande artista alle prese con la sua morte solitaria, la sua debolezza fisica, la malinconia per il tempo sprecato e i rimpianti per la gioventù. In questo contesto si inserisce un secondo quadro temporale, l’ottobre del 1810, dove nello sfarzo della corte di Napoleone lo scultore viene a conoscenza del terribile segreto, che  viene raccontato – e abbiamo qui il terzo e più importante scenario –  dal punto di vista di Maria Luisa.

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Ragionamento intorno a una tendenza della narrativa italiana attuale

22 febbraio 2018

di Demetrio Paolin

Esiste nella letteratura un personaggio più complesso di Dio? Mi sembra questa una di quelle domande che dovremmo prima o poi iniziare a farci con una certa profondità di analisi. Il problema in questo caso non è tanto essere credenti o meno, quanto riconoscere che il cristianesimo, la Scrittura, la sua teologia e le sue narrazioni sono una miniera inesauribile di immaginazioni. A questo discorso di immaginario si aggiunge, poi, un dato narratologico interessante. Per chi pratica la scrittura osservare il fenomeno di come nasce Dio; o di come Dio si sviluppa nella Bibbia (pensiamo alla differenza tra il Dio della Genesi e quello del Levitico)  è assolutamente centrale.  E questo gioco legato a quale Dio credi potrebbe continuare a lungo, pensiamo solo alle differenze tra il Dio di Paolo e il Dio di Pietro, così pure il Cristo di Luca così differente da quello di Giovanni o di Matteo.

A dire il vero punto focale di questo intervento non è neppure il crociano “non possiamo non dirci cristiani”, ma prendere atto che molte delle categorie che noi usiamo, seppure traslate e rese più liquide dalla modernità, sono in realtà categorie che hanno a che fare con la religione. Il pezzo nasce, quindi, anche dall’esigenza di mettere ordine pensieri che sono nati leggendo una serie di novità  editoriali, che hanno posto al centro la tradizione del libro e la tradizione religiosa, legata alla Scrittura.

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Caravaggio astratto

5 gennaio 2018

di Demetrio Paolin

[Nell’aprile del 2017 ho partecipato a un convegno presso il Monastero di Fonte Avellana dal titolo Viaggio al termine della notte. Oscurità, penombra e splendore. In questi giorni la casa editrice Nicomp ne ha pubblicati gli atti. Per gentile concessione dell’editore pubblico di segiuto il mio intervento su Caravaggio].

Sono seduto alla scrivania nella scomoda situazione di dover scrivere un saggio a proposito di Caravaggio Astratto. In realtà la scomoda situazione me la sono creata da me quando ad aprile 2017 al Convegno, di cui questi atti sono testimonianza, ho deciso di parlare a braccio di questo tema. Ecco, il problema principale è questo: non ho più gli appunti che avevo redatto su di un piccolo quadernino con la spirale. In questo momento non ho nessuna idea del percorso che avevo intrapreso nella mia comunicazione. Potrei chiedere a Matteo se si ricorda qualcosa o alle persone che erano lì, ma invece quasi mi diverte costruire questa cosa partendo da questo vuoto totale di quello che ho detto. Quindi perché astratto?

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Il Dio falso [1]

9 novembre 2017

di Demetrio Paolin

Mio padre quando si alza vede
la collina davanti a lui e non pensa nulla,
fa colazione come ogni giorno la mattina:
aspetta che il caffè diventi freddo e poi mi
chiama facendomi una carezza sulla testa.
Mio padre è tutto collina quando esce e va
al lavoro, è come le rive che scendono
verso il fiume, che pare gli alberi si muovano;
si dice bosco, ma potremmo dire anche mare
che vale lo stesso, tanto si muove il verde.
Il giorno dopo che Patrick è morto, mio padre
è uguale a se stesso come una figura allo specchio;
io sento una cosa – una grana di sale
infilarsi dentro la pelle – che mi fa diverso,
mio padre mi sembra più alto con un’ombra
dietro lunghissima, che arriva fino
porta di casa che sempre alle 7.30 del mattino
chiude dietro di sé per andare a lavorare.

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Essere Mauro Corona

1 agosto 2017

di Demetrio Paolin e Giulia Blasi

Quella che segue è una conversazione sul sé in letteratura  a margine di eventi realmente accaduti

D: Ieri sui social e in televisione si è parlato di Mauro Corona e della sua folle corsa per inseguire alcuni ragazzi, colpevoli di avergli “vandalizzato” casa. Al di là dei risvolti più politici, che sono stati montati – diritto di legittima difesa, la violenza gratuita, ecc. – c’è una cosa che mi interessa, ed è legata al mio primo pensiero quando ho letto la notizia. Ho pensato: “Sarebbe un’immagine perfetta di un romanzo di Corona”. Mi spiego: quello che mi è stato raccontato sul giornale l’avrei trovato comprensibile e pure “divertente” in una sua storia, perché coerente con quello che lui ha sempre narrato, con quello che lui ha costruito come immaginario che sottende ai suoi testi. Il problema qual è? Che in questo caso non siamo in un romanzo, ma l’inseguimento, l’ascia, i ragazzi sono reali e accaduti. E così vengo alla mia prima riflessione: esiste un momento in cui lo scrittore smette di essere percepito come tale e diventa una cosa sola con le cose che scrive. Questo cortocircuito è pericoloso sia quando avviene nella mente del lettore, sia quando – come in questo caso – avviene nella mente dell’autore. Io ho avuto l’impressione che Corona abbia agito pensando a come si sarebbe comportato “Mauro Corona” scrittore e inventore di storie. C’è un bisogno diffuso, mi pare, di confondere chi scrive con cosa scrive. La letteratura diventa così una sorta di esperienza di vita altrui, mentre io credo che mettere le distanze tra sé e le cose che si scrivono è salutare, metterle se si scrive “io” lo è ancora di più: o si finisce di creare un cortocircuito come quello in cui è caduto Mauro Corona

G: Fra il Corona scrittore e il Corona persona non c’è mai stata tutta questa distanza. Corona è prima di tutto personaggio, una personalità debordante, che funziona in televisione, che colpisce. Non sparisce dentro i suoi libri, i libri sono un’emanazione di lui, sono parte della performance. Si comprano e leggono i libri di Corona per essere parte della Corona Experience, immaginarsi un po’ uomini di montagna (o donne col fazzoletto in testa e la polenta sul fuoco), immergersi in un tempo rude, spiccio, senza vanità, senza selfie e Rovazzi e rumore di fondo. Un tempo povero, in cui non dureremmo dieci minuti senza urlare “CHE PALLE RIDATEMI LA CONNESSIONE VOGLIO UN IPHONE 12 TEMPESTATO DI SWAROVSKI PER GUARDARE TEMPTATION ISLAND”, e per questo aspirazionale, perché distante da noi.

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Jeremy in a hole

2 Maggio 2017

di Demetrio Paolin

[Queste pagine fanno parte di una “cosa” nuova; è in fase di scrittura, si prenda questa narrazione come una prova di materiali].

Il periodo successivo all’adolescenza è stato  un apprendimento del lutto.

Leggo questa frase sulla musicassetta che trovo a casa dei miei. Sono venuto qui per cercare la mia prima copia di Geremia, quella che lessi nel 1991, subito dopo la morte di Patrick. Sono curioso di vedere cosa avevo sottolineato, cerco un appiglio che mi dica chi ero io come lettore e come ragazzo in quegli anni e dopo quella morte. Ho trovato, invece, una TDK Chrome 90 minuti. Non ci sono altre scritte se non questa che ho appuntato. Vorrei ascoltarla, ma prima cerco ancora bene tra i libri e i testi che ho lasciato a casa nel paese. Per un attimo mi fermo a guardare fuori dalle tre finestre che per i primi 20 anni mi hanno visto crescere. Chi era il ragazzo di allora? Chi è questa massa di carne che ingombra la finestra adesso? Che tipo di rapporto c’è tra loro due?

Niente è più estraneo a me stesso che il me stesso della mia giovinezza: non vedo tra me e lui nessun tipo di familiarità o di vicinanza, eppure il sangue, la carne, i capelli e i difetti di pronuncia sono miei. Sono io senza essere più io.

Il diciassettenne di allora chissà dove è finito, in quale remoto angolo della mia coscienza o del mio profondo. Io non ho nessuna intenzione di suscitarlo adesso, anche se il sole che cade sui tetti e il rumore di mia madre che rigoverna i piatti in cucina sono familiari e morbidi: quanti pomeriggi ho passato in questo modo a guardare i tetti modificare la gradazione di luce e ombra, imparando a memoria le macchie di umido sulle tegole rosse, distinguendo i ciuffi di capperi selvatici sulla muraglia dai semplici arbusti matti; e lì nella piccola porzione di cielo, che l’ovale della finestra mi mostrava, il mio naso sanguinava per i pensieri che avevo, per le cose che immaginavo, per le vergogne che si insediavano nella mia pelle.

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Un cuore intelligente, appunti su critica e scrittura.

19 aprile 2017

di Demetrio Paolin

[Altri articoli sullo stesso argomento]

Scriptor, non doctor. Questa breve glossa di Benvenuto da Imola al verso 27 del canto X del Paradiso mi è venuta in mente leggendo i diversi contributi che, qui su vibrisse ma anche su altri siti e social network, sono apparsi dopo la pubblicazione dell’articolo di Gilda Policastro sull’eutanasia della critica e delle due recensioni della Marzano e di Trevi all’ultima fatica di Siti.

Quando nascono queste polemiche e discussioni, io ho un problema ovvero devo capire da dove parlo

La cosa più comoda in questo caso è definirmi: in che veste prendo la parola? (Lo so che è un problema tutto mio, ma secondo me è sempre necessario capire chi è che parla) Parlo da scrittore? Parlo da critico che collabora con alcune testate e giornali nazionali?  Scrittore/Critico. Una delle tensioni sottotraccia che mi è parso di ravvisare nelle diatribe di questi giorni è appunto l’eterna distinzione tra critico e scrittore.

Io mi sono guardato dentro, ho provato a osservare le cose che faccio ogni giorno, quando apro il pc e mi metto davanti a una pagina di word o davanti a un libro che leggo. Io faccio dei discorsi, dei ragionamenti in cui provo a dire come è il mondo, quale è la mia idea di bellezza, di giustizia di amore o di letteratura. In questo senso la divisione tra critico e scrittore è fuorviante: il critico è uno scrittore ovvero una persona che scrive immaginazioni, e che declina la sua particolare visione di mondo tramite una riflessione su testi altrui.

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“Fare i conti con il ragazzo che ero e l’uomo che sono diventato”.

24 marzo 2017

[Esattamente un anno fa Conforme alla gloria veniva pubblicato da Voland e iniziava la sua vita negli scaffali delle librerie. Proprio in questi giorni Chiara Pasin ha discusso una tesi dal titolo Tra umano e disumano. Dal corpo memoria di Primo Levi al corpo-performance contemporaneo (relatore Alessandro Cinquegrani) , in cui un’intera parte, la terza e conclusiva dal titolo Tra corpo-memoria e corpo-performance: il caso di Conforme alla gloria di Demetrio Paolin, è dedicata al mio testo. La sua tesi ha come appendice una intervista che Chiara mi ha fatto nei giorni in cui completava il suo lavoro. Con il suo permesso e con molta mia gioia la pubblico qui. dp]

Chiara Pasin&Demetrio Paolin

Le pagine di Conforme alla gloria racchiudono numerosi riferimenti a fonti più o meno esplicite: Levi, Fergnani, Arendt, Kakfa, Celan, Covacich, solo per citarne alcuni, ma anche artisti e performer. Quali sono i suoi modelli più cari?

“È certamente difficile stabilire un canone letterario, ancorché personale e privato. Se dovessi dire le fondamenta sulle quali poggiano le pagine di Conforme alla gloria, direi che il primo testo di riferimento è la Sacra Scrittura. Soprattutto l’Antico Test amento e gli scritti di Paolo; credo che il Dio che compare più volte nel romanzo debba molto a queste mie letture, che sono state anche le letture della mia infanzia. […]Nello stesso tempo mi rendo conto che in Conforme alla gloria Cristo è assente, l’agnello mite e sacrificale, colui che prende e porta sulle sue spalle i peccati di tutti, non c’è. Dal punto di vista teologico, questo romanzo è stato scritto prima della nascita di Cristo, e il Dio a cui io faccio riferimento è il Dio dell’Antico Testamento e quindi concetti come colpa, peccato e male hanno nel romanzo risuonano al lettore in un modo diverso. Sono, se posso usare un termine, più tragici e originari. Hanno qualcosa che riguarda le scaturigini più profonde nel nostro essere umano.

Altrettanto fondamentali sono state per me le opere di De Sade. Dell’opera del marchese mi interessava soprattutto il trattamento dei corpi. Ovvero mi pare che in De Sade, so che sto semplificando, ma mi si perdonerà, c’è in germe l’idea del corpo asservito a una idea, anzi meglio ancora una ideologia, che è poi quello che sottolinea Pasolini – altra fondamenta del mio testo – in Salò. A me interessava questa ipotesi di corpi che passivamente diventano un luogo dove una ideologia si incarna e fa male.”

Leggi l’intervista di Chiara Pasin a Demetrio Paolin su Conforme alla gloria

Una lettera d’amore

14 febbraio 2017

di Demetrio Paolin

lettera

Cara Mara

Non so se queste parole arriveranno a te così come le scrivo.  Forse altri occhi che non sono i tuoi, i  tuoi occhi di spillo che guardavano il mare le poche volte che ci siamo stati, vedranno la mia calligrafia, ma nonostante i guardiani cercherò di parlarti chiaramente.

Qui dal carcere, tra le sbarre, vedo uscire la nebbia. Casale è così: un posto pieno di silenzio, che mi viene più facile pensarti in una delle nostre case sicure. Immagino a cosa pensi, immagino quello che senti ora rimescolarti nel sangue. Questo mondo e questa società, così come le abbiamo conosciute e vissute, sono destinate a esplodere. Noi saremo la miccia di questa apocalisse.

So che sorridi perché vedi in me il ragazzo cresciuto tra oratorio e messa. Eppure è così: il mondo è morente. Io lo vedo con nitore da questo angolo buio da cui mi è concessa la vista: tutto geme per la fine prossima. La natura, i pochi alberi che magri appaiono in lontananza, le nubi sparute nel cielo, la pioggia e le cornacchie abbandonate sembrano attendere il momento preciso in cui ogni cosa si svelerà. E io attendo con ansia il momento in cui non ci sarà più nulla di quello che siamo abituati a vedere, ma un mondo nuovo, un cielo terso, una felicità pura, che la sola idea di tutto questo mi rende gravido e partoriente, come se fossi un cavalluccio marino che feconda in sé i piccoli nascituri.

Ci saranno cadaveri lasciati per terra, lo sappiamo. Noi saremo visti come carnefici, ma è il prezzo che si paga per cambiare il mondo. La redenzione è un atto di violenza. Il Dio, in cui noi crediamo, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Marx, il Dio dei poveri è un Dio rabbioso che tira fuori i corpi dal nulla e li riporta in vita, che cambia verso alla terra e separa le acque…

È la nostra fede, la nostra gloria di rivoluzionari, sappiamo a cosa andiamo incontro; potevamo maledire il giorno della nostra nascita e la società in cui viviamo e invece ci siamo fatti strumenti di questo cambiamento.

Ora è venuto il tempo di chiudere questa breve lettera e mi prende una malinconia da quindicenne, stupida e impossibile da trattenere, penso a quando sono stato con te l’ultima volta prima dell’arresto e sono entrato nel tuo corpo.

Ti ho sussurrato che stavamo creando un mondo, separando la luce dalle tenebre, le acque dalla terra ferma, ma neppure questo giustifica i morti che faremo, perché abbiamo scelto –  nonostante l’amore e il bene che sentiamo – la violenza. Siamo armati e sappiamo che finiremo la nostra esistenza terrena sul marmo di un tavolo autoptico. Ci amiamo di un amore che non c’entra con la rivoluzione, ma che sacrifichiamo a essa.

E in questa rinuncia di noi stessi, siamo nuovi.

Con amore
Tuo Renato

Don DeLillo, “Zero K”. Appunti di lettura

31 ottobre 2016

don_delillodi Demetrio Paolin

Ci sono diversi modi per provare a dire qualcosa sull’ultimo libro di Don DeLillo Zero K (Einaudi 2016, trad. Federica Aceto). La maggior parte delle recensioni sono in realtà riflessioni molto profonde e ultime sul tema del romanzo. È vero che Zero K costringe il lettore a questo tipo di taglio speculativo visti i temi che affronta (la vita dopo la morte, i limiti etici e tecnici della scienza, il rapporto padri figli), ma proprio l’immensità di questi topoi letterari fa sì che spesso e volentieri le riflessioni sul romanzo siano più vicine a una speculazione filosofica che una effettiva ricognizione del testo.

Questi pochi e brevi appunti partiranno, invece, da una spia testuale, e spero possano essere altrettanto interessanti. Chiunque abbia avuto una lunga frequentazione dei testi dello scrittore amerciano  non può non aver avvertito un cambio radicale di stile da Underworld a quest’ultima fatica; un evento che potremmo definire: la sparizione della similitudine.

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Alessandro Zaccuri, “Lo spregio”. Appunti di lettura.

6 ottobre 2016

di Demetrio Paolin

cop_zaccNe Lo spregio (Marsilio, 2016) Alessandro Zaccuri compone idealmente un altro piccolo tassello del suo personalissimo altare per il padre. Qui come nelle sue opere maggiori, penso certamente a Il signor figlio (Mondadori) ma anche a Dopo il Miracolo (Mondadori) l’autore milanese continua indefesso la sua riflessione sul nodo centrale del rapporto genitore/figlio, un vero proprio luogo narrativo per Zaccuri che s’invera anche nella sua formazione di scrittore, come aveva raccontato proprio sulle pagine di vibrisse.

La storia è presto detta. Angelo vive in un piccolo paese del comasco al confine con la Svizzera. Suo padre, soprannominato il Moro, gestisce una locanda che in realtà è il paravento per una serie di traffici poco leciti. Moro è un uomo di poche parole, ma profondamente innamorato del proprio figlio, a cui ha taciuto il fatto di non essere lui padre naturale, essendo Angelo un trovatello.  Per questo motivo l’uomo ha sposato Caterina, la cameriera del ristorante, pur non amandola per il solo fatto di poter tenere con sé questo bambino.

Angelo, che venera il padre, dopo aver scoperto la reale vita del Moro fatta di soldi con il contrabbando e la prostituzione, decide di essere come lui, anzi di essere meglio di lui e in questa folle corsa incontra Salvo, che con il padre Don Ciccio e i suoi fratelli maggiori (tutti esponenti della malavita) è stato costretto all’esilio al nord. Tra i due ragazzi nascerà un profondo legame che verrà spezzato dallo spregio che Angelo farà nei confronti di Salvo; un peccato di hybris che verrà punito nel modo più tremendo e possibile.

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“La mia dislessia”, di Philip Schultz. Appunti di lettura

21 settembre 2016

di Demetrio Paolin

Una volta, mi pare qualche anno fa, camminando per il paese che mi aveva visto bambino, ho incontrato la mia maestra delle elementari. Avevo pubblicato da poco Il mio nome è Legione e la donna, ormai anziana, si avvicinò e mi disse parolcopertinae che suonavano più o meno così: “Io l’avevo sempre detto che tu avresti scritto dei libri”. Io in quel momento non dissi nulla, ma io avevo chiaro nella mia mente un altro ricordo. Una donna, simile a quella stava di fronte ma più giovane, diceva a mia madre che io non riuscivo a scrivere correttamente parole come “terra” e “rabbia”, che scrivevo le doppie scempie e viceversa; che tutte le “effe” diventavano “vu” e tutte le “vu” diventavano “effe”, che spesso mi distraevo e sembrava mi assentassi da quello che dicevano; senza contare una leggera balbuzie sulla “bi” e la “esse” che sibilava. Mi ricordo anche uno studio con una dottoressa che mi spiegava come non c’era niente di male in me, niente di sbagliato, solo che “avevo un cervello più veloce della mano”.

Ora questo episodio mi è tornato in mente leggendo La mia dislessia di Philip Schultz (Donzelli Editore, traduzione Paola Splendore), che non è il solito memoir in cui il malato parla della sua patologia, ma è la testimonianza di uno dei più importanti poeti americani (vincitore nel 2008 del premio Pulitzer per la poesia), che all’età di otto anni non era ancora in grado di leggere e di scrivere.

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Storia del mio sangue

3 agosto 2016

di Demetrio Paolin

a Mastro Limitri

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Immaginate una serie di case lungo un viale che si chiama Gebbione, immaginatele a grappoli lungo questa via che quando finisce c’è una fabbrica che si chiama l’Omeca, a Reggio Calabria. Ora se vi sporgete da uno di quei balconi, che danno sulla via piena di alberi, intravedete il mare. Seguite la linea dell’orizzonte lungo i tetti dei palazzi fino a che il vostro sguardo non strapiomba su una piccola strada stretta d’asfalto. Lì c’è un piccolo ingresso alla spiaggia. Immaginate di camminare lungo la battigia, l’acqua vi copre i piedi. Andate avanti fino a quando trovate un uomo seduto su alcune casse di legno e una canna da pesca in mano. L’uomo che ha in bocca una sigaretta è mastro Limitri, lui fa il muratore, ma ora si sta godendo il risposo e pesca. A pochi metri da lui ci sono io suo nipote, Demetrio. Gioco sulla sabbia e salto; mentre lo faccio mi graffio un ginocchio. Immaginate, ora, il sangue che esce. Guardate come si impossessa della superficie della pelle.

Ora riempite i polmoni, entrate nel mio sangue.

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Il sermone di Tobia

21 luglio 2016

di Demetrio Paolin

[In questi giorni è uscito in libreria il nuovo numero (il  quinto) di Effe. Periodico di Altre Narratività. Otto scrittori, alcuni al loro esordio altri già pubblicati, per otto illustratori per otto “storie inedite narrate attraverso stili diversi e diversi respiri ma accomunate dalla voglia di rendere omaggio alla narrativa di qualità e al genere del racconto”. Di seguito il racconto di Demetrio Paolin con l’illustrazione di Silvia Rocchi]

illustrazione[…] Il corpo dei morti continua a sognare come se una parte del defunto non morisse del tutto, ma rimanesse appiccicata alle ossa e alla carne. Sogna cose belle: luminose giornate, piante rigogliose e verdi, caldo, fiumi d’acqua dolce. Poi il corpo si disfa e si disperde nella terra e nelle radici degli alberi. In questa consistenza c’è Dio, che trattiene, testardo e debole, gli atomi sognanti degli amati corpi fino alla fine dei tempi. Vi ricordate la polvere che c’era quel giorno, appena crollate le case, e che è rimasta ostinata per mesi sulla nostra pelle e sui nostri vestiti, sui segnali stradali e sulle macchine parcheggiate, sui tavolini dei bar all’aperto? Quello era il resto, lo scarto dei nostri morti amati; era i sogni delle persone che ci supplicavano di tenerle con noi. Io, amici, ho raccolto quella polvere in un sacco di plastica, affinché i morti potessero sognare ancora. […]

Leggi Il sermone di Torbia di Demetrio Paolin, da Effe n. 5.