Archive for the ‘Retoriche’ Category

L’apologo dell’uomo schifoso

31 Maggio 2019

di Demetrio Paolin

Ieri stavo guardando la televisione quando mi sono imbattuto nelle immagini del funerale dell’uomo, che è stato ucciso dalla figlia. Mentre il feretro usciva dalla chiesa alcune persone hanno urlato, scandito con forza, che il morto era un brav’uomo. Le loro parole stridevano con tutto quello che di lui sapevamo e di lui c’era stato raccontato. La diretta continuava, l’eco di quelle parole si assottigliava e rimaneva il silenzio e il motivo strano del perché la gente avesse sentito il bisogno di dire che quell’uomo, accusato di aver picchiato la figlia e la moglie, fosse un bravo o al massimo uno che ogni tanto beveva troppo.

Davanti alla televisione nasceva in me un senso di disagio, la stesso che mi prende quando all’improvviso mi appare la mia figura allo specchio (non amo la mia immagine riflessa). Guardavo quel funerale come se fosse il mio; ascoltavo quelle parole come se fossero rivolte a me, perché – è vero – io sono un brav’uomo, io sono una persona buona. Sorgeva in questo asimmetrico rispecchiamento un intento giustificatorio, che mi ripugna e non riesco a tenere a bada. Una parte di me, nascosta in qualche antro oscuro, che alcuni possono chiamare coscienza, sentiva che quel sentimento di fratellanza verso l’uomo nella bara era qualcosa di sbagliato, nonostante ciò il senso di intimità verso il morto  cresceva. Con molta semplicità quello schifoso non era diverso da me: bianco, cattolico, di genere maschile.  Forse la mia cultura, il mio modo di stare nel mondo e la mia educazione mi hanno permesso di non essere come lui e non essere in quella bara. Mi sentivo più colto, meno violento, ma non meno colpevole.

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Auschwitz ovvero il male “pop”

29 ottobre 2018

di Demetrio Paolin

Molti, tra ieri e oggi, hanno condiviso una foto, dove è ritratta una donna dal sorriso sguaiato, la dentatura orribile, con indosso una maglietta che, ricalcando i caratteri della Disney, portava scritto “Auschwitzland”. Il mio primo sentimento è stato di indignazione, mi sono sentito offeso, poi mi sono chiesto: cosa ha reso possibile quella maglietta? A me interessa più  comprendere questo che non il semplice condannare un gesto scriteriato.

Provo a fare un ragionamento che inizia con un cortocircuito, che potrei riassumere in questo modo: la maglietta “Auschwitzland” non è molto diversa dalla scritta – che imperversava sui social qualche anno fa – #iosonoannefrank. Anzi direi che sono due facce del medesimo atteggiamento.

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Essere Mauro Corona

1 agosto 2017

di Demetrio Paolin e Giulia Blasi

Quella che segue è una conversazione sul sé in letteratura  a margine di eventi realmente accaduti

D: Ieri sui social e in televisione si è parlato di Mauro Corona e della sua folle corsa per inseguire alcuni ragazzi, colpevoli di avergli “vandalizzato” casa. Al di là dei risvolti più politici, che sono stati montati – diritto di legittima difesa, la violenza gratuita, ecc. – c’è una cosa che mi interessa, ed è legata al mio primo pensiero quando ho letto la notizia. Ho pensato: “Sarebbe un’immagine perfetta di un romanzo di Corona”. Mi spiego: quello che mi è stato raccontato sul giornale l’avrei trovato comprensibile e pure “divertente” in una sua storia, perché coerente con quello che lui ha sempre narrato, con quello che lui ha costruito come immaginario che sottende ai suoi testi. Il problema qual è? Che in questo caso non siamo in un romanzo, ma l’inseguimento, l’ascia, i ragazzi sono reali e accaduti. E così vengo alla mia prima riflessione: esiste un momento in cui lo scrittore smette di essere percepito come tale e diventa una cosa sola con le cose che scrive. Questo cortocircuito è pericoloso sia quando avviene nella mente del lettore, sia quando – come in questo caso – avviene nella mente dell’autore. Io ho avuto l’impressione che Corona abbia agito pensando a come si sarebbe comportato “Mauro Corona” scrittore e inventore di storie. C’è un bisogno diffuso, mi pare, di confondere chi scrive con cosa scrive. La letteratura diventa così una sorta di esperienza di vita altrui, mentre io credo che mettere le distanze tra sé e le cose che si scrivono è salutare, metterle se si scrive “io” lo è ancora di più: o si finisce di creare un cortocircuito come quello in cui è caduto Mauro Corona

G: Fra il Corona scrittore e il Corona persona non c’è mai stata tutta questa distanza. Corona è prima di tutto personaggio, una personalità debordante, che funziona in televisione, che colpisce. Non sparisce dentro i suoi libri, i libri sono un’emanazione di lui, sono parte della performance. Si comprano e leggono i libri di Corona per essere parte della Corona Experience, immaginarsi un po’ uomini di montagna (o donne col fazzoletto in testa e la polenta sul fuoco), immergersi in un tempo rude, spiccio, senza vanità, senza selfie e Rovazzi e rumore di fondo. Un tempo povero, in cui non dureremmo dieci minuti senza urlare “CHE PALLE RIDATEMI LA CONNESSIONE VOGLIO UN IPHONE 12 TEMPESTATO DI SWAROVSKI PER GUARDARE TEMPTATION ISLAND”, e per questo aspirazionale, perché distante da noi.

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Quanto ci vuole per diventare veneti? (invito a firmare una petizione)

9 marzo 2017

di giuliomozzi

Il 14 febbraio 2017 il Consiglio regionale del Veneto ha modificato la legge regionale n.32 del 23 aprile 1990 Disciplina degli interventi regionali per i servizi educativi alla prima infanzia: asili nido e servizi innovativi. L’articolo 8 ora stabilisce che

Hanno titolo di precedenza per l’ammissione all’asilo nido nel seguente ordine di priorità:
a) i bambini portatori di disabilità;
b) i figli di genitori residenti in Veneto anche in modo non continuativo da almeno quindici anni o che prestino attività lavorativa in Veneto ininterrottamente da almeno quindici anni, compresi eventuali periodi intermedi di cassa integrazione, o di mobilità o di disoccupazione.

Il criterio sarà applicato negli asili nido comunali, che coprono circa il 20% del fabbisogno; non sono tenuti ad applicarlo gli asili nido privati.

La ratio della modifica è, come scrissero a suo tempo i proponenti, l’intento di

privilegiare quei cittadini che dimostrino di avere un serio legame con il territorio della nostra regione, vuoi perché vi risiedono da almeno quindici anni, vuoi perché vi lavorano da almeno quindici anni.

Al di là della banale considerazione che se si volesse davvero garantire la serietà del legame si dovrebbe piuttosto chiedere ai genitori un formale impegno a risiedere e lavorare nel Veneto fino al compimento del quindicesimo anno di età del figlio (non saremo mica così coglioni da agevolare negli asili nido i figli di gente che poi va a contribure al Pil di Mantova o di Pordenone, eh!); al di là che sulla poca serietà dei concetti di serietà e di legame si potrebbero dire molte cose (e io le dissi già il 18 agosto e il 19 agosto del 2010: e non sto a ripetermi); a me pare evidente che un simile provvedimento, in un mondo nel quale si vive oggi qui e domani là, e si cerca il lavoro dove lo si trova, eccetera, è semplicemente stupido.

Certo: la maggioranza del Consiglio regionale veneto, dominata dalla Lega Nord, l’ha adottato sapendo che è un provvedimento stupido. L’ha adottato solo per ragioni di bandiera. Ma non è che sventolando una bandiera si smette di essere stupidi.

Se condividete questa mia opinione, vi invito a firmare questa petizione. Se non la condividete, parliàmone.

Una lettera d’amore

14 febbraio 2017

di Demetrio Paolin

lettera

Cara Mara

Non so se queste parole arriveranno a te così come le scrivo.  Forse altri occhi che non sono i tuoi, i  tuoi occhi di spillo che guardavano il mare le poche volte che ci siamo stati, vedranno la mia calligrafia, ma nonostante i guardiani cercherò di parlarti chiaramente.

Qui dal carcere, tra le sbarre, vedo uscire la nebbia. Casale è così: un posto pieno di silenzio, che mi viene più facile pensarti in una delle nostre case sicure. Immagino a cosa pensi, immagino quello che senti ora rimescolarti nel sangue. Questo mondo e questa società, così come le abbiamo conosciute e vissute, sono destinate a esplodere. Noi saremo la miccia di questa apocalisse.

So che sorridi perché vedi in me il ragazzo cresciuto tra oratorio e messa. Eppure è così: il mondo è morente. Io lo vedo con nitore da questo angolo buio da cui mi è concessa la vista: tutto geme per la fine prossima. La natura, i pochi alberi che magri appaiono in lontananza, le nubi sparute nel cielo, la pioggia e le cornacchie abbandonate sembrano attendere il momento preciso in cui ogni cosa si svelerà. E io attendo con ansia il momento in cui non ci sarà più nulla di quello che siamo abituati a vedere, ma un mondo nuovo, un cielo terso, una felicità pura, che la sola idea di tutto questo mi rende gravido e partoriente, come se fossi un cavalluccio marino che feconda in sé i piccoli nascituri.

Ci saranno cadaveri lasciati per terra, lo sappiamo. Noi saremo visti come carnefici, ma è il prezzo che si paga per cambiare il mondo. La redenzione è un atto di violenza. Il Dio, in cui noi crediamo, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Marx, il Dio dei poveri è un Dio rabbioso che tira fuori i corpi dal nulla e li riporta in vita, che cambia verso alla terra e separa le acque…

È la nostra fede, la nostra gloria di rivoluzionari, sappiamo a cosa andiamo incontro; potevamo maledire il giorno della nostra nascita e la società in cui viviamo e invece ci siamo fatti strumenti di questo cambiamento.

Ora è venuto il tempo di chiudere questa breve lettera e mi prende una malinconia da quindicenne, stupida e impossibile da trattenere, penso a quando sono stato con te l’ultima volta prima dell’arresto e sono entrato nel tuo corpo.

Ti ho sussurrato che stavamo creando un mondo, separando la luce dalle tenebre, le acque dalla terra ferma, ma neppure questo giustifica i morti che faremo, perché abbiamo scelto –  nonostante l’amore e il bene che sentiamo – la violenza. Siamo armati e sappiamo che finiremo la nostra esistenza terrena sul marmo di un tavolo autoptico. Ci amiamo di un amore che non c’entra con la rivoluzione, ma che sacrifichiamo a essa.

E in questa rinuncia di noi stessi, siamo nuovi.

Con amore
Tuo Renato

Proviamo a fare un discorso serio sulla questione dei costumi da bagno? (Dove i costumi da bagno sono la cosa meno importante)

18 agosto 2016

di giuliomozzi

La faccenda ha guadagnato ieri la prima pagina del “Corriere della sera”; da ieri è quindi ufficialmente una faccenda d’interesse nazionale.

Tento un breve riassunto. A Cannes (che non è una località di mare qualunque: è Cannes) l’amministrazione comunale fa un’ordinanza con la quale vieta l’«accesso alle spiagge e ai bagni» alle persone «che non hanno una tenuta corretta, rispettosa del buon costume e della laicità, che rispetti le regole d’igiene e di sicurezza dei bagnanti nel dominio pubblico marittimo». In particolare, si vieta quell’abbigliamento che «manifesta in maniera ostentata un’appartenenza religiosa», perché in un momento in cui la Francia e i luoghi di culto religioso sono presi di mira da attacchi terroristici» ciò «rischia di creare disturbo all’ordine pubblico» (cito da La Stampa).

Il provvedimento era stato preceduto da altri, che per ragioni di sicurezza vietavano di portare in spiaggia bagagli voluminosi. Fin qui si capisce. Anche nelle stazioni ferroviarie italiane gli altoparlanti ripetono in continuazione l’avviso di non lasciare incustoditi i bagagli, pena intervento della polizia (ed effettivamente un paio di settimane fa la stazione di Milano è stata sgombrata a causa di un bagaglio incustodito: che, aperto dagli artificieri, ha rivelato un bizzarro contenuto di roba elettrica – non una bomba, comunque non un bagaglio normale; qualche giorno dopo in Piazza Duomo, sempre a Milano, ha destato allarme una scatola contenente inchiostro per stampanti). Ora, le ragioni di sicurezza si possono capire. Certi provvedimenti possono sembrare un po’ isterici (io non ho mai capito perché per salire su un aeroplano devi passare i controlli, e per salire su un treno no – e sì che tra Bologna e Italicus, non è che gli attentati siano mancati): ma non del tutto insensati.

Ciò che colpisce, nell’ordinanza del sindaco di Cannes, o almeno nelle motivazioni fatte arrivare alla stampa, è la confusione: motivi di sicurezza, motivi di igiene, motivi di buon costume, motivi di laicità, motivi affettivi. Di solito, dicono i manuali di retorica, quando si accumulano motivi è perché non ce n’è nessuno, o si vuole tacere quello vero. E quello vero sarebbe (ho visto concludere da molti, nell’intensissimo chiacchiericcio in rete) che il sindaco di Cannes è di destra, e i musulmani gli stanno sulle palle per definizione. Il che può starci, ma sinceramente non mi par che basti.

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“Tu non sei Dio”, di Andrea Colamedici e Maura Gancitano

10 giugno 2016

di giuliomozzi

tu-non-sei-dioTu non sei Dio, di Andrea Colamedici e Maura Gancitano, è un piccolo ma sostanzioso saggio divulgativo. Si propone uno scopo chiaro: descrivere sommariamente, come in un catalogo, le principali tendenze della “spiritualità” contemporanea.
E metto le virgolette alla parola “spiritualità”, perché nel mondo contemporaneo ciò che viene chiamato “spiritualità” (o in altri modi, ma intendendo sempre più o meno la stessa cosa) ha subito una trasformazione profonda e una moltiplicazione sconvolgente. Ormai, anche il supermercato ti propone la sottoscrizione della tessera di fedeltà come esperienza spirituale – o quantomeno, che secondo me è in parte lo stesso, identitaria (provare per credere: iscrivetevi a Despar Tribù e cominciate a raccogliere i Punti Cuore).
Tu non sei Dio non dirà nulla di nuovo al lettore esperto del tema; ma devo dire che anche a me, che un pochettino esperto lo sono, la sfilata dei movimenti, dei pensatori, delle imprese religioso-commerciali, eccetera, susseguitisi da fine Ottocento a oggi – be’, mi ha fatto una certa impressione. Così come mi ha incuriosito osservare il viaggiare – talvolta il vagare – di idee e concezioni da un movimento all’altro.

E poiché il libro mi è sembrato interessante, col permesso degli autori ve ne propongo l’indice e il capitolo conclusivo. Basta cliccare qui.

Dieci buoni motivi per non avere buoni motivi (per fare qualunque cosa)

20 aprile 2016
Questo sì che è un bel motivo!

Questo sì che è un bel motivo!

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Breve discorso fondamentalista

27 marzo 2016

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Diversi modi per dire la stessa cosa (facendola diventare ogni volta un’altra cosa)

2 marzo 2016

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di giuliomozzi

[Le espressioni segnalate con l’asterisco sono state proposte nei commenti in calce a questa mia noterella in Facebook. Essendo Fb un luogo non pubblico (benché molti non se ne rendano conto) non ripeto qui i nomi di commentatori e commentatrici. Chi vuole li trova lì].

Maternità surrogata.
Gravidanza per altri.
Gestazione per conto terzi (o: in conto terzi).
Genitorialità di sostegno. *
Coadiuvante di maternità. *
Stepgestation. *
Gestazione d’appoggio.
Dono di maternità.
Gestazione vicaria. * [aggiunto il 3 marzo]

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Che cosa è un tema etico?

8 febbraio 2016

di giuliomozzi

Leggo il comunicato, apparso nel blog di Beppe Grillo, con il quale si lascia (uso deliberatamente la forma impersonale, poiché il comunicato non ha firma) ai parlamentari del M5S “libertà di coscienza” nel voto sulla proposta di legge Cirinnà. La decisione è motivata da due ragioni: primo,

nella votazione online che si è svolta a ottobre 2014 non era presente alcun accenno alle adozioni [le stepchild adoption, o “adozione del figliastro” nelle coppie omosessuali] e gli iscritti del M5S non hanno potuto dibattere su questo argomento specifico,

e, secondo,

Questo è il punto in cui le sensibilità degli elettori, degli iscritti e dei portavoce MoVimento 5 Stelle sono varie per questioni di coscienza. […] Non si fa ricorso a un’ulteriore votazione online perché su un tema etico di questa portata i portavoce M5S al Senato possono comunque, in base ai dettami della loro coscienza, votare in maniera difforme dal gruppo qualunque sia il risultato delle votazioni.

La prima ragione è chiarissima (essendo, in sostanza, procedurale); la seconda mi è un po’ oscura. Al di là del fatto che qualunque parlamentare ha tutto il diritto di votare come ritiene giusto o almeno opportuno, indipendentemente dai “mandati” ricevuti dagli elettori, dai programmi elettorali o dalle decisioni della segreteria del suo partito; ciò che mi fa pensare è che la decisione circa la possibilità da parte di un figlio o di una figlia di diventare erede del compagno del padre o della compagna della madre (analogamente a come già oggi un figlio o una figlia può diventare erede della compagna del padre o del compagno della madre) sia considerata “tema etico”.

(E mi colpisce anche il sottinteso, ossia che su un “tema etico” non sia possibile raggiungere posizioni comuni, fare mediazioni, insomma mettersi d’accordo. Come se le scelte “etiche” avessero una radicalità maggiore di altre – mentre a me pare che l’etica sia cosa piuttosto volatile. E mi domando se, per dire, la ricorrente discussione sulla presenza del crocifisso negli uffici pubblici possa essere definita “tema metafisico”).

Buongiorno, sono un difensore della c.d. famiglia tradizionale

31 gennaio 2016

di giuliomozzi

Buongiorno, sono un difensore della c.d. famiglia tradizionale. Metto quel “c.d.” (cosiddetta) perché quello che non mi va giù, nell’uso del concetto di “famiglia tradizionale” che sento fare in giro, è che la parola “tradizionale”, anziché essere usata nel senso descrittivo, è usata in senso qualitativo: secondo l’idea che ciò che è “tradizionale” è buono ed è meglio. Tanti anni fa, in una trattoria, la cuoca ci propose un piatto affermando: “E’ fatto come lo faceva la mi’ nonna!”. Io domandai: “Ma sua nonna lo faceva bene?”; e la cuoca non seppe cosa rispondere. Ancora più anni fa, mi ricordo mia nonna, che avendo assunta una nuova signora per i servizi di casa, a ogni domanda di costei su come cucinare la tale o la talaltra cosa (perché, per l’appunto, ogni casa ci ha la sua tradizione), rispondeva: “Nel solito modo, cara”.

Purtroppo anche locuzioni del tipo “famiglia come una volta”, “famiglia come la faceva la mi’ nonna”, “famiglia senza additivi chimici”, eccetera, implicano (oggi come oggi) un qualche giudizio di valore. Forse “famiglia nel solito modo” no; contiene appena un’ombra di noia, ma un’ombretta; e rimanda alla statistica.

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Felice la chiesa che non ha bisogno di un papa!

1 dicembre 2015
Jorge Mario Bergoglio, in arte papa Francesco

Jorge Mario Bergoglio, in arte papa Francesco

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Il Cristianesimo non è una cultura

30 novembre 2015

di giuliomozzi

[Rubo il titolo a un saggio, ben più rilevante di questa noterella, di Mario Pomilio].

Il sindaco della mia città, Padova, millanta di voler compiere “controlli nelle scuole affinché venga garantito il mantenimento e l’insegnamento delle tradizioni cattoliche” (vedi). Periodicamente tornano su queste cose. Io non ne posso più. Mi fa schifo che un sindaco del tutto estraneo al cristianesimo (non una sua parola ne mostra un’eco) strumentalizzi a questo modo la mia fede; mi fa schifo che ci sia chi gli va pure dietro, e accredita i ragionamenti del tipo: “Se vogliono integrarsi, che si integrino”; mi fa schifo la stupidità di tutta la cosa.

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Francia: almeno smettiamola con le chiacchiere

16 novembre 2015

di Fulvio Scaglione

[Questo articolo è apparso ieri nel sito del settimanale Famiglia Cristiana. Lo riporto con il titolo originale].

E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’impronta presa da un dito, l’ unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’ esplosione della cintura da kamikaze che indossava.
Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente.
Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’ Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’ Europa.

Continua a leggere nel sito di Famiglia Cristiana.

Il secondo comandamento

19 gennaio 2015

di Raffaele Alberto Ventura

[Questo articolo è apparso l’11 gennaio scorso in Le parole e le cose.]

[…] Sicuramente sbaglia sotto vari aspetti chi afferma che i giornalisti [di Charlie Hebdo] «se la sono cercata», dando un giudizio morale che rischia di giustificare ex post l’azione dei terroristi. Anche Gesù Cristo «se l’è cercata»; qualunque persona che muoia in battaglia, invece di starsene tranquillamente a casa, «se l’è cercata». È un modo scorretto di porre la questione. C’è molto eroismo nel comportamento di Charb, ma questo non significa che dobbiamo condividere la sua battaglia. Un martirio non dovrebbe rendere giusta la propria causa per virtù retroattiva: se crediamo che le idee di Charlie fossero sbagliate e i loro «atti linguistici» pericolosi, se lo abbiamo detto e ripetuto più volte negli anni scorsi, dobbiamo continuare a dirlo. Se crediamo che una censura preventiva avrebbe potuto salvare delle vite, come spesso ha fatto la censura ai tempi delle guerre di religione europee, dobbiamo continuare a dirlo. E così facendo non diremmo qualcosa di «oscurantista» ma, al contrario, qualcosa di totalmente coerente con i principi della civiltà giuridica occidentale. Primo, perché la Legge non serve a punire i colpevoli sulla basi di un giudizio morale, tutt’altro: serve a proteggerli. Come il marchio di Caino, deve impedire le ritorsioni e arrestare il ciclo della violenza. Secondo, perché la laicità non è quella cosa che pretendono alcuni.
Laicità non è il diritto universale di provocare un altro per via della sua religione, ma precisamente il contrario ovvero il dovere di non provocare un altro per via della sua religione. Per come è stata sviluppata all’epoca delle guerre di religione, la laicità è un dispositivo utile a disinnescare i conflitti sociali. Si tratta di estromettere la religione dallo spazio pubblico, e questo include anche un tipo di presenza della religione particolarmente insidioso: la bestemmia. Se in molti ordinamenti la bestemmia è punita severamente è perché le sue conseguenze sono serie e incalcolabili. In simili situazioni, ostinarsi a difenderla «per principio»  —  senza valutare le conseguenze  —  è puro e semplice fondamentalismo. […]

Leggi tutto l’articolo in Le parole e le cose.

La persistenza della scarpa. Appunti sulla strage di Parigi

13 gennaio 2015

di Demetrio Paolin

Ogni volta fermo il fotogramma e cerco di capire. Il fotogramma che mi interessa non è quello del poliziotto giustiziato con il colpo di grazia o lo spostarsi misurato nei passi dei due uomini armati verso la macchina nera. Mi interessa un particolare: la scarpa che il terrorista salito dal lato passeggero raccoglie. È  questo oggetto che attira la mia attenzione. Cerco di riconoscerne la marca e il tipo. In questi giorni ho guardato il video più volte, cercando sempre di ficcarmi in testa, di puntellare nella mia memoria, l’immagine della scarpa un attimo prima che l’uomo armato la prenda e la nasconda alla mia vista.

La scarpa è il centro di ogni mio ragionare. Hai visto la scarpa?, dicevo a chiunque mi chiedeva o mi parlava dell’attentato di Parigi. Sì, sì mi dicevano, ho visto ma ti rendi conto, continuavano a dirmi, tutti quei morti. Io invece dicevo: certo i morti, ma la scarpa, la scarpa che viene persa e recuperata, quella scarpa lì, perché quella e non un’altra?  Gli amici mi hanno dato del complottista, altri invece hanno creduto che io fossi dalla loro parte di chi diceva: servizi segreti, puzza di fumo… depistaggi.

Io non credo nei complotti. Io penso alla scarpa.

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Sottovalutare (noterella)

9 gennaio 2015

di giuliomozzi

Ieri ho sentito dire non so quante volte: “Ma erano solo dei vignettisti!…”, “Facevano solo della satira!…”.

Il che significa, temo, che molti hanno perduta la percezione dell’importanza della satira. Non dico di quella sensocomunista e autorizzata che si vede – addirittura! – negli spettacoli della tv di Stato. Dico della satira alla Charlie Hebdo: quella che non solletica ma disturba, non fa ridere ma disgusta, non è allusiva ma apertamente oscena, non è irrispettosa ma brutale, non gioca ma mette in pericolo, non castigat ridendo mores ma urla la disperazione dell’impotenza (e afferma così la potenza della parola e del disegno).

Ipotesi di autofiction. Appunti su “Il desiderio di essere come tutti”, di Francesco Piccolo

21 gennaio 2014

di Demetrio Paolin

Esiste una canzone dei Pink Floyd dal titolo emblematico di Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving with a Pict che ha una particolarità. Ascoltandola ci si addentra in un bosco di notte, in cui insetti, animali e altre bestioline emettono il loro tipico verso. Siamo così portati a credere che gli autori del brano non abbiano fatto altro che lasciare un registratore in un bosco così da poter poi riversare i suoni così come sono sul disco. Questo renderebbe Several species non una canzone in senso lato, ma una specie di documentario sonoro, una cosa molto particolare e in linea con le scelte musicali del Pink Floyd e alla loro attenzione verso gli (si pensi a Mademoiselle Nobs).
C’è un però. In realtà i suoni e i rumori degli animali in Several non sono reali ma sono costruiti e sintetizzati da Roger Waters che li ha riprodotti con la sua bocca. Ciò che quindi l’ascoltatore credeva come reale è fittizio, ma così fittizio che suona reale.
La canzone del gruppo inglese mi è tornata alla mente, mentre cercavo di mettere in ordine le idee rispetto al romanzo di Francesco Piccolo Il desiderio di essere come TUTTI (Einaudi). Ho idea che Piccolo volesse nella sua opera fare qualcosa di smile a ciò che i Pink Floyd hanno fatto con il brano, utilizzando però la scrittura dell’Io.

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“Gli anni spezzati”, alcuni appunti

10 gennaio 2014
Emilio Solfrizzi nei panni di Luigi Calabresi

Emilio Solfrizzi nei panni di Luigi Calabresi

di Demetrio Paolin

Una cosa che colpisce immediatamente, vedendo anche pochi minuti della fiction andata in onda su Rai1 “Gli anni spezzati”, è che l’audio è fuori sincrono rispetto alle immagini. Ovviamente questo è un problema tecnico, dovuto credo alla post produzione della pellicola, ma per me ha un alto e un altro significato prettamente simbolico.

Il fuori sincro tra immagine e audio rappresenta benissimo tutta la difficoltà che la fiction ha di provare a dire la storia di quegli anni. È come se plasticamente gli autori, i registi e gli sceneggiatori lasciassero una spia della loro debolezza argomentativa e storica, come se chiedessero scusa di una rappresentazione così raffazzonata e poco credibile della nostra storia patria.

Nell’articolo di Raimo su Minima et Moralia c’è già una lunga e precisa disamina delle cose che non vanno in quella fiction, e quindi non mi dilungo su questi temi, ma vorrei provare a fare un discorso esclusivamente narratologico legato al discorso della vittima.

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