[Enrico Macioci (vedi qui la sua “storia di formazione”) ha pubblicato: Terremoto, Terre di mezzo 2010 (vedi); La dissoluzione familiare, Indiana 2012 (vedi); Breve storia del talento, Mondadori 2015].
Tempo fa postai su Facebook, per gioco ma nemmeno troppo, una frase in cui Cormac McCarthy disprezzava Marcel Proust, e aggiunsi di ritenere il francese inferiore a Dostoevskij: valanga di commenti, educati ma accalorati. Proust rappresenta oggi una delle poche figure letterarie davvero indiscutibili, un totem, un imperativo categorico, per tanti addetti ai lavori “il più grande scrittore di ogni tempo.” Ciò è indice, credo, di un’epoca oramai del tutto mondana e secolare; ma non è questo il punto.
Discutendo, oppure osservando i gusti di lettori e/o scrittori, mi sono reso conto che puoi capire molte cose di una persona dalle sue letture e da ciò che pensa di esse. La lettura è una TAC dello spirito, una lastra della psiche. Lo scarto fra Proust e Dostoevskij, che ancora negli anni ’60 a George Steiner risultava evidente, oggi si annacqua, perde di senso. E qual è lo scarto? Potremmo definirlo, in estrema sintesi, Dio. Vi pare poco? A me no.
Precisiamo. Non si questiona ciò che uno crede di credere o di non credere; c’entrano una postura intellettuale e spirituale, una radicalità e un’incandescenza che attengono allo spirito di un autore prima che alla sua abilità. E’ probabile che se ci attenessimo a parametri letterari Proust uscirebbe vincitore da un confronto con Dostoevskij in termini di stile, controllo della materia, capacità argomentative; potreste dunque ingiungermi di piantarla e tacere (e magari avreste ragione). Non è forse necessario e sufficiente, dal momento che parliamo di romanzieri, un vaglio letterario? La mia risposta è negativa perché la letteratura e la scrittura non coincidono, e perché alcuni scrittori spostano la frontiera più in là, fra le tenebre, “a nord del futuro”, citando Paul Celan. Proust fa letteratura, Dostoevskij esplora. Proust registra la realtà, Dostoevskij la amplia e perfino la scavalca – la crea? La dimensione di uno scrittore sta nella misura in cui affronta il mistero del mondo e di Dio (che Dio esista o meno, che il mondo esista o meno), e dunque il mistero di sé. Su facebook mi si spiegava, con cultura e passione, che Proust è ben uno scrittore metafisico, che scende eccome nell’abisso; io non lo penso affatto. Proust setaccia con incomparabile acume la superficie della coscienza – i ricordi, i sogni, le associazioni d’idee; le fogne però gli rimangono estranee. E’ troppo snob e troppo pavido per vedersela col Male, al massimo se la sbriga col male (traduci: la morte). E’ un nichilista, ma light. Sviscera la crosta, non la tira via. Proust non lotta con l’angelo; non fiammeggiano roveti nella Recherce. Proust ha un enorme talento ma resta un salottiero; Dostoevskij invece è un mistico che balza – goffo, disperato e ghignante – al di là del fosso; e nessuna intelligenza può colmare una tale balzo, può colmare il coraggio che esige.
Un altro romanziere assai rivelatore di chi lo ama e di chi lo odia è Stephen King. Fra amarlo e odiarlo corre la stessa differenza che corre fra schiacciare una mina antiuomo o schivarla. King è il simbolo dello scrittore “di trama”, laddove Proust è il simbolo dello scrittore “di linguaggio” (ciò che McCarthy, perfetto scultore di parole, giustappunto detesta). Coloro che prediligono la trama tendono a diffidare del linguaggio eccessivo – per esempio di un Gadda, un Joyce, un Céline o un D’Arrigo; mentre coloro che prediligono il linguaggio tendono a sbertucciare la trama. Devi quasi vergognarti, in effetti, di cercare una bella storia da leggere; trattasi di roba da bambini, e neppure granché svegli.
Stephen King, lo scrittore contemporaneo che più si occupa, filtrandole nella magia, delle faccende ultime dell’esistenza, viene considerato da certa critica (in calo, alleluia) “poco serio”. L’altra accusa rivoltagli è che sia “rozzo” – la medesima che il divino esteta Oscar Wilde rivolgeva a Charles Dickens, o Ben Johnson a Shakespeare… Fateci caso: King è esattamente l’opposto di Proust, ed ho il sospetto che McCarthy non gli riserverebbe il biasimo rifilato al francese. Ora, esistono di sicuro persone in grado d’apprezzare sia Proust sia King (non Harold Bloom, che nei riguardi di King nutre un astio prossimo all’odio e non perde occasione di ficcarlo in bizzarri duelli per poi farne strame); ma mettete queste persone alle strette e salteranno fuori aspre dicotomie, tipo: Proust produce arte, King mero consumo.
Anche Dostoevskij è stilisticamente piuttosto rozzo, né possiede la raffinatezza di Proust – le traduzioni non stravolgono, ritengo, la sostanza. E anche Dostoevskij prende di petto le faccende ultime tramite la “magia” – apparizioni, demoni, allucinazioni, deliri. Lo stesso possiamo affermare di Hermann Melville (uno dei numi tutelari di McCarthy…), che ci ha messo novant’anni a venir preso sul serio, e speriamo se la goda dalla tomba perché quaggiù lo trattarono come l’ultimo dei fessi o, nella migliore delle ipotesi, dei pazzi. Le ramificazioni sono infinite ma coerenti. La mia teoria non possiede basi scientifiche, tuttavia ammetterete che spesso i conti tornano. Per me tornano sempre. In genere, uno scrittore che non mi piace ama autori che non mi piacciono e respinge gli autori che amo. Penso a Piperno, romanziere che non mi attrae: anch’io vedo la grandezza da lui celebrata in Proust o Baudelaire o Philip Roth, ma essi non toccano le mie corde – e Proust per lunghissimi tratti mi annoia, il peccato più grave in assoluto. Funziona un po’ come nell’amicizia, no? E’ difficile stringere un rapporto d’uguale forza con due persone che fra loro non si prendono. La loro diversità c’impone una scelta. Sono pressoché certo di sapere cosa pensa Piperno di Stephen King… e chi sceglierebbe, pistola alla tempia (ma forse basterebbe una carota), fra Proust e Dostoevskij. E’ questione di pelle, e alla pelle come al cuor non si comanda.
Torniamo ai giganti: Nabokov, raffinato cultore della prosa, detestava Dostoevskij. Foster Wallace (che ammirava King) sentiva puzza d’ombelico in Roth e Updike. King ammira Salinger e non Bret Easton Ellis, che disistima Salinger ma adora… King. King detta l’eccezione che conferma la regola: Foster Wallace ed Ellis si detestavano, ma entrambi riconoscevano l’importanza dell’orco del Maine. Nemici fra loro, avevano un amico comune che li ignorava. Avanziamo nel labirinto: Proust ammirava Baudelaire ed era spaventato da Rimbaud, che riteneva “quasi sovrumano.” Ciò mi rammenta un accademico che conobbi anni fa, il quale dichiarava Rimbaud superiore a Baudelaire ma inquietante, un autentico mostro. Meglio studiare Baudelaire, concludeva soddisfatto, lisciandosi la barba. L’accademia ha scelto Baudelaire, ma la nostra è l’epoca di Rimbaud, è l’epoca dei mostri. Baudelaire chiude in pompa magna un ciclo millenario che già con Leopardi agonizzava; mentre Rimbaud inventa una rottura totale, inventa l’alienazione. Egli dovrebbe costituire per la modernità ciò che Dante costituisce per il Medioevo, e il fatto che ancora non accada è sintomatico proprio del nostro grado d’alienazione: siamo troppo alienati per accorgerci di esserlo. Nessun grande autore però sarà mai disconosciuto impunemente, per cui Rimbaud continua ad inquietare i più accorti – specie i poeti, che ne temono la forza entropica, il severo enigma. Ah, dimenticavo: potete scommettere che gli adepti di Baudelaire – i quali, tipo Roberto Calasso, guardano in tralice Rimbaud – coincidono con gli adepti di Proust (penso a Piperno e alle sue godibili pagine sul Corriere), i quali guardano in tralice Melville (fratello di sangue di Rimbaud, morirono a pochi giorni di distanza al termine di vite ugualmente crudeli), Dostoevskij o… Stephen King – se si degnano di girarsi dalla sua parte (non si degnano).
Ora, già so che parecchi salteranno su di nuovo a reclamare che l’uno non esclude l’altro, che si può godere King e gustare la suprema delizia di Proust e Nabokov, intingere l’occhio nelle pagine de I demoni e di Lolita, di Moby Dick e di Ritratto di signora con la medesima gioia, delirare al contempo per Rimbaud e Baudelaire, per Melville e Flaubert, per Conrad e Joyce, per Virginia Woolf e Graham Greene (insieme a George Simenon, il più sottovalutato di sempre); ed è vero, verissimo. Io sostengo però una cosa più sottile, cioè che esista una differenza di natura fra coloro che includono il problema di Dio e coloro che lo escludono, e anche fra coloro che raccontano una storia e coloro che raccontano una lingua – parlo per sommi capi, spesso gli scrittori oscillano e nell’opera d’un medesimo scrittore un nodo appare e scompare, annega e riemerge; i più estremi però battono il chiodo lì e solo lì, fin quando il chiodo si spezza o il martello esplode. Dipende da quanto sei disposto a rischiare, a fallire e a scoprire. A quale prezzo poi, ce lo mostrano le esistenze dei vari Rimbaud, Dostoevskij, Melville, Dickinson, Nietzsche, Trakl, Celan, Plath, Cvetaeva, Crane, Campana e compagnia. Esistenze che l’angelo ha marchiato con la sua spada di fuoco e che non si possono separare dall’opera perché sono l’opera. L’opera s’incarna e mette radici alla maniera in cui sosteneva la veggente Flannery O’Connor, e l’intelletto non è in grado di proiettarla al di fuori di sé. Dante, si narra, recava le piaghe dell’inferno sulla pelle; chi potrebbe supporlo di Petrarca?
Urge una breve precisazione. Sto forse sostenendo che chi affronta a gamba tesa il problema di Dio produce storie e chi non lo fa produce linguaggio? No; ma nemmeno lo sto escludendo. Dio, nei testi sacri, è proprio un racconto di senso, anzi è il racconto del senso, del senso dell’esistenza. Addirittura i testi sacri affermano, tramite la voce di Dio, che è Dio a parlare; quello è il suo romanzo. Possiamo – e dobbiamo – rileggerli infinite volte, eppure si tratta di narrazioni scarne, di una semplicità così densa e radiante da sbalordire. Nulla in esse devia dallo scopo primario, basico del raccontare una storia. L’uomo è una creatura che racconta di continuo, e Gesù è il migliore degli uomini e il migliore dei narratori; e chi padroneggia, chi scatena l’incendio del linguaggio più di lui? Chi più di lui ne sfrutta la formidabile potenza?
Nei romanzieri ciò può tradursi, a seconda del talento, dell’indole e dell’ambiente, in una sacralità più o meno esplicita, in un anelito più o meno forte. Richard Ford, stupendo cantore contemporaneo, non brucia quanto Dostoevskij; ma scommetto che McCarthy ha trascorso parecchie sere a leggerlo a lume di candela nel suo eremo giù a El Paso, Texas. E Kent Haruf? E Russell Banks? E John Williams? E Andre Dubus? E Raymond Carver? E Richard Yates? E Flannery O’Connor? Ed Alice Munro? Scommetto che McCarthy legge un sacco di autori meno sublimi di Proust ma più simili al protagonista del suo brutale Meridiano di sangue: inermi ed intrepidi, equilibristi senza rete sul canyon vertiginoso del “facciamo finta che”. Convivono nel raccontare una storia, e nel raccontarla bene (Dio o non Dio), un tocco da operaio e un tocco da asceta; non mi riferisco all’ascetismo di Marcel nella sua stanza dalle pareti di sughero, bensì all’ascetismo di chi ha l’ardire di rinunciare al proprio io pur di mettersi in ascolto dell’altro. Chi scrive storie è umile ed ascolta. Ogni storia degna è il risultato di un dialogo fra noi e il mistero.
Il dilemma, per concludere, non si può eluderlo; la nostra interiorità di lettori ne vibra; esso rappresenta la scatola nera della nostra sensibilità, preserva ciò che riteniamo essenziale e per cui, a livello profondo, viviamo. Non distribuiamo quindi patenti di merito o demerito; rimarchiamo però una differenza ottica fondamentale che implica l’assunzione di una responsabilità fondamentale – leggere, ebbene sì, non sarà mai un atto neutro: Proust o Dostoevskij? Joyce o Kafka? Baudelaire o Rimbaud? Henry James o Herman Melville? Thomas Pynchon o Cormac McCarthy? O ancora, venendo ad autori a noi più prossimi nello spazio e nel tempo: Svevo o Tozzi? Gadda o Morante? Calvino o Pomilio? Umberto Eco o Cristina Campo? Edoardo Nesi o Elena Ferrante? Siti o Moresco? Lagioia o Tonon? Sì sì, lo so, tutti e due o nessuno dei due… ma chi di più? E chi di meno? E perché? La lettura serve a conoscere meglio noi stessi. Niente di più vero e più feroce, a voler leggere sul serio.
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27 gennaio 2016 alle 09:27
“ Venerdì 8 marzo 1996 – Quelli che non riuscivano a capire come Proust avesse potuto scrivere duecento pagine per raccontare di uno che non riesce a prendere sonno figuriamoci se capirebbero uno come me che ne scrive duemila per raccontare di come non riesce a scrivere un romanzo. Si licet. “ [*]
[*] Lsds / 690
27 gennaio 2016 alle 10:07
Alla pelle come al cuor non si comanda, verissimo, un po’ quanto a me pare vero che la verità e la ferocia dovrebbero stare nel (provare a) conoscere se stessi anche – e a volte soprattutto – esplorando parti che di sé non si conoscono e che non si vorrebbero vedere, figuriamoci sapere. Di noi o degli altri, poco importa. Come poco importa, in tali circostanze, che Dio e il mondo esistano o meno, quel che importa – sempre a me pare – è chiedersi se, chiedersi come. Il modo in cui ci si chiede se e come o se o come, non dovrebbe fare differenza, per uno che proprio lo vuole indagare, che se lo chiede senza necessariamente dover giungere a una risposta. Anzi forse in special modo non approdando ad alcuna risposta, ad alcuna certezza, ché se uno si chiede è perché non sa. E se arriva a sapere sta rinnegando la domanda: no?
Non capisco chi, come si dice, vede bianco o nero: non sono due colori (o non colori che siano) talmente diversi da non poterli paragonare? Differenti nella sostanza, nelle sfumature, nei mezzi e nel fine. Si può avere una propensione maggiore verso l’uno o l’altro (la pelle, il cuore), ma non ci si può non immergersi in entrambi, per essere credibili. E se comunque alla fin fine, dopo profonda immersione, si sceglie categoricamente o l’uno o l’altro, come si può essere ritenuti credibili? In base a cosa? Rimane pur sempre una propensione, una personalissima opinione.
Certo tra scritture di trama e di linguaggio (come tra letteratura e scrittura) corre una differenza sostanziale, ma diffido di chiunque abbia letto King e lo ritenga “poco serio”: sono “poco serie” le sensazioni che ha avuto leggendolo? Di poco conto la parte di sé che ha esplorato leggendolo? E ditemi che non è arte, toccare corde del genere. E certo anche Proust di corde ne tocca, ma in maniera diversa, non più importanti o meno importanti, più alte (brrr) o meno alte. O più “colte”: doppio brrr. Anche Rimbaud, certo, anche Praga, Stevenson, Flaubert, Eco… e pure Rodari o Dahl: non vi hanno mai fatto un baffo? Se la risposta è sì (non vi hanno mai fatto un baffo), secondo me dovreste scendere dal piedistallo delle vostre certezze e farvi domande più oneste.
Non arrivo a difendere Fabio Volo, ok, per quanto, se proprio vi impuntaste, arriverei a consigliarvi di leggere di tutto, se veramente e ferocemente volete conoscere voi stessi o il mondo, ma mi rendo conto che qualcosa (molto) purtroppo (o meno) si deve sacrificare per mancanza di tempo. Assoluto, intendo.
E se sapete leggere di tutto – che comunque non è facilissimo – come fate a essere categorici, a scegliere tout court una cosa o l’altra? Premettete sempre che è un’opinione personale, che è pelle e cuore, va’. Siate umili e ascoltate, sia scrivendo sia leggendo. Amen.
[Inciso, visto che mi è venuto da citarlo: mi piacerebbe sapere quanti, tra i tanti che gli puntano il dito contro, l’abbiano letto, Volo. Assolutamente legittimo, diciamo pure giusto, indignarsi e criticare il fatto che sia ai vertici delle classifiche ma la critica in sé è a lui e a quello che scrive, secondo me senza averlo mai letto. Il che gira intorno allo stesso perno, o a uno simile: perché dare per scontato che sia una lettura indignante?
E qui ci tengo a precisare, visto che immagino ve lo stiate chiedendo, che sì, ho letto un suo libro e sì, è giustamente criticabile. Il punto, spero si capisca, è un altro.]
27 gennaio 2016 alle 10:13
Dio, nei testi sacri, è proprio un racconto di senso, anzi è il racconto del senso, del senso dell’esistenza. Addirittura i testi sacri affermano, tramite la voce di Dio, che è Dio a parlare; quello è il suo romanzo. Possiamo – e dobbiamo – rileggerli infinite volte, eppure si tratta di narrazioni scarne, di una semplicità così densa e radiante da sbalordire. Nulla in esse devia dallo scopo primario, basico del raccontare una storia. L’uomo è una creatura che racconta di continuo, e Gesù è il migliore degli uomini e il migliore dei narratori; e chi padroneggia, chi scatena l’incendio del linguaggio più di lui? Chi più di lui ne sfrutta la formidabile potenza? 🙂
27 gennaio 2016 alle 10:43
Scusa Enrico. Leggere non sarà mai un atto neutro, scrivi. E come non si può essere d’accordo? Ma puoi tornare, se vuoi su un concetto? Scrivi infatti. “rimarchiamo però una differenza ottica fondamentale che implica l’assunzione di una responsabilità fondamentale”. Noto – en passant – la ripetizione significativa (percussiva) dell’aggettio “fondamentale”. Non ho capito bene. Che cosa significa “l’assunzione di una responsabilità fondamentale” in merito alla lettura e alla lettura come rispecchiamento del “carattere del lettore”?
27 gennaio 2016 alle 10:58
Gli invasati (il linguaggio) sono a tutte le latitudini, poi la vita quotidiana (la trama) e’ un’altra storia. I primi sono generalmente infelici e martellano le balle alla seconda in ogni forma.
27 gennaio 2016 alle 14:19
Enrico, come già ti scrissi su Facebook (oppure lo pensai solamente?) il fatto che, fra le varie dicotomie che tu poni in essere, io mi senta sempre di “schierarmi dalla tua stessa parte” non mi impedisce di avere il dubbio che questo discorso soffra (come soffrono poi tutti i discorsi di questo tipo, mi sa) di un manicheismo che non ha basi univocamente accettabili da chi accetta di partecipare al gioco. Sono molto, molto d’accordo con te sulla questione della temperatura – dell’infiammarsi di quella cosa, potente, che sta nella natura e dentro l’uomo e lo spinge a scavare nella natura e in se stesso, ma non so se la contrapporrei allo stile. Malamud, o Mc Carthy stesso che tu citi, mi sembrano scrittori “di stile”, altroché. Così come Faulkner, che quando a sondare gli abissi che tu ami e io amo, scherza poco.
C’è anche un altro rischio, che mi sembra tu lambisca in questa frase: “Esistenze che l’angelo ha marchiato con la sua spada di fuoco e che non si possono separare dall’opera perché sono l’opera”.
C’è il rischio che, in nome del “primato della trama”, o della “vita sull’arte”, si finisca per valutare migliore uno scrittore dalla vita travagliata e fiammeggiante in confronto a uno scrittore che magari se ne è stato in casa in pantofole una vita. E questo mi pare abbastanza ingenuo: altrimenti, come disse qualcuno che non ricordo, basterebbe essere stato un tassista notturno criminale per essere un buon scrittore, e sappiamo che non è così. Altrimenti, per essere uno scrittore bisognerebbe fare la vita avventurosa di Hemingway (poi si va a leggere, e magari si scopre che Hemingway, per esempio, non è sto granché come romanziere, e a Steinbeck non è degno di pulire nemmeno le scarpe, per dire).
Insomma, in linea di principio posso affermare che mi sembra, da lettore, di cercare in quel che leggo la stessa “temperatura” che tu dici (e non solo da lettore: per continuare il gioco delle dicotomie, potrei dire Beatles o Rolling Stones? Cento volte Rolling Stones. Joy Division o Cure? Cento volte Joy Division. Nirvana o Pearl Jam? Cento volte Nirvana). Ma non credo che questa temperatura abbia, sulla linea opposta, in corrispondenza al freddo, proprio la lingua, il predominio del linguaggio. Voglio una lingua splendida, e la voglio in fiamme.
27 gennaio 2016 alle 14:25
@ enrico ernst
Intendo dire, con tutte le cautele del caso, che dovremmo domandarci con la maggiore profondità possibile perché un autore ci piace o non ci piace, e perché un autore ci piace più o meno di un altro. Ciò vale in particolare per chi, come me, scrive; ma vale un po’ per tutti. Se infatti, come credo, il principale compito e merito della lettura consiste in un allargamento di coscienza, possiamo forse collaborare a questo processo con vigile consapevolezza. Brutalmente, a un certo punto io ho cominciato a chiedermi: ma perché Marcel Proust (o Philip Roth, o moltissimi altri) non mi piace? Perché nonostante la sua manifesta grandezza non tocca le mie corde essenziali? Perché – non sempre ma spesso – mi lascia indifferente? C’è chi potrebbe rispondermi: perché sei scemo, o incolto, o insensibile eccetera. Io non potrei smentirlo categoricamente, ma se non altro ho provato ad andare un po’ più in là.
27 gennaio 2016 alle 14:41
Grazie Enrico. Sono allora – semplicemente – d’accordo con te. E anche per me tuttavia (come, mi pare di capire, per Sandro) il “due” (Dio e non Dio, linguaggio e trama, freddo e caldo ecc.) lo sento un poco stretto (stretto se si parla di letteratura e ancora di più se si parla del carattere o identità del lettore).
Ma capisco anche il bisogno di mettere sul ring i due pugili – almeno dal punto di vista retorico (agonico, per l’appunto). Se leggo in controluce il tuo testo, tra l’altro, e non volermene, sento il piccolo peso di una forzatura…
27 gennaio 2016 alle 14:44
@ sandro campani
Tutto quello che sostieni è giusto, e io lo condivido pressoché parola per parola. Colgo anche l’occasione per dirti che ho trovato la tua formazione dello scrittore molto consuonante con la mia.
Provo comunque a modulare meglio, anche per dare aria al dibattito.
Il mio discorso è molto manicheo, e come tale molto debole (o molto forte); in ogni caso non possiede basi di serietà, diciamo, accademica. E’ una cosa di pancia che qualcuno su facebook (Demetrio Paolin, per esempio) mi suggeriva di trasformare in un discorso di testa. Ma Demetrio Paolin mi sopravvaluta – o magari mi sottovaluta 🙂
Vero, Malamud e lo stesso McCarthy sono eccome scrittori di stile (lo rimarco brevemente, a proposito di McCarthy, nel mio pezzo); ma ho l’impressione leggendoli che lo stile sia al servizio della storia, che sia fogliame sul tronco e non edera che ricopre e soffoca il tronco.
Faulkner – ne parlavo sempre su facebook col mio quasi omonimo Vittorio Macioce – rappresenta un problema in questa sorta di schema che ho elaborato: stile rigoglioso, certo, ma costui scrive davvero dagli abissi. Qual è dunque il suo demerito ai miei occhi? Che in lui la storia – ben presente – non è abbastanza definita, e fatico a seguirla. In Conrad invece, altro maestro assoluto di stile, non fatico. Per Conrad è un apice assoluto. Faulkner si perde nella fantasmagoria verbale, e io la fantasmagoria verbale la accetto più volentieri nei poeti. La Saison en enfer è SOLO linguaggio (la lingua in fiamme di cui parli tu), benché venga spesso definita un diario spirituale, un’autobiografia allucinata o altro. Ma so bene, tornando a Faulkner, che si tratta dell’erede maggiore di Melville (che io adoro) e del papà di McCarthy (dalla cui sortita tutto il pippone è nato).
Sulla faccenda dell’angelo, chiarisco. Io porto esempi che mi sembrano documentare un fenomeno. Anche qui non ho prove. Ma mi sembra che superato un certo grado d’incandescenza l’arte vada a divorare la vita, che la vita non gliela faccia più a trattenerla; mentre Proust mi appare come un sommo caso di “trattenimento”. Però non mi riferivo a vite “avventurose”, sarebbe stata un’ingenuità eccessiva anche per me… 🙂 Prendiamo Stephen King, per il quale mi sono battuto: non fa altro che starsene rintanato nel suo staterello, e di lì crea universi.
Ah, concordo pure sul fatto che Hemingway sia un romanziere così così (però molti racconti sono spaziali).
27 gennaio 2016 alle 15:03
Bell’articolo.
Attingo dalla mia esperienza, e avanzo un’ipotesi. Qui si sta considerando la persona (lo scrivente, il lettore) come un monolito adagiato lungo una linea temporale (almeno a me pare che il discorso implichi questo; posso sbagliarmi). A me ad esempio è capitato di vivere lunghi periodi (di anni) in cui mi sono interessato per nulla a Dio, e periodi più o meno lunghi invece che sono risultati segnati dalla sua assenza (e, a tratti, da una subdola e infruttuosa ricerca), leggendo nei rispettivi periodi autori agli antipodi. Ho amato quindi Roth e Proust, e dello stesso amore, diciamo, ho amato McCarthy in un altro momento; lo stesso vale per Calvino e Pomilio (Pomilio l’ho scoperto da poco, a dire il vero – il Pomilio del Quinto evangelio; avevo letto un’altro Pomilio) e per Baudelaire e Rimbaud, Joyce e Kafka, eccetera. Ma io sono sicuro di aver vissuto molte vite (più di chi a questa affermazione pensa o reagisce dicendo, istintintivamente: “anch’io”). Forse esistono davvero lettori (uomini) monolitici lungo una linea temporale. E magari costituisco io una rara e per certi aspetti spiacevole perché imprevedibile eccezione. E se così non fosse…
(Solo King non sono mai riuscito ad apprezzarlo, a dire il vero. Non credo c’entri il suo essere uno scrittore fondamentalmente di trama. No, credo dipenda dal grado di necessità della sua scrittura, che al mio termometro – soggettivissimo – pare assai basso. Fortunatamente per King devo essere un caso isolato) .
27 gennaio 2016 alle 15:04
*un altro.
27 gennaio 2016 alle 15:08
Esempio che scompagina (forse).
King e Burroughs hanno avuto bisogno dello stravolgimento e dell’accelerazione della visione che danno le droghe (King ha avuto bisogno anche che sua moglie lo fermasse, Burroughs ne ha fatto un bersaglio per arma da fuoco). Ma se King è uno scrittore di trame sorprendenti e tenutissime, B. invece è uno scrittore non di trama, ma di violento caos compositivo, un surrealista insomma (da una parte Dostojevskij dall’altra Breton, che lo schiaffeggia nel suo “Manifesto”)… due scrittori “dagli abissi” ma due scrittori agli antipodi… e poi, per aprire il discorso ancora, è il caso di usare – per l’agone – il sintagma di “Dio”? Non ne sarei così così sicuro. Ma sono curioso di sapere cosa, i frequentatori di Vibrisse, ne pensano…
27 gennaio 2016 alle 15:57
“ Mercoledì 16 aprile 2014 – « Te viene la psoriasi », dice l’omone che, come me, ha la stampante in panne etc. Quando arriva la signora che vuole stampare gli inviti per la festa del suo bambino e che dice che, oggi come oggi, con meno di 700 euro a festeggiare non ci riesci, si apre, nel negozietto, un ddibbattito. Sul fatto che le mamme sono buone, e anche troppo. Io, non so perché, azzardo una massima: che le mamme, più sono buone con i figli e più, nel senso di mogli, sono « cattive » con i mariti. È stato a questo punto che il mio « amico di toner » ha detto della psoriasi etc. Poi, quando salgo in macchina, c’è uno che legge qualcosa e, quando dice « Albertine », capisco che è il solito vecchio, « datatissimo », Proust. E, prima, penso che è noiosissimo, ma poi, continuando a ascoltare, penso che non lo è per niente, proprio per niente. Basta non spazientirsi, basta ascoltare… “ [*]
[*] Lsds / 691
27 gennaio 2016 alle 17:22
> è il caso di usare – per l’agone – il sintagma di “Dio”? Non ne sarei così così sicuro. Ma sono curioso di sapere cosa, i frequentatori di Vibrisse, ne pensano…
Ovviamente non sarebbe il caso, ma scriverlo in casa di un secentista cattolico non e’ cortese eheh. Gran parte della scrittura e prima ancora della parola hanno una matrice religiosa, matrice che nel 2016 occidentale ha quasi del tutto superato l’iconografia grazie al progresso scientifico-tecnologico. Il problema e’ che la luce del pensiero e’ un gelido neon (la Terra pallina rocciosa nel vuoto nero fra miliardi e miliardi di altre palle rocciose o gassose, l’uomo come specie vivente non superiore a lombrichi e ratti) mentre quella calda della religione offre almeno un’illusione di senso e di immortalità. Così chi legge cerca una fuga dal gelo nel linguaggio invece che artefatti per conoscerlo e superarlo ossia la trama-azione. La letteratura, in questo senso, diviene imitazione di Dio o accordarsi al suo canto. Gli invasati e le invasate, appunto. Il passato come rifugio rispetto alla crudezza meccanica della vita non solo nostra.
27 gennaio 2016 alle 18:15
Ringrazio tutti e provo a rispondere.
@dm
Hai ragione, ma il fatto che dia ragione pressoché a tutti non significa che dia torto a me stesso… Il discorso lo concepisco come aperto, come una provocazione, spero sia chiaro.
Attraversiamo, in effetti, delle fasi. Ora ho 40 anni. A 30 anni idolatravo Proust e detestavo Moby Dick. Poi, rileggendo, ho ridimensionato in parte Proust ed eletto Moby Dick a massimo romanzo assieme ai tre o quattro titani di Dostoevskij, e di lì non mi sono più mosso. E sono pronto a scommettere che, campassi altri 40 o 50 anni, non cambierò più idea. Si cerca, e cercando si cresce, e può perfino capitare di trovare il focus, di poter dire eureka. Sottolineo poi qui il concetto, per me fondamentale, di ri-lettura.
Su King ti capisco. Io lo amo eppure non sottolineo quasi mai una sua frase, mentre i volumi della Recherce sono malconci a furia di penna. La frase di Proust sa essere di una bellezza sconvolgente, è una frase/mondo, ti avvolge nelle sue spire e ti inebria. King non è scrittore di frase ma di storia. I suoi libri ti arrivano interi alla tempia, come mattonate. King è un uomo rozzo che scaglia tomi, e anzi un unico immane tomo che è tutta la sua produzione (non fa altro che scrivere sempre la stessa cosa, non c’è uomo più ossessivo di lui). Così io lo concepisco e credo che i suoi assi nella manica siano l’immaginario e la voce. La sua forza, il segreto che gli consente di stregare tante persone è la capacità di parlarci all’orecchio di cose assurde eppure prossime.
@ enrico ernst
Su Burroughs non posso pronunciarmi, ne ho letto davvero troppo poco; ma non mi piaceva, ricordo. Invece non sono sicuro che King abbia avuto bisogno delle droghe per creare. Ne ha avuto di certo bisogno per fuggire.
Dio lo uso come abbreviazione, se mi è concesso, di un sacco di concetti quali trascendenza, metafisica, domande ultime ecc. Wittgenstein diceva: se anche la scienza rispondesse a tutte le proprie domande, non avrebbe nemmeno iniziato a rispondere alla più semplice delle mie. La scienza e la ragione da sole non bastano; e non dico per salvarsi o non impazzire, ma proprio per capire. Comunque la si giri, a me sembra che siamo immersi in un grosso mistero. E fra l’altro la fisica e la mistica paiono addirittura convergere, in molti tratti. Pensiamo a certe affermazioni di Einstein, Schrodinger o Ramanujan (e qui rispondevo anche in parte @ GiuseppeC). E ancora @ GiuseppeC: i Vangeli, che cito nel mio pezzo, non mi sembrano brani invasati bensì storie, storie incredibilmente potenti nella loro visionaria asciuttezza. Cioè non sono sicuro che non si possa trovare sollievo all’angoscia esistenziale in una storia, anzi penso il contrario. La lingua dà forma, ma la storia dà senso.
27 gennaio 2016 alle 21:47
Così facendo, mi sembra, contravvieni al secondo comandamento.
27 gennaio 2016 alle 21:56
“ Mercoledì 28 gennaio 2004 – La sera, soprattutto se alla tv non c’è niente, cioè quasi sempre, mi metto a letto con un libro. Il libro, da qualche settimana, è Proust – sì ho ricominciato a leggere la Recherche, e, devo dire, ogni volta è come se fosse la prima, tante sono le cose che si scoprono, che si vede che c’erano sempre state, e si immagina che ce ne siano perlomeno altrettante, se solo potessimo leggerla ancora, ripetere la lettura per un numero di volte che ci sembra del tutto ragionevole immaginare infinito. Però finisce sempre che, dopo poche pagine, lo chiudo e mi metto a dormire. Lo faccio senza rimpianti, tantomeno sensi di colpa. Perché è sicuro che mi piacerebbe continuare, ma è anche vero che più lo leggo e più mi convinco che il modo migliore di leggere Proust è dormirci sopra – sono addirittura sicuro che Proust sarebbe d’accordo. “ [*]
[*] Lsds / 692
28 gennaio 2016 alle 08:25
Purché non sia troppo di buonora, acabarra.
28 gennaio 2016 alle 08:43
“ 6 giugno 1987 – « Se coucher de bonne heure », si legge facilmente anche « se coucher de bonheur » che si potrebbe tradurre come « mi sono messo a letto di gusto » (leggo poi che il fatto è notato anche da Martinazzoli cit.) ma anche come « mi sono addormentato di felicità ». (Qualcosa da dire ci sarebbe poi anche di quel « bonne », di quella?) “. [*]
[*] Lsds / 693
28 gennaio 2016 alle 09:09
Facciamo “couchér avec une bonne heureuse”, e accontentiamoci.
28 gennaio 2016 alle 09:34
“ Domenica 18 giugno 2006 – Stamani, anche se non ne ho tanta voglia, ma, d’altra parte, ormai sono sveglio, sono sbarbato, sono vestito, sono uscito, sono tornato, ho persino comprato il giornale, ripenso a un diario: « 8 maggio 1984 – Anche la serva qui accanto non legge più. “ Non ho più tempo “, dice. ». A ripensarci, in quel diario c’è molto di strano. Mi ricordo la situazione: era la domestica dell’appartamento di fronte, forse era latino-americana, forse era soltanto meridionale, una donna piccola, scura, con uno sguardo un po’ impaurito, un po’ malizioso – c’è una malizia, nella paura – che io, in quanto uomo che-viveva-da-solo, uomo ancora giovane, uomo, ecco il punto, propenso agli « amori ancillari », insomma, mi avevano sempre attirato le serve, avevo notato subito, io, l’uomo che non faceva-niente-tutto-il-giorno, che aveva già smesso di fare il giornalista, che aveva cominciato a scrivere il diario, a non fare nient’altro che quello, l’uomo che non faceva altro che notare… Comunque ci incontravamo spesso, sul pianerottolo, ogni volta c’era una strana atmosfera, lei con il suo sguardo evidentemente ambiguo, io con la mia reticenza di solitario, di nullafacente, di post-facente, di uomo-che-nota… Deve essere stata una di queste volte, una di queste strane volte: lei, che forse si era affacciata dentro la casa, che aveva visto i libri – ce n’erano tanti anche lì, c’erano solo quelli nella mia casa, io non facevo altro che metterli in ordine, che stare a guardarli -, non sapendo forse che dire, disse che non aveva più tempo per leggere. Era evidentemente una balla, difficile immaginare che ce lo avesse mai avuto, d’altronde non era questo il punto, non era questo il messaggio. Il messaggio era il tempo, il non averne più. “ [*]
[*] Lsds / 694
30 gennaio 2016 alle 20:07
In linea di massima condivido, anche se quel “E’ questione di pelle, e alla pelle come al cuor non si comanda” per me funziona anche sulla qualità della scrittura. Non voglio dire che la scrittura debba essere necessariamente raffinata o colta (Proust, infatti, annoia anche me), ma che debba avere una personalità sufficiente a farmi sentire la voce dell’autore (e quella di Dostoevskij, ahimé, non ci riesce).
Il tutto mi ricorda un passo di un altro grande che qui non viene citato, Bolaño, che opera, parlando dei gusti di un farmacista colto, una suddivisione analoga non tra scrittori ma tra le loro opere:
“Una volta Amalfitano gli chiese, tanto per dire qualcosa mentre il giovane cercava sugli scaffali, quali libri gli piacevano e cosa stava leggendo in quel momento. Il farmacista gli rispose, senza voltarsi, che gli piacevano i libri tipo La metamorfosi, Bartleby, Un cuore semplice, Canto di Natale. E poi gli disse che stava leggendo Colazione da Tiffany, di Capote. Anche trascurando il fatto che Un cuore semplice e Canto di Natale erano racconti e non libri, i gusti di quel giovane farmacista colto, che forse in un’altra vita era stato Trakl o a cui forse in questa era ancora riservato il destino di scrivere poesie disperate come il suo lontano collega austriaco, erano indicativi di una preferenza netta, indiscussa, per l’opera minore a scapito dell’opera maggiore. Sceglieva La metamorfosi invece del Processo. Sceglieva Bartleby invece di Moby Dick, sceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard e Pécuchet e Canto di Natale invece di Le due città o del Circolo Pickwick. Che triste paradosso, pensò Amalfitano. Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore.” [Roberto Bolaño, 2666]
8 febbraio 2016 alle 16:06
Ho capito la metà della metà di uno che non ha capito un cazzo ma quello che ho capito mi ha dato una grande soddisfazione. Te lo scrivo perché magari ti fa piacere.
1 Maggio 2016 alle 10:00
@JR
Leggo solo ora, ma grazie, seppure con mostruoso ritardo
9 aprile 2017 alle 12:39
Credo che solo due siano i libri da leggere,
alla ricerca del tempo perduto e la pastorale americana.
roth rincorre proust il tempo e Ill non senso
della vita