Posts Tagged ‘Stefano D’Arrigo’
5 agosto 2017

di giuliomozzi
1. Sia chiaro che parliamo di “romanzi illeggibili” non nel senso di “romanzi molto brutti” (i romanzi molto brutti sono spesso assai facili da leggere), ma nel senso di “romanzi la cui difficoltà sembra, a quel che si dice, tale, da scoraggiarne la lettura”. L’esempio classico, che si fa sempre, e che quindi farò anch’io, è: Ulisse, di J. Joyce.
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27 gennaio 2016

Due scrittori a confronto
di Enrico Macioci
[Enrico Macioci (vedi qui la sua “storia di formazione”) ha pubblicato: Terremoto, Terre di mezzo 2010 (vedi); La dissoluzione familiare, Indiana 2012 (vedi); Breve storia del talento, Mondadori 2015].
Tempo fa postai su Facebook, per gioco ma nemmeno troppo, una frase in cui Cormac McCarthy disprezzava Marcel Proust, e aggiunsi di ritenere il francese inferiore a Dostoevskij: valanga di commenti, educati ma accalorati. Proust rappresenta oggi una delle poche figure letterarie davvero indiscutibili, un totem, un imperativo categorico, per tanti addetti ai lavori “il più grande scrittore di ogni tempo.” Ciò è indice, credo, di un’epoca oramai del tutto mondana e secolare; ma non è questo il punto.
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27 ottobre 2015
di Giuseppe Lupo
[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio
1. Ammettiamo che sia esistita, dagli anni Cinquanta ai Settanta, una linea di scrittori non riconoscibili nella divisione fra apocalittici e integrati, individuata da Umberto Eco nel 1964. Ammettiamo pure che le questioni della modernità, così come sono state declinate in Italia prima e dopo il boom, abbiano generato piste alternative sia alla cosiddetta letteratura del rifiuto, sia all’utopismo urbano che fa capo a Calvino. Se qualcosa del genere è stato prodotto, di sicuro avrebbe avuto in Mario Pomilio il suo capofila. I tratti distintivi non mancano e sono da rintracciare, oltre che nei pronunciamenti di un cristianesimo a forte vocazione laica, anche in quella particolare nozione di dissenso con cui egli si è posto di fronte ai paradigmi della Storia, certo non per chiamarsi fuori, per negarla o esautorarla, ma per travalicarne i risultati, per rifondare su altre regole il sentimento del vivere comunitario e dare azione compiuta alla voce inascoltata del Vangelo. In altre parole, per varcare la Storia e vincerne “la malinconia”, come avrebbe affermato egli stesso negli
Scritti cristiani (1979).
Sottolineare la natura profetica e politica dei libri di Pomilio, a venticinque anni dalla morte, dunque in una stagione ormai aperta ai bilanci, non significa sminuire i vincoli di parentela con l’entroterra religioso (che sono infiniti, inossidabili e fino a qualche decennio fa addirittura facile pretesto di ghettizzazioni culturali), semmai rileggerli quale manifesto di una lontananza da tutto ciò che si definisce civiltà contemporanea. Non condividere i caratteri di un’epoca vuol dire scegliere una strada di implicita disobbedienza, svolgere un’azione corrosiva nei confronti del momento in cui tocca vivere. A suo modo, disobbediente e corrosivo Pomilio lo è stato (come non ricordare almeno nel titolo il suo Contestazioni) e, senza ricorrere ai clamori della protesta e della rabbia, ha fatto suo il protocollo delle responsabilità morali che gravano sugli intellettuali e si è impegnato a cercare non il “senso dell’essere” ma il “senso del fare”, a seguire non tanto la “tentazione mistica” quanto l’“esigenza di razionalità”.
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Tag:Alessandro Manzoni, Gabriele Frasca, Georges Bernanos, Giuseppe Langella, Giuseppe Lupo, Italo Calvino, Jacques Maritain, Marco Beck, Mario Pomilio, Stefano D'Arrigo, Umberto Eco, Wanda Santini
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26 ottobre 2015
di Enrico Macioci
[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio
Che cos’è
Il quinto evangelio di Mario Pomilio? Alla domanda si può rispondere in almeno due maniere.
Anzitutto consideriamo l’oggetto narrativo. Pomilio lo pubblicò dopo prove quali L’uccello nella cupola, Il testimone, Il nuovo corso, Il cimitero cinese, e dopo un lungo blocco durante cui stese saggi e riflessioni e maturò risposte profonde alla sua crisi di uomo e scrittore, allestendo l’officina e forgiandosi gli strumenti per edificare il capolavoro. Veniva da un decennio di stasi creativa che lo portò ai confini del silenzio, e Il quinto evangelio rappresentò la svolta attraverso cui ribaltare le difficoltà in risorse e l’afonia in una diversa, più potente voce. Accade abbastanza spesso, del resto, che un autore consacri il proprio genio attraverso un solo, grande libro – pensiamo a Dante, a Melville, a Musil; è anche il caso di Pomilio.
Il quinto evangelio venne pubblicato nel 1975 (lo stesso anno in cui uscì Horcynus Orca di D’Arrigo), dunque in pieno postmoderno; tuttavia esso riassume, forse più di qualsiasi altro testo narrativo in Italia e in Europa, la migliore essenza postmodernista per poi scavalcarla. Si tratta cioè di un’opera aperta, metatestuale, labirintica, autoriflessiva, debordante, ramificata, potenzialmente infinita; è l’opera di un autore assai consapevole; è colta; ama gli intrighi; mette e si mette in scena; è insomma un’opera intelligente, che richiede al lettore una collaborazione attiva e quasi una co-creazione. Ciò che invece manca di postmoderno – mancanza che non stona e anzi aggiunge merito a Pomilio – sono l’ironia e il disincanto che finiranno per divorare parecchi scrittori a venire, determinando la deriva nichilista che Foster Wallace, già nella seconda metà degli anni ’90, denunciò con toni piuttosto allarmistici. Non si può scherzare (per) sempre, e Pomilio nel suo romanzo non scherza. Del resto Il quinto evangelio parla della questione delle questioni, la questione che per brevità potremmo chiamare del Libro. Quale prova più ustionante per uno scrittore?
Qualche titolo, in breve.
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26 ottobre 2015
di Gabriele Frasca
[Questo intervento di Gabriele Frasca apre il “convegno online” Il ritorno di Mario Pomilio, scrittore europeo. Vedi l’introduzione di Demetrio Paolin].
[Preleva l’intervento di G. Frasca in pdf]

Mario Pomilio
Nessuno può tenere in catene la parola. Con questa variazione da un ben noto passo deuteropaolino, che recita in verità “non s’incatena [
dedetai] la parola di Dio” [2 Tim 2, 10], iniziavo il saggio che ora accompagna la nuova edizione del
Quinto evangelio che con questo nostro convegno telematico in qualche modo festeggiamo; e ne sono personalmente felice, e grato a chi ne ha avuto l’idea. La citazione, tratta da quella stessa seconda lettera a Timoteo in cui l’apostolo (o chi per lui) esorta a rifuggire i più tipici piaceri intellettuali (i “vaniloqui profani” [2, 16] e le “ricerche insensate e non istruttive” [2, 23]), mi è servita in quell’occasione per tentare di seguire una doppia parabola: quella disegnata nel testo, vale a dire l’affannosa ricerca del vangelo nascosto che lo anima, e l’altra che il romanzo di Pomilio, letteralmente sparendo dopo l’iniziale successo, è come se avesse a sua insaputa intercettato. C’è qualcosa di sorprendente, lo sappiamo, nella storia stessa della ricezione di quest’opera, che è come se insomma avesse finito col contenere inconsapevolmente se stessa, e avesse messo in scena un dramma, un dramma culturale, quello per l’appunto della sparizione di un testo, che l’avrebbe vista inopinata protagonista. Nessuno può tenere in catene la parola, concludevo a un certo punto di quel saggio; sempre che un assordante rumore di fondo non la riduca a un bisbiglio.
Di motivi per questo strano destino che si è abbattuto sul Quinto evangelio, ho provato a fornirne in quell’occasione; eppure non si può dire che ne abbia trovato uno così convincente da acquietarmi. Di sicuro la svolta ultraliberista dell’intero sistema occidentale a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, e dunque la progressiva nascita dei monopolî editoriali, potrebbe bastare a motivare l’improvvisa sfortuna di un’opera che non nacque certo per intrattenere. Magari per far riflettere, persino per salvare, ma non di sicuro per limitarsi a far trascorrere il tempo da una stazione della metro all’altra, ove mai si fosse così fortunati da trovare un posto a sedere, o l’angolo giusto dove aprire il proprio libro senza sbatterlo in faccia al malcapitato vicino. Non c’è più tempo, e magari nemmeno spazio, in un mondo governato da quello che Alain Supiot ha recentemente definito la “gouvernance par les nombres”, per avere a che fare con un testo che non nasconde la voglia d’imbrigliare il lettore, e sprofondarlo nelle sue riflessioni. Con l’intento fra l’altro persino dichiarato di farne ben altro che una x valore di variabile. Sarà dunque questo il motivo della sua sparizione, fino alla meritevole edizione che stiamo in qualche modo salutando.
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Tag:Agostino Casaroli, Alessandro Manzoni, Ali Agca, Andrea Cortellessa, Carlo Emilio Gadda, Cesare Zavattini, Gabriele Frasca, Gary Becker, Giovanni Paolo II, Giovanni XXIII, Giuseppe Pittau, Italo Calvino, James Joyce, Mario Pomilio, Paolo Dezza, Paolo VI, Pedro Arrupe, Pier Paolo Pasolini, Renata Colorni, Stefano D'Arrigo, Tommaso Ottonieri, Vincent O'Keefe
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