La formazione dello scrittore, 24 / Enrico Macioci

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di Enrico Macioci

[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]

La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.

La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.

Ed eccomi alla seconda fase, che va dal 1989 al 2002. Conseguii senza infamia né lode un diploma di maturità classica e una laurea in giurisprudenza. Mi resi mediocre. Non volevo mi si notasse a causa della scrittura. Componendo i temi badavo che non mi sfuggisse nessuna figura ardita, nessun tocco d’originalità. Mi mantenni con invidiabile equilibrio e continuità attorno al sette o sette e mezzo, sulla soglia di ciò che in genere viene ritenuto normale. Ero molto infelice, più di quel che fossi disposto ad ammettere, una barca che gira a vuoto nell’occhio smorto d’uno stagno. Dopo la laurea in legge frequentai uno studio legale per la pratica forense; trascorrevo le mie giornate in mezzo a codici alti quasi come me, la mia noia era più vasta dell’oceano e cento volte più profonda; finché d’improvviso mi svegliai dal letargo. I miei risvegli tardano sempre parecchio a manifestarsi, ma in compenso sono piuttosto violenti. Decisi che avrei lasciato la pratica forense e ripreso a scrivere. Nell’estate del 2002 scappai a Cortina d’Ampezzo per un lavoro stagionale in un albergo (l’hotel Europa, dove consiglio a chiunque di soggiornare almeno una volta nella vita), ma Cortina fu la scusa per riprendere il filo interrotto da ragazzo; durante luglio e agosto, nella pausa pranzo concessami dall’incarico alla reception, buttai giù L’alba, un romanzetto di formazione che rappresentò il mio ritorno alla pagina scritta. Quali furono le sensazioni durante le febbrili settimane di stesura a mano su un bloc notes, lavorando in una stanzetta affacciata sul velluto delle abetaie ampezzane? Beh, il “dono” non era intatto ma nemmeno distrutto; non era potente come lo ricordavo ma nemmeno defunto; diciamo che lo trovai rigato, gualcito; però c’era ancora. A un livello istintivo capii presto che recuperare il terreno perso – semmai ce l’avessi fatta – sarebbe stata durissima; ma a livello razionale impiegai parecchio tempo per accettarlo. Ancor oggi non so dire dove sarei e chi sarei se non avessi spezzato la mia vocazione per tredici lunghi anni, e per giunta proprio nell’età più delicata, l’età della formazione, l’età della conformazione; le porte delle nostre esistenze si aprono e si chiudono di continuo, un po’ come accade nel film Sliding doors. Le porte si aprono e si chiudono e noi dobbiamo essere bravi e fortunati ad infilare quella giusta.

La terza fase va dal 2002 al 2010. Nella succitata estate del 2002 mi diedi a leggere come un pazzo, poiché mi mancavano le basi non dirò d’uno scrittore serio, ma d’un lettore medio; il mio ripudio era stato così brutale che durante la lontananza non avevo gettato uno sguardo a nessuno dei classici né tantomeno dei moderni. E’ impressionante anche solo dirlo: per tredici anni (a eccezione di Stephen King, che meriterebbe un capitolo a parte) non lessi nemmeno un rigo di narrativa. Dovevo redimermi: lessi Cervantes, lessi Shakespeare, lessi Goethe, lessi Tolstoj e Dostoevskij, lessi Proust e Joyce, lessi Kafka e Mann, lessi Conrad e Flaubert, lessi Stendhal, Balzac, Melville, Hawthorne, Cechov, Dickens, Austen, Bronte, De Roberto, Pirandello, Svevo, Tozzi; e tra un classico e l’altro saggiavo i moderni, Bernhard, Hemingway, Kerouac, Fitzgerald, Faulkner, Steinbeck, Céline, Dos Passos, Cortàzar, Perec, Capote, O’Connor, Gadda, Moravia, Morante, Fenoglio, Pavese; e poi ancora i contemporanei, senza fermarmi mai. Nella mia testa s’agglomerò un polpettone di stili, argomenti e poetiche; leggevo come mangia un uomo che ha rischiato di morire di fame, dunque assimilavo poco e male; scrivevo in quantità (e qualità) industriale; oscillavo fra opposti; cercavo il bandolo della matassa senza avere la più pallida idea di dove trovarlo; mi scoraggiavo; maledicevo il giorno in cui avevo deciso di smettere di leggere e scrivere, mai quello in cui avevo deciso di riprendere; e soprattutto non scrivevo quasi più poesia, o se la scrivevo me ne servivo a mo’ di diario, per fissare impressioni fulminee che avrebbero potuto svolgersi in forma più lunga; o ancora componevo prose poetiche, l’ultimo rigurgito lirico prima del silenzio. Ecco, direi che nell’ambito della terza fase l’evento cruciale sia proprio l’abbandono stavolta definitivo del talento che più presto e con più forza mi si è manifestato nella vita, ovvero l’attitudine a scrivere in versi, l’attitudine a scrivere un messaggio non mio, non appartenente cioè alla mia sfera raziocinante, agli schemi dell’ego. La prosa divorò la poesia. Non si trattò più d’una scelta ma d’un fatto fisiologico, un po’ come l’invecchiamento o l’erosione delle coste. La musa poetica, ripudiata in tenera età, me la fece pagare cara; proprio ora che la desideravo mi respinse e se ne tornò nella tenebra (o nella luce) in cui abita. Al suo posto il silenzio, un muro liscio e verticale. Leggevo e leggo tuttora alcuni poeti che mi sono cari, ma lo faccio di rado e senza il trasporto lavorativo ed emotivo che riservo alle opere in prosa. L’unica eccezione si chiama Arthur Rimbaud. Ma qui la faccenda diventa troppo lunga, per cui mi fermo.

La quarta e ultima fase, che va dal 2010 fino a quando vivrò (o fin quando la mia vena narrativa continuerà a sgorgare e qualcuno avrà voglia di investirci), è quella della pubblicazione. Ho pubblicato due libri, la raccolta di racconti Terremoto con Terre di Mezzo nel marzo del 2010, e il romanzo La dissoluzione familiare con Indiana nel marzo del 2012. Forse nei primi mesi del 2015 uscirà il mio terzo libro, con un editore importante. Posso ritenermi ragionevolmente felice di simili esiti; pochi anni fa erano inimmaginabili. E qui diventa obbligatorio spendere due parole sul gestore di questo blog. Vidi per la prima volta Giulio Mozzi nel gennaio del 2007 a Torino. La Scuola Holden organizzò un incontro fra editori, editor, talent scout e scrittori inediti; non ricordo nemmeno perché ebbi l’invito ma andai; ascoltai le varie tavole rotonde e la persona che mi colpì di più fu Giulio Mozzi, benché trovassi difficoltà a comprendere ciò che diceva a causa del tono di voce basso e cupo. Mi colpì la concezione che Mozzi aveva della letteratura e della propria attività di scouting; mi colpirono le cose che cercava quando leggeva dattiloscritti – cose improbabili e ambiziose e che osassero; infine mi colpì la sua cattiveria (strigliò senza tanti complimenti una ragazza che lesse compiaciuta un brano abominevole). Lo avvicinai durante una pausa caffè assieme ad altri, non dissi nulla e lui non m’inquadrò. Mi segnai i suoi recapiti ma passarono otto mesi prima che mi decidessi a spedirgli un romanzo intitolato L’assente. Si trattava d’un lungo e grottesco lavoro, dalla trama contorta e irrisolta, che però ardeva di qualche occulta energia. Glielo inviai un martedì o mercoledì; il sabato mi sposai; il lunedì successivo partii per il viaggio di nozze. Non appena giunto a Edimburgo, sull’autobus che dall’aeroporto conduceva in albergo, apparve sul cellulare un messaggio di Giulio Mozzi; manifestava un chiaro gradimento nei riguardi de L’assente. Volli subito contattare Giulio ma ero senza credito, così la mia moglie nuova di zecca domandò al mio suocero nuovo di zecca di farmi una corposa ricarica dall’Italia. Il suocero eseguì e telefonai a Giulio dalla camera d’albergo, con le valigie ancora da disfare, emozionato e incredulo. Parlammo. Da lì in un certo senso è iniziato tutto, tutto ciò che è diventato e diventerà concreto, intendo. Ci vollero ancora quasi tre anni prima che riuscissi a pubblicare ma un passo decisivo era stato compiuto. Avevo cioè trovato un aggancio con quel mondo volubile, nebuloso e impervio noto come editoria; avevo trovato qualcuno che garantiva sia la competenza per valutare i miei lavori sia la sensibilità per indirizzarmi sia la possibilità di promuovermi. Un filtro. Un fratello maggiore che mena pugni per te. Del resto entrambi i libri che ho pubblicato sono dapprima apparsi, come in una sorta di vetrina, su questo blog, per poi essere notati da Terre di Mezzo e Indiana [per Terremoto vedi qui, per La dissoluzione familiare vedi qui, gm]. Io però ho continuato a metterci del mio; ho continuato a produrre racconti e romanzi, a subire rifiuti (alternati a discreti successi), a pensare che ne valesse la pena a prescindere dalla pubblicazione e dai plausi, a prescindere da tutto tranne quella speciale voce che vuole parlare, che reclama tempo e spazio; nell’ultimo anno mi sono affidato a un bravo agente, che mi ha consentito di concentrarmi sul puro atto della scrittura senza preoccuparmi di ciò che gli ruota intorno. Ragion per cui il mio consiglio è: impegnatevi a fondo (e cioè con vigore e costanza, tanta costanza), comprendete e raffinate il vostro talento (il vostro talento è un’energia mobile), esplorate le vostre qualità e i vostri limiti e sommateli per diventare il potenziale che già siete; infine cercate una persona che conosca l’ambiente e unisca tre pregi: intelligenza, onestà, senso pratico. So che non sono facili da trovare assieme, dunque aggiungerò che Mozzi ne possiede addirittura un quarto: lui ama il suo lavoro, ed amare le cose degli altri è, ritengo, la più alta forma d’umiltà. Per non esagerare con le lodi, e per conferire il giusto tocco di realismo a queste ciance, concluderò aggiungendo che Giulio Mozzi ha un carattere più spinoso d’un istrice sorpreso dal lampo dei fari al centro della carreggiata, ma non si può avere tutto dalla vita. Del resto anch’io in qualche modo ho dovuto scegliere: poesia o prosa. Avrei preferito la prima e invece, per motivi in larga parte oscuri, ha vinto la seconda. Non si può avere tutto ma bisogna provare, e riprovare, e riprovare ancora. E forse qualcosa ne verrà fuori.

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16 Risposte to “La formazione dello scrittore, 24 / Enrico Macioci”

  1. RobySan Says:

    …concluderò aggiungendo che Giulio Mozzi ha un carattere più spinoso d’un istrice sorpreso dal lampo dei fari al centro della carreggiata, ma non si può avere tutto dalla vita.

    Ma dài, Macioci; quando l’ho incontrato sono riuscito persino ad abbracciarlo.

  2. marisasalabelle Says:

    Bello questo racconto!

  3. davide Says:

    “””E’ impressionante anche solo dirlo: per tredici anni (a eccezione di Stephen King, che meriterebbe un capitolo a parte) non lessi nemmeno un rigo di narrativa.”

    apperò enrico,impressionante si!

    cmq bel pezzo

  4. acabarra59 Says:

    “ Martedì 22 aprile 2003 – In fondo, penso, Roma è solo una Siena un po’ più in grande. È tutto lo stesso, a cominciare dalla Lupa. (Ma io sono sempre stato dell’Istrice – so io quello che voglio dire) “. [*] [**]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 83
    [**] Mi dispiace per gli altri, ma è il ritratto più bello che ho letto.

  5. davide Says:

    si forse uno dei pezzi piu belli letti finora

  6. chiappanuvoli Says:

    Conoscevo la storia, eppure mi ha emozionato lo stesso. E senza usare quel fattore X che viene fuori durante le nostre conversazioni, per giunta.

  7. enricomacioci Says:

    Ringrazio tutti color che hanno letto e apprezzato.

    @ RobySan
    Non ho mai abbracciato Giulio Mozzi. La prossima volta che lo incontro ci provo 🙂

  8. Subhaga Gaetano Failla Says:

    Uno scritto molto coinvolgente e appassionante. Ringrazio l’autore.

  9. Giulio Mozzi Says:

    Occhio, Enrico. ieri sono stato dall’arrotino a dare una sistemata agli aculei.

  10. sandrocampani Says:

    Bello. Condivido 🙂

  11. deborahdonato Says:

    Enrico, è davvero bello quello che scrivi.

  12. Il fu GiusCo Says:

    E’ interessante il discorso della “voce” e di come poi abbia trovato forma nella prosa. Posso chiedere a Macioci se ha letto John Milton ed eventualmente cosa ne pensa? Saluti.

  13. enricomacioci Says:

    Di nuovo grazie a chi è intervenuto, ha letto e gradito. Per me scrivere questo brano non è stato facile, benché sia stato bello. Scrivere infatti qualcosa che verrà pubblicato è un atto in cui si mescolano il massimo della visibilità con il massimo dell’intimità… Per quanti schermi si sovrappongano al nostro vero volto, quando scriviamo scriviamo di noi. Figuriamoci poi se andiamo a raccontare la nostra formazione di scrittori! Certo possiamo romanzarci su ma il nostro stesso romanzo parlerà di noi. Io ho cercato d’attenermi il più possibile ai nudi fatti. Naturalmente non ci sono riuscito, ma giuro che ci ho provato.

    @ Il fu GiusCo
    No, mea culpa, non ho mai letto Milton. E’ uno dei grandi – e ce ne sono – che finora ho trascurato. E spero che la voce poetica sopravviva non imbalsamata nella forma prosastica, ma in qualche modo ancora viva.

  14. acabarra59 Says:

    “ 10 settembre 1991 – « V’è stata e sarà sempre tendenza a parlar di sé e curiosità ad ascoltare tali narrazioni; nulla attrae di più i fanciulli che i racconti degli adulti e nulla diverte più questi che il riandare sugli anni passati, rivivere […] » (Jone Pompei, L’autobiografia nelle origini, nel medio evo in generale e nella letteratura italiana, 1906) “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 84

  15. chiara Says:

    Per me questo racconto è bellissimo.
    “La dissoluzione familiare” ce l’ho già da un po’, anche se ancora non l’ho letto. Adesso sono ancora più contenta di averlo. Grazie.

  16. Intervista a Enrico Macioci – Professione scrittore 13 | VITA DA EDITOR Says:

    […] Se invece volete saperne di più sull’apprendistato alla scrittura di Enrico Macioci, vi suggerisco di leggere il suo articolo pubblicato su Vibrisse: https://vibrisse.wordpress.com/2014/11/10/la-formazione-dello-scrittore-24-enrico-macioci/ […]

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