Posts Tagged ‘Umberto Eco’

“Buongiorno, lei è Giulio Mozzi?”, ovvero L’autofinzione messa alla prova del dialogo

1 Maggio 2018
Lo scrittore francese Serge Doubrovsky: il primo a parlare della propria opera come di una "autofinzione"

Lo scrittore francese Serge Doubrovsky: il primo a parlare della propria opera come di una “autofinzione”

di giuliomozzi

Sono in cucina, sto pelando gli asparagi. Il telefono portatile suona. E’ un numero ignoto. Rispondo.
“Buongiorno, lei è Giulio Mozzi?”, dice una voce maschile leggermente rauca.
“Sì, buongiorno”, dico, “lei chi è?”.
“Be'”, dice la voce maschile leggermente rauca, “a questo punto potrei dire che sono Giulio Mozzi anch’io, come tutti”.
“Bene, Giulio Mozzi”, dico. “Mi dica”.
“Ero l’altro giorno lì a Milano, alla Statale”, dice Giulio Mozzi, “a sentire la sua lezione sull’autofiction“.
“Non pronunci all’inglese”, dico. “Semmai alla francese”.
“E cioè?”, dice Giulio Mozzi.
Autofiction“, dico. “Oppure può dire, italianamente, autofinzione o finzione di sé”.
“Finzione di sé mi pare brutto”, dice Giulio Mozzi, “mi sa una roba di simulazione, gesuitica…”.
“Ho sempre avuto un’ammirazione incondizionata per i gesuiti”, dico.
“D’altra parte”, dice Giulio Mozzi, “lei ha dichiarato più volte di essere un uomo del Seicento”.
“Sì”, dico. “Il barocco è il mio ambiente naturale, il gesuitismo è la mia forma mentis. Ma è di questo che lei voleva parlare?”.

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Come sono fatti certi libri, 16 / “La Bibbia”, di Dio (prima parte)

13 agosto 2017

Come sono fatti certi libri 16 la bibbia di dio prima parte

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Come sono fatti certi libri, 5 / “Tristano”, di Nanni Balestrini

23 luglio 2017

di giuliomozzi

[In questa rubrica vorrei pubblicare descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa io intenda qui per “forma” risulterà, credo, evidente. Se altri volessero contribuire, si facciano vivi in privato (giuliomozzi@gmail.com).]

Nanni Balestrini nel 1961

Cominciamo leggendo. Il libro in questione, Tristano di Nanni Balestrini, è composto di capoversi – ma preferirò chiamrli “lasse” – di lunghezza pressoché uguale, separati da una riga bianca. I capitoli sono dieci. Ogni capitolo, a occhio, consta di un identico numero di lasse. Ne prendo una a caso – la prima che trovo citata per intero in rete, così mi risparmio la fatica di copiare:

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Complessità/semplificazione: tre specie di opere

18 aprile 2017

Due eroi della narrativa d’intrattenimento

di Alberto Cristofori

[Ricevo e volentieri pubblico. Altri articoli sullo stesso argomento. gm]

La discussione innescata da Gilda Policastro e poi sviluppata da Giulio Mozzi e altri [Alessio Cuffaro, Valentina Durante, Edoardo Zambelli, Alessandro Canzian, gm] sullo spazio gestito da quest’ultimo [e altrove, gm] ha suscitato in me qualche riflessione che spero possa risultare utile. Provo a dire sinteticamente.

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“La mistificazione”, di Carlo Della Corte e Alcide Paolini

28 giugno 2016

di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]

mistificazioneI lettori saranno tolleranti, così spero e mi auguro, se per una volta il loro umile bibliofilo si azzarderà a trattare di un’opera, non solo con poca fatica reperibile (benché da lungo tempo fuori commercio) ma addirittura – così mi si dice – esistente. D’altra parte, tràttasi di un’opera (e qui sappiamo di stuzzicare la curiosità del nostro sempre cortese ospite) che tratta a sua volta di letteratura (se condizione d’esistenza per l’opera è la sua circolazione) sommamente inesistente: ovvero inedita. Riportiamo per intero – data la sua illustrativa pregnanza – il titolo dell’opera in questione, così come lo reca – in una ripresa o parodia dell’uso antico – la copertina: La mistificazione. Un saggio di Carlo Della Corte e Alcide Paolini su lettere, poesie, suppliche, brani di romanzi, racconti di tutti gli aspiranti scrittori. Una antologia del sottobosco letterario, uno sconcertante panorama dell’incultura. Pubblicato in Milano per i tipi di Sugar editore. L’anno è il 1961. E, a quel che ci risulta, codesto non corposissimo libro (duecento pagine, cinquanta di saggio iniziale che evidentemente si vuole socioantropologico e politico, e centocinquanta di raccolta documentaria, o antologia degli orrori) costituisce il primo e finora unico tentativo di rappresentare seriamente la “letteratura inedita in Italia”, ovvero la produzione letteraria e scritturale nazionale che non trova via di pubblicazione – ed è, vale la pena di ricordarlo, massicciamente preponderante su quella che invece l’editoria, buontà sua, manda alle stampe e alla distribuzione.

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“La livellatrice”, di Luigi Mercantini

25 giugno 2016

di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]

mercantiniEssendo perenne la tentazione – e in filologia soprattutto – di confondere la causa con l’effetto, non starò qui a discutere se l’autore del romanzo La livellatrice (metto le mani avanti: trascurabilissimo romanzo; rilevante quasi solo come campione d’un genere) abbia trascelto uno pseudonimo su suggestione del titolo prescelto, o se dall’illustrità di un nome magari per meri motivi ereditari portato (o per patriottismo antenatale) sia sgorgata l’intuizione del titolo: come che sia, il titolo è quello e il nome (faccio eco: nomina nuda tenemus) è quello. Analogamente: che il nome della casa editrice – editrice di questo unico libro, stanti le mie ricerche – faccia riferimento alla dea dell’amore anticamente greca o, stante la grafia, (e il contenuto dell’opera, di cui poi diremo), a un’attricetta del porno particolarmente talentuosa nello squirting (e sia consentito al vostro bibliofilo di non mettere il link a Wikipedia, per stavolta: se proprio v’interessa, e non avete già pratica, fatevi le ricerche da voi) – è cosa d’imporanza minima. Again, faccio eco: il testo è là; e parla da solo; o borbotta, bofonchia, grugnisce almeno.

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“La vita in posa”, di Lillo Garlisi

25 febbraio 2016

di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]

lillo_1bA volte gli editori si lasciano tentare dalla scrittura: così Giulio Einaudi, così Valentino Bompiani, così altri; e più spesso gli scrittori si lasciano tentare dall’editoria, e qui la lista sarebbe lunghissima: da Elio Vittorini a Vittorio Sereni, da Cesare Pavese a Italo Calvino, da Lorenzo Montano a Fruttero & Lucentini, eccetera, fino al recentemente scomparso Umberto Eco (dal 1959 al 1975 dipendente di Bompiani, e dipoi fino alla morte consulente): per un’informazione completa non posso che rinviarvi a questa vertiginosa lista, peraltro non aggiornatissima. Che dire dunque di Calogero Garlisi, universalmente noto come Lillo, fulcro gestionale di una pluralità di marchi editoriali (dal tecnico-professionale Novecento al “politico” Melampo, dal letterario Laurana all’elettissimo Versus destinato a palati giuridici), consulente aziendale di prestigio? Egli è popolarissimo in Facebook per una sua pregnante peculiarità: anziché, come tutti, farsi gli autoscatti (quelli che oggidì, orrendamente, sono chiamati selfie), Garlisi viaggia col fotografo appresso.

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Dimmi chi leggi e ti dirò chi sei

27 gennaio 2016
Due scrittori a confronto

Due scrittori a confronto

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci (vedi qui la sua “storia di formazione”) ha pubblicato: Terremoto, Terre di mezzo 2010 (vedi); La dissoluzione familiare, Indiana 2012 (vedi); Breve storia del talento, Mondadori 2015].

Tempo fa postai su Facebook, per gioco ma nemmeno troppo, una frase in cui Cormac McCarthy disprezzava Marcel Proust, e aggiunsi di ritenere il francese inferiore a Dostoevskij: valanga di commenti, educati ma accalorati. Proust rappresenta oggi una delle poche figure letterarie davvero indiscutibili, un totem, un imperativo categorico, per tanti addetti ai lavori “il più grande scrittore di ogni tempo.” Ciò è indice, credo, di un’epoca oramai del tutto mondana e secolare; ma non è questo il punto.

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“Invivible Cities”, di Scott Emerson et al.

22 gennaio 2016

di Ennio Bissolati

[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]

diversitySe Le città invisibili di Italo Calvino è, senz’ombra di dubbio e a livello planetario, il libro (letterario) più amato dagli architetti e dagli urbanisti (ancor più di Flatland di E. A. Abbott, e scusate se è poco), questo volume collettivo provocatoriamente intitolato Invivible Cities (e pubblicato dalla Prince Town Diversity Press, casa editrice di cultura anarchica, antiaccademica e antiistituzionale) si candida a diventare il libro più odiato. Sembra che negli Usa sia diventato irreperibile in poche settimane: pur di farlo sparire, diverse associazioni professionali di architetti e urbanisti (da quelle parti, si sa, non esiste nulla di simile ai nostri ordini professionali) ne avrebbero fatta incetta. Noam Chinamsky, del Department of comparative irrelevance della South Park University, ha denunciato l’esistenza di una “congiura dei professionisti” e ha tentato di adottarlo come libro di testo ufficiale: ha incontrato però la rigida opposizione del senato accademico.

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Un libro, un luogo: Mario Pomilio e Santa Restituta

4 novembre 2015
Duomo di Napoli, Cappella di Santa Restituta

Duomo di Napoli, Cappella di Santa Restituta

di Antonella Cilento

[Il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio si è concluso. Nel corso del convegno abbiamo tuttavia ricevuto ulteriori contributi, che volentieri pubblichiamo. Questo articolo di Antonella Cilento apparve nel quotidiano di Napoli Il Mattino il 7 dicembre 2014].

Di Mario Pomilio, in Italia, pochi si ricordano, e fanno male. Peggio ancora, pochi hanno letto oggi Il quinto evangelio, che, uscito nel 1975, si stagliava allora, come adesso e anche di più, fra i capolavori assoluti della seconda metà del secolo e come un anticipazione di narrazioni che si sarebbero tradotte in fenomeno, che avrebbero fatto gridare alla rinascita del romanzo dopo la stagione del saggismo, gli anni Settanta, e che in realtà erano più centoni di ottima fattura che autentiche avventure letterarie, ovvero Il nome della rosa di Umberto Eco. Ma forse era di questa grande stagione di fini autori, come Pomilio era, anticipare in silenzio, come in fondo accadeva – e ne parleremo – al Giuseppe Patroni Griffi di Scende giù per Toledo, diretto antesignano dell’opera innovativa e amata di Pier Vittorio Tondelli. Sarà che a Napoli persone, cose e scrittori si nascondono e si dimenticano benissimo, come sapeva Gustaw Herling, il solo che fra i contemporanei penso vicino all’opera di Pomilio sia pur su basi del tutto diverse, che, come Pomilio, a Napoli venne a vivere e a morire, quasi in silenzio. Ma Pomilio scelse anche un’altra condizione, molto rara: da napoletano d’adozione, era nato in Abruzzo e a Teramo avrebbe dedicato lo sfondo di altri suoi romanzi, della città non parlò mai e non la fece mai protagonista di alcun suo scritto. Dunque, oggi, dovendo scegliere un luogo da connettere a questo romanzo lo farò in totale arbitrio, non pensando alle scuole pubbliche dove pure insegnò, da via Foria a via Andrea D’Isernia, ma al senso del nascosto, del cancellato, di quella menzogna che in fondo è verità manipolata, come si legge in questo romanzo, e cioè da Santa Restituta, ovvero da quel che resta della grande chiesa bizantina, la più antica della città e ai tempi la più grande, da oltre un millennio nascosta e divorata dal Duomo.

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Tramandato per secoli, sparito negli anni ʼ80. “Il quinto evangelio” tra finzione narrativa e realtà editoriale

28 ottobre 2015

di Mario De Santis

[continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio

Mario Pomilio

Il quinto evangelio di Mario Pomilio, letto oggi, spiazza ancora di più rispetto a quando è uscito. Sottoposto a differenti inattualità, tanto da farne una sorta di libro a suo modo distopico, nel senso che è come un monolite capitato in un’epoca sbagliata. Provo a ragionare su questi due punti parlando di ciò che sta fuori dalla soglia del testo e dentro esso. La casa editrice L’Orma lo recupera dall’oblio editoriale e da un’epoca storica entro la quale era così ben collocato – il 1975 della pubblicazione, la discussione post-conciliare, il movimento cattolico che si confrontava con le istanze sociali eccetera. Da un lato lo colloca nelle stesse librerie dove hanno successo romanzi che agitano spettri di un cristianesimo medioevale, ombroso e templare, ritenuto ancora capace di influire sul nostro mondo – ecco i successi di Dan Brown su tutti o in Italia di Carrisi – un cristianesimo che sembra tuttavia più una maschera da videogame che un’entità reale.

È curiosa la coincidenza tra il narrato letterario e la vicenda editoriale, con le debite proporzioni: un libro scomparso, che riemerge, è questo il tratto che unisce il plot del romanzo e la sua disavventura culturale. Il romanzo in sé ebbe successo, con diverse edizioni, e poi fu inghiottito dall’oblio, non assoluto, negli anni dopo il 1980, ma di fatto non era più ristampato e dunque reale. Riappare oggi, in una società italiana ampiamente secolarizzata che non frequenta, se non una minoranza, le chiese e ancora meno la diretta parola di Dio, i libri evangelici, la Bibbia. E in un paese di non lettori, in un paese di cattolici di facciata e certo non frequentatori delle Scritture, che senso ha riproporre un libro come quello di Pomilio? Se il contesto in qualche modo può legarsi a un libro e illuminarne una parte del senso, c’è da dire tuttavia che l’inattualità di Pomilio rispetto all’uditorio del pubblico italiano si ribalta in kairos: arriva al momento giusto, se pensato nella coincidenza del mutamento indotto dall’istanza pauperista, di apertura, che il Papato di Francesco sta facendo emergere. Il contenuto del Quinto evangelio ridiventa ancora una volta attuale – di fronte a una Chiesa curiale, politica, conservatrice e al tempo stesso fortemente compromessa con il secolo, dal punto di vista economico e politico, come era stata e in parte è quella che dominava la scena fino all’elezione di Bergoglio. Cosa lega il destino di un romanzo come Il quinto evangelio? La questione della fede nella parola letteraria collegata alla presenza sociale della fede cattolica, da quegli anni in poi. Qui si si può provare a sovrapporre “il cattolico medio italiano” al “lettore medio italiano”.

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Mario Pomilio, uno scrittore né apocalittico né integrato

27 ottobre 2015

di Giuseppe Lupo

[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].

Mario Pomilio

Mario Pomilio

1. Ammettiamo che sia esistita, dagli anni Cinquanta ai Settanta, una linea di scrittori non riconoscibili nella divisione fra apocalittici e integrati, individuata da Umberto Eco nel 1964. Ammettiamo pure che le questioni della modernità, così come sono state declinate in Italia prima e dopo il boom, abbiano generato piste alternative sia alla cosiddetta letteratura del rifiuto, sia all’utopismo urbano che fa capo a Calvino. Se qualcosa del genere è stato prodotto, di sicuro avrebbe avuto in Mario Pomilio il suo capofila. I tratti distintivi non mancano e sono da rintracciare, oltre che nei pronunciamenti di un cristianesimo a forte vocazione laica, anche in quella particolare nozione di dissenso con cui egli si è posto di fronte ai paradigmi della Storia, certo non per chiamarsi fuori, per negarla o esautorarla, ma per travalicarne i risultati, per rifondare su altre regole il sentimento del vivere comunitario e dare azione compiuta alla voce inascoltata del Vangelo. In altre parole, per varcare la Storia e vincerne “la malinconia”, come avrebbe affermato egli stesso negli Scritti cristiani (1979).

Sottolineare la natura profetica e politica dei libri di Pomilio, a venticinque anni dalla morte, dunque in una stagione ormai aperta ai bilanci, non significa sminuire i vincoli di parentela con l’entroterra religioso (che sono infiniti, inossidabili e fino a qualche decennio fa addirittura facile pretesto di ghettizzazioni culturali), semmai rileggerli quale manifesto di una lontananza da tutto ciò che si definisce civiltà contemporanea. Non condividere i caratteri di un’epoca vuol dire scegliere una strada di implicita disobbedienza, svolgere un’azione corrosiva nei confronti del momento in cui tocca vivere. A suo modo, disobbediente e corrosivo Pomilio lo è stato (come non ricordare almeno nel titolo il suo Contestazioni) e, senza ricorrere ai clamori della protesta e della rabbia, ha fatto suo il protocollo delle responsabilità morali che gravano sugli intellettuali e si è impegnato a cercare non il “senso dell’essere” ma il “senso del fare”, a seguire non tanto la “tentazione mistica” quanto l’“esigenza di razionalità”.

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La formazione dell’insegnante di scrittura creativa, 5 / Antonella Cilento

22 gennaio 2015

di Antonella Cilento

[Chi volesse proporsi per la rubrica dedicata alla formazione dell’insegnante di scrittura creativa – che esce il giovedì – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Antonella per la disponibilità. gm]

antonella_cilentoSono ormai trascorsi ventidue anni dalla prima lezione di scrittura che tenni nell’asilo di Esperimento 20, a Napoli, come attività sperimentale parallela alla formazione che facevamo, una ventina di persone di varia età, da ormai sei anni nel sottoscala dell’asilo reichiano.
Avevo iniziato quando ne avevo grosso modo diciannove, l’associazione si chiamava La Bottega del Liocorno, il progetto Teatro dell’Anima. Alla prima lezione, per coincidenza il giorno del mio compleanno, eravamo in sei. Una delle allieve di allora, Laura, sarebbe rimasta un’amica per tutti gli anni a venire e, a un certo punto, avrebbe fatto anche da ufficio stampa alle mie iniziative.
E fra le allieve, per paradosso, c’era anche la mia prima insegnante di scrittura creativa (e l’unica, essendo nel 1993 la questione letteralmente agli albori e avendo io mancato, ahimè, alcune lezioni, pochissime prima di morire, tenute a Napoli da Domenico Rea), ovvero Gabriella Ventrella, con cui avevamo seguito, anche lì in pochissimi, un corso durato alcuni incontri.
Nel 1993 l’unica scuola di scrittura già esistente in Italia era Omero a Roma – e a anche lì, un giorno, andai con un mio allievo di allora a seguire una lezione. E prima ancora c’erano state, purtroppo lontanissime per le mie finanze ai tempi, le magnifiche e indimenticabili lezioni di Giuseppe Pontiggia, che si trovano in parte registrate per Radio Tre e che ancor oggi mi sembrano il non plus ultra dell’insegnamento della scrittura e vado a riascoltare quando devo imparare qualcosa di nuovo.

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La formazione dello scrittore, 25 / Sergio Garufi

17 novembre 2014

di Sergio Garufi

[Questo è il venticinquesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Sergio per la disponibilità. gm]

sergio_garufiTutti ce l’hanno su con l’imprinting, come le oche di Lorenz. Si parte sempre da lì: la biblioteca paterna, l’aura sacrale dei libri, il bimbo piccolo che spia i genitori assorti nella lettura. A ben vedere, anche le poche esperienze di segno opposto, cioè le storie di chi è diventato scrittore in case prive di libri, sembrano comunque ricondurre tutto a una volontà di riscatto familiare, quasi che fosse impossibile non rapportarsi in qualche modo ai propri genitori. Per quanto mi riguarda, io ho cominciato a scrivere per scommessa. Con l’impegno, la determinazione e soprattutto la spericolatezza cui normalmente si fa ricorso quando s’intende vincere una scommessa. Una scommessa con me stesso, per mettermi alla prova e con l’unico premio della soddisfazione personale, ma anche col mondo, per vedere se riuscivo a farla in barba agli altri. Io partivo da un assunto molto skinneriano, nel senso di Burrus Frederic Skinner, lo psicologo comportamentista americano che sosteneva che l’educazione e l’ambiente sono tutto, e che d’innato abbiamo poco o niente. Datemi dieci bambini piccoli, e fra vent’anni vi restituirò un ingegnere, un avvocato, un calciatore, un cantante, cioè saranno creta nelle mie mani, ne farò quello che voglio io. Basta metterli sotto a studiare e praticare assiduamente una cosa e i limiti congeniti spariranno. Io sono stato lo Skinner di me stesso. A un certo punto della mia vita mi son detto: posso farcela. Se mi ci metto d’impegno la do a bere a chiunque. E cosa c’è di più innato e sacrale della letteratura? L’ispirazione, lo spirito che soffia dove vuole? Io lo farò soffiare a comando, e poi tutti diranno “lo sapevo”, “era nato per quello”.

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La formazione dell’insegnante di lettere, 1 / Deborah Donato

5 novembre 2014

di Deborah Donato

[Questo è il primo articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di lettere, che uscirà ogni (si spera) mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Deborah per la disponibilità. gm]

Deborah DonatoInsegno Lettere, adesso ho scelto.
Forse sono un’insegnante di Lettere un po’ atipica, perché ho a lungo studiato la letteratura da un’altra prospettiva. Mi sono laureata in Filosofia nel 1997, con una tesi sull’estetica e la semiotica di Umberto Eco. Fin da quei tempi, il mio interesse era “imparare a leggere”. La mia tesi, infatti, nasceva dall’interesse verso la figura del lettore modello e della cooperazione fra autore e lettore nei testi. Mi sono addentrata non solo nella filosofia di Eco e nella letteratura di Borges e Calvino, per fare la tesi, ma ho preso dimestichezza con Roland Barthes e la semiologia, Derrida e il decostruzionismo. L’interesse per il fenomeno del linguaggio mi ha poi portato a svolgere un dottorato sulla filosofia di Ludwig Wittgenstein e a indagare la differente concezione di linguaggio in filosofi quali Croce, Russell, Frege, Gadamer, Morin. Il lavoro accademico, proseguito con una borsa post-dottorato, si alternava all’apprendistato di insegnante. Nel 2004, infatti, presi l’abilitazione per insegnare filosofia e storia nei licei.
L’attenzione verso la lingua si è imposta anche attraverso il mio lavoro di traduzione di alcuni testi di Hegel e di Schrödinger; mi sono resa conto che la traduzione è un genere sommo di scrittura, che coinvolge non solo competenze grammaticali, ma conoscenza degli stili, delle pause di un autore, del suo lessico e perfino della sua cattiva punteggiatura.

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Le tecniche e i costi del moderno lancio editoriale (1963)

24 settembre 2010

Dieci preziosi minuti. Clicca per vedere e ascoltare.