Archive for the ‘I racconti del terremoto’ Category

I racconti del terremoto

17 agosto 2009
Stazione di Osimo (Ancona). Sismogramma del 6 aprile 2009.

Stazione di Osimo (Ancona). Sismogramma del 6 aprile 2009.

[I racconti del terremoto di Enrico Macioci, pubblicati uno a uno in vibrisse tra la fine di luglio e l’inizio d’agosto scorsi, sono ora disponibili in un unico file. Basta cliccare qui.]

di Enrico Macioci

Ho scritto questi dieci racconti fra i primi di giugno e i primi di luglio del 2009. Per due mesi, dopo quel 6 aprile, sono rimasto come congelato. Sentivo però che qualcosa doveva venir fuori e alla fine, quando è accaduto, è accaduto di getto, con una sorta di provvidenziale, furibonda facilità.

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La mamma è andata a fare un giro / I racconti del terremoto, 10

7 agosto 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è l’ultimo di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].

«E quando torna, papà?»

«Presto.»

«E noi?»

«Cosa.»

«Quando torniamo noi?»

«Anche.»

«Cosa.»

«Presto. Anche noi torniamo presto.»

«Ma casa non c’è più.»

«Lo so.»

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La cosa migliore è l’indifferenza / I racconti del terremoto, 9

6 agosto 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il nono di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].

Albeggiava. Il fumo saliva dalla città e s’udivano di lontano le sirene. Nel cortile le persone s’aggiravano inquiete, mordendosi le unghie e sussurrando e scuotendo il capo. Un vento fresco spostava grandi nuvole blu nel cielo color malva e muoveva appena i rami del giardino, portando alle narici un commuovente annuncio di primavera. Un riccio sbucò beccheggiando da un cespuglio, disturbato dalla confusione, ed entrò in un altro cespuglio qualche metro in là.

L’uomo basso, robusto e brizzolato vide l’uomo alto, moro e coi baffi scuri uscire dal portone con una borsa piena di panni gettati alla rinfusa in una mano, e il figlio piccolo nell’altra. L’uomo alto e moro s’avvicinò ai condomini del terzo e del quarto piano e posò la borsa sul muro dell’aiuola. Anche l’uomo basso s’avvicinò, con un sospiro. Cercò con lo sguardo il secondo piano e gli parve impossibile che quelle crepe fossero proprio là, sulla pelle di casa sua. Gli vennero le lacrime agli occhi. Nelle ultimissime ore sembrava che le lacrime fossero sempre in agguato. Poi si voltò in direzione della moglie e delle figlie; piangevano, ferme presso l’auto col portabagagli aperto e carico di valigie riempite fino all’orlo; e represse le lacrime.

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I doni del cielo / I racconti del terremoto, 8

5 agosto 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è l’ottavo di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].

L’uomo, superato il quartiere di San Giacomo, continuava a salire per una vecchia strada stretta, in mezzo a campi brulli punteggiati di mandorli, col Gran Sasso impresso nel sole del mattino sullo sfondo. Dietro e sotto di lui la città impazziva; un alveare di macchine cercava d’uscire da se stesso, ma non v’era modo d’arrivare all’autostrada, e l’autostrada era stata chiusa.

L’uomo, la barba lunga, i capelli neri e folti in disordine, la camicia fuori dai pantaloni e un giaccone sulle spalle, osservava i pochi edifici sul pendio; sembravano sani. Ripensò a casa sua, alla libreria che gli era caduta addosso mentre si rifugiava sotto la trave portante causandogli una ferita sulla spalla che aveva inzuppato di sangue la camicia, ai piatti, alle brocche e ai bicchieri distrutti, al pianoforte smosso di trenta centimetri dal muro, ai vasi di ceramica di Castelli infranti, agli scricchiolii sinistri del palazzo intero, al frastuono immenso come il cosmo, e sferrò un pugno sul volante. Si fece male e sentì, inattesa, una punta d’appetito. “Ho fame” ragionò. “Sono un idiota?

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Vedrai che sta bene / I racconti del terremoto, 7

4 agosto 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il settimo di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf ].

L’avevo vista due o tre volte, da quando abitavo lì. Mi era sembrata carina. Ma stavolta non era affatto carina, col pigiama beige con l’orsetto marrone stampato sul davanti e le pantofole viola a pelo lungo e i capelli neri disordinati e il volto terreo, senza trucco. Se ne stava seduta su un muretto, in disparte, con l’orecchio al cellulare, e urlava a intervalli regolari «Pronto! Mi senti? Mi sentite? Sei sicura? Ne sei certo? Pronto!» Infine scoppiò a piangere, e fu allora che mi decisi ad avvicinarla.

«Ciao» dissi nella notte disastrosa, in mezzo al frastuono e alla polvere.

Lei volse lo sguardo in su. «Ciao» rispose, asciugandosi le lacrime. Sembrava molto più vecchia di lei e di me.

«Cosa c’è che non va?» domandai.

«Parecchio. Ma soprattutto mia zia.»

«Cosa le è successo.»

«Non lo so.»

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Anche i gatti vanno via / I racconti del terremoto, 6

3 agosto 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il sesto di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].

«Che ci fai lassù?»

«Sei della protezione civile?»

«No. Sono un civile.»

«Sicuro?»

«Sì. Abito nell’altra scala.» L’uomo sapeva che il ciccione sapeva che erano vicini di casa, ma sostenne la parte. «Sono venuto a prendere della roba.»

«E dov’è la roba?»

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Sul ponte / I racconti del terremoto, 5

31 luglio 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il quinto di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf. I successivi cinque “Racconti del terremoto” usciranno in vibrisse la settimana prossima, da lunedì a venerdì.].

Erano le sette di mattina del terzo giorno di ricerche. La luce primaverile si spandeva serena ma fredda, tracimando dai monti nella vallata verde e umida. Alcuni banchi di nebbia si trattenevano nelle doline e in fondo alle cave. Ovunque, persino accanto ai mandorli in sboccio e alle ginestre, si respirava il cataclisma, e la città somigliava a un grande animale preso in una tagliola.

Il soccorritore vide il vecchio superata l’ultima curva di Viale Duca degli Abruzzi, prima del ponte. Subito affrettò il passo, d’intesa col cuore che accelerava. Ogni volta che s’imbatteva in un sopravvissuto l’invadeva una gioia speciale, ogni volta daccapo, benché ne avessero trovati tanti. Non riusciva ad abituarsi a questa gioia così speciale. Il soccorritore non si riteneva affatto un uomo particolarmente buono o particolarmente generoso. Era il lavoro che faceva a renderlo sensibile alle gioie speciali. Anche se, forse, sarebbe stato disposto ad ammettere che nessuno fa un certo tipo di lavoro per caso.

Il vecchio aveva lunghi capelli bianchi, e se ne stava in piedi a metà ponte coi gomiti poggiati sulla balaustra, un po’ curvo, in contemplazione del panorama. Era immobile. Nemmeno quando il soccorritore arrivò a due metri di distanza si voltò. «Ehi lei, signore» disse il soccorritore con un po’ d’affanno, e allora il vecchio si voltò.

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Il tempo non ha tempo / I racconti del terremoto, 4

30 luglio 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il quarto di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].

La prima visione l’aveva avuta d’estate, al castello cinquecentesco, meglio noto come Forte Spagnolo. Era un bambino di otto, forse dieci anni. Più otto che dieci. Forse nove. Credeva che da grande sarebbe diventato un calciatore, ma ancora, credendolo, non lo credeva sul serio, cioè non lo credeva con le aspettative che stanno dietro al credere adulto.

Era uno di quei pomeriggi estivi infiniti, che quando muoiono ti lasciano dentro un sapore di sconfitta. Ecco perché era così piccolo, e non poteva ancora avere dieci anni. Percepiva un sapore di sconfitta insopportabile quando il sole veniva giù, alla fin fine, e il Corno Grande non era più rosa, e Pizzo Cefalone diventava lilla, e i boschi sotto Pizzo Cefalone turchini, e a valle si spandeva una spuma già mezza notturna d’umidità e penombra e falene a frotte. Quando i lampioni della passeggiata torno torno al castello sbocciavano, orlando d’arancio le ragnatele appese ai fari, e uscivano le falene da qualche parte, a frotte, tutto quel velluto polveroso di falene all’improvviso a solcare l’aria violacea, a frotte con un rumore di lenzuola appena sfiorate, e qualche madre cominciava a richiamarli, «A casa! A cena!» cominciavano a gridare le madri nella sera estiva traditrice, ma non sua madre, lui doveva tornare a casa con Pietro e la madre di Pietro, poiché sua madre rientrava tardi dal lavoro ed era stanca per andarlo a prendere, e a un certo punto Pietro sentiva la voce della propria madre e faceva quel segno con la testa, senza appello, che significava: è ora. Un’altra giornata è finita. Bisogna andare via. Via dal castello e dalle falene a frotte.

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Tendopolis / I racconti del terremoto, 3

29 luglio 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il terzo di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].

“Non è poi così male, se ti abitui al puzzo dei cessi chimici là dietro, credetemi. Abituarsi. Ci si abitua a tutto. Letteralmente a ogni cosa che non ti uccide, finché non ti uccide. E finché non ti uccide ti fortifica, diceva qualche filosofo del cazzo. Una volta lessi un racconto in cui un tizio restava ficcato a testa in giù dentro il water di un cesso chimico, un cesso tipo quelli là dietro. Che ve ne pare? Eh? Dentro, e a testa in giù. Nella tazza. C’è di peggio che starsene qui ore su ore a giocare a carte e a parlare del nulla e a sentire quest’odorino di feci calde provenire dai cessi chimici arroventati dove andiamo a depositare le nostre feci calde che poi si arroventeranno. O no? Non dico bene? Fidatevi che c’è di peggio.”

“Non lo so. Io sto male. Sto talmente male che non riesco nemmeno a trovare la voglia – la forza, anzi no, la voglia – di mettermi a tavolino – non abbiamo qua dei veri e propri tavolini del genere dello scrittoio ma insomma penso d’aver reso l’idea dato che pure voi vivete qua con me e usate gli stessi tavolini, purtroppo per voi e purtroppo per me – e scriverlo (non ho la forza), scrivere quanto sto male. Eppure ne avrei voglia, dato che poiché sono uno scrittore e nella vita faccio – facevo? – di mestiere lo scrittore dovrei averne voglia, o perlomeno dovrei avere voglia di scrivere che non ho nemmeno voglia di scriverne, di tutto quanto. E invece no. Sto male e non ne ho voglia – di scriverne.”

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Una domenica pomeriggio, d’estate / I racconti del terremoto, 2

28 luglio 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il secondo di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].

Aveva rubato una vecchia scassona bianca con la gommapiuma che usciva dai sedili, i vetri a manovella e il tachimetro stinto. Teneva il vetro abbassato perché faceva caldissimo, e il volante scottava. Non sapeva di preciso che giorno fosse, ma i tizi in camice parlando fra loro la sera prima dicevano: da un po’ la situazione è tranquilla, forse il peggio è passato, le pause cominciano ad allungarsi anche se non si sa mai, eccetera eccetera. Così aveva rubato la scassona ed era venuto sin qua. Non era stato difficile nemmeno per lui – salvo che lui aveva assolutamente le carte in regola, tutte tranne una. E benché s’ostinassero a considerare questa sola carta mancante come un problema degno di cure lunghe e scrupolose, lui si sentiva bene. Desiderava capire e ricordare; nient’altro.

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Una faccenda importante / I racconti del terremoto, 1

27 luglio 2009

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il primo di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].

L’uomo sedeva sul terzo gradino del pianerottolo del secondo piano, coi gomiti sulle ginocchia, a testa in giù. Indossava un pigiama viola con un sole color canarino stampato sul petto, i cui raggi serpeggiavano a trecentosessanta gradi. Portava grossi occhiali da lettura coi quali da lontano vedeva male, specie di notte, ma erano i primi su cui nella foga aveva messo le mani. Se ne stava chino, i lunghi capelli scuri rovesciati in avanti, osservando attentamente gli scarponcini invernali che calzava. “Sono scarponcini della Geox”, pensò con calma, scandendo bene i pensieri. “Sono neri con un bollino rosso laterale e un altro bollino rosso sulla linguetta. Anche le cuciture sono nere, e anche le decorazioni. Le decorazioni consistono in questi piccoli bottoni sporgenti dietro e di lato. Ecco, se li tocco li sento. Tocco. E sento. Sporgono. Gli scarponcini sono slacciati. I lacci (il laccio, si tratta d’un unico laccio, ma adesso non mi pare il momento di sottilizzare) nei buchi degli scarponcini s’incrociano a x, tranne in fondo, dove per curvare e risalire descrivono una breve linea retta. Oppure: prima i lacci (il laccio) descrivono una breve linea retta, e poi salendo cominciano a incrociarsi. In ogni caso bisogna che allacci gli scarponcini, ora che sono uscito di casa”. L’uomo alzò il capo volgendosi all’uscio chiuso del suo appartamento. Il riquadro del campanello ardeva d’un tenue bagliore rosso, e così il pulsante per accendere l’illuminazione delle scale. Le scale erano piene di gente; la gente non faceva altro che urlare e scendere; nessuno saliva e nessuno taceva; e l’illuminazione delle scale quella notte era sempre accesa.

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