di Enrico Macioci
[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il quarto di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].
La prima visione l’aveva avuta d’estate, al castello cinquecentesco, meglio noto come Forte Spagnolo. Era un bambino di otto, forse dieci anni. Più otto che dieci. Forse nove. Credeva che da grande sarebbe diventato un calciatore, ma ancora, credendolo, non lo credeva sul serio, cioè non lo credeva con le aspettative che stanno dietro al credere adulto.
Era uno di quei pomeriggi estivi infiniti, che quando muoiono ti lasciano dentro un sapore di sconfitta. Ecco perché era così piccolo, e non poteva ancora avere dieci anni. Percepiva un sapore di sconfitta insopportabile quando il sole veniva giù, alla fin fine, e il Corno Grande non era più rosa, e Pizzo Cefalone diventava lilla, e i boschi sotto Pizzo Cefalone turchini, e a valle si spandeva una spuma già mezza notturna d’umidità e penombra e falene a frotte. Quando i lampioni della passeggiata torno torno al castello sbocciavano, orlando d’arancio le ragnatele appese ai fari, e uscivano le falene da qualche parte, a frotte, tutto quel velluto polveroso di falene all’improvviso a solcare l’aria violacea, a frotte con un rumore di lenzuola appena sfiorate, e qualche madre cominciava a richiamarli, «A casa! A cena!» cominciavano a gridare le madri nella sera estiva traditrice, ma non sua madre, lui doveva tornare a casa con Pietro e la madre di Pietro, poiché sua madre rientrava tardi dal lavoro ed era stanca per andarlo a prendere, e a un certo punto Pietro sentiva la voce della propria madre e faceva quel segno con la testa, senza appello, che significava: è ora. Un’altra giornata è finita. Bisogna andare via. Via dal castello e dalle falene a frotte.
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