[Ennio Bissolati è un bibliofilo. Per vibrisse recensisce libri introvabili, dei quali sostiene di essere l’unico lettore. gm]
La sciatteria degli autopubblicati è terribile. Al di là dell’immagine (disgustosa: ma non è questo il problema), evidentemente pescata con un motore di ricerca senza andare oltre la prima schermata (è questo il problema), il fatto è che noi lettori di questo romanzo non sappiamo nemmeno quale sia il vero titolo: La morte è un clown che non fa ridere, come è scritto in copertina, o La morte è un clown che non sa ridere, come è scritto nel frontespizio? In realtà, parola di bibliofilo, entrambi i titoli – entrambi orrendi – sono compatibili con ciò che nel romanzo si racconta. E il romanzo, sorprendentemente, è piuttosto bello. Non un capolavoro, ma insomma. Non conosciamo l’autore (e l’internet, a parte quel vecchio pagliaccio di Jack Nicholson, ci restituisce una frotta innumere di Nicola Di Giacomo, più d’uno dei quali sommariamente candidabile) ma nemmeno ci interessa conoscerlo: come si diceva una volta, l’opera è tutto. Mettiamoci dunque all’opera.
La storia è semplice. Un signore sulla quarantina (di Orvieto, pubblico dipendente, impiegato amministrativo) viene avvicinato dalla morte. La quale ha le sembianze di un pagliaccio: che (come tutti i bravi pagliacci della letteratura seria) non ride e non fa ridere. All’inizio il nostro quarantenne non vuol credere che quel cretino vestito da buffone sia davvero la morte (la signora Morte); qualche dubbio comincia ad avercelo quando si accorge che solo lui lo vede, quel buffone vestito da cretino, e che tutti gli altri, oltre a non vederlo, se c’incocciano ci passano attraverso. Ma lui non vuole credere, no no, lui non lo vuole credere, il nostro quarantenne, d’essere fuori di testa. E il pagliaccio, loico: “Se rifiuti l’idea d’essere matto, devi accettare che io sono qui e che sono davvero quello che dico di essere”. Il processo è lento. Alla fine il quarantenne si convince. E comincia a vivere con la morte accanto, sempre accanto.
“Mi scusi, dottor Bissolati”.
“La prego, mi dica”.
“Ma questo, almeno fin qui, sembra un po’ Harvey“.
“Certo, gentile signora. Anche Ulisse di Joyce sembra l’Odissea; ciò non toglie che l’una e l’altra opera esistano e siano godibili: magari non dal medesimo pubblico”.
“Il pubblico di Omero…”.
“Il pubblico originario di Omero è defunto da secoli”.
“Eh certo”.
“E ora, signora…”.
“Mi dica”.
“Posso continuare la mia recensione?”.
“Ma la prego”.
Di tanto in tanto al nostro quarantenne (che non appare troppo sveglio, va detto) vengono delle domande. Del tipo: “Scusa, ma finché tu sei qui con me, come fanno a morire gli altri?”. Risposta a p. 31: “Mi sono fatto sostituire”. risposta a p. 179, quando la medesima domanda ritorna con altre parole: “C’è chi sa arrangiarsi da solo. C’è chi ha bisogno di aiuto. Tu sei tra questi”. Oppure: “Ma perché hai assunto questo aspetto da clown?”. Risposta, e definitiva: “Preferivi un cavolfiore? O una pompa idraulica?”. Quando il quarantenne manifesta il dubbio che l’aspetto con il quale gli appare la morte sia in qualche oscuro modo determinato dalle sue proprie fantasie inconsce, la risposta è: “Così è, se ti piace”.
Il guaio è che il nostro quarantenne (che, vabbè, non volevo dirvelo ma non so più come fare a tenermi: si chiama Elpidio, e il suo nome significa: colui che si affida alla speranza) è pure sposato con figlioletta e moglie incinta. Le scene domestiche, con la morte (o il clown, se preferite) sempre tra i piedi (e loquacissima/o) ma invisibile (e inudibile) a tutti fuorché a Elpidio, sono tra le migliori dal punto di vista tecnico (si vede che il Di Giacomo si è studiato il suo Jerry Lewis) ma forse tra le più trascurabili artisticamente. Le più belle sono i lunghi dialoghi tra Elpidio e il clown (o la morte, se preferite) nei momenti morti (ops!) della giornata.
Come deve avvenire in ogni brava storia dove si presenti la morte, Elpidio chiede una dilazione. La moglie è incinta al settimo mese, e lui vorrebbe vedere nata la figlioletta. Gli è consentito. Nel frattempo Elpidio disporrà tutto per il benessere della famiglia dopo la sua dipartita. Stipula addirittura un’assicurazione. Si arriva dunque lì dove tutti attendono il colpo di scena, o almeno il finale straziante ma commovente. Siamo in ostetricia, sala d’attesa. La donna sta partorendo, la donna ha partorito. La piaccola Camilla transita nella culletta termica e trasparente. Il padre l’ammira. Il pagliaccio dice: “Scegli: o tu o lei”. “Prendi lei”, dice Elpidio senza esitare. Il pagliaccio sparisce. La bimba morirà nel giro di pochi minuti per complicazioni respiratorie.
Buio in sala. Chapeau.
Tag: Ennio Bissolati, Jack Nicholson, Jerry Lewis, Nicola Di Giacomo
26 gennaio 2016 alle 15:15
Madoj.
26 gennaio 2016 alle 15:23
E così ha messo nei casini ostetriche e puericultrici. Bello stronzo.
26 gennaio 2016 alle 15:31
Quello che si chiama un coup de théâtre!
Devo dire che queste recensioni sono piacevolissime da leggere, sembrano quasi dei racconti.
26 gennaio 2016 alle 15:36
Uhm…
26 gennaio 2016 alle 15:50
Al contrario dei libri curati dagli editori, che hanno titoli e copertine “giuste”, ma sono deludenti. Meno prosopopea e più coraggio: non sono bibliofila di professione, ma potrei citarne a decine di bei romanzi condannati al limbo che, se fossi un editore, pubblicherei.
Certo, pubblicare libri buoni è ovvio e anche un po’ volgare, meglio presentare in pompa magna delle ciofeche, ci vuole del merito, non è roba da tutti.
Onore e merito a Nicola Di Giacomo, chiunque sia, anche e soprattutto per la sua orrida copertina. Sono quasi commossa.
Per tornare al tema dell’altro giorno, il romanzo non sarà morto, ma certo di becchini intorno ce ne ha tanti…
26 gennaio 2016 alle 17:58
Chapeau a lei, signor Ennio: una recensione meglio dell’altra. In questa mi par quasi di vedere gli ambienti… Peraltro (se mi si consente di mescolare alto e basso, sacro e profano), la morte che vive accanto al protagonista, a lui solo visibile e udibile, c’è pure, tal quale, in Death Note di Tsugumi Ōba e Takeshi Obata. Non nota pure lei qualche somiglianza nelle fattezze? http://cdn.idigitaltimes.com/sites/idigitaltimes.com/files/2015/04/03/death-note.jpg. Ma ecco che torno a divagare con le mie giapponeserie.
26 gennaio 2016 alle 20:17
Quando si ha che fare con i pagliacci non sai mai come andrà a finire. Bella recensione!
26 gennaio 2016 alle 20:24
Ho sempre avuto paura dei pagliacci… Anzi, delle maschere in genere. Che rappresentino tutte la morte, in quanto facce sformate senza vita?
26 gennaio 2016 alle 20:55
“ 17 aprile 1984 – Le scarpe smisurate dei pagliacci: assolutamente non devono andare da nessuna parte. “ [*]
[*] Lsds / 689
27 gennaio 2016 alle 10:30
Di Giacomo non riscrive forse il mito di Admeto e Alcesti?…
27 gennaio 2016 alle 11:22
Mi hai fatto morir dal ridere(ops!)
31 gennaio 2016 alle 10:40
ma suvvia! una recensione che spiattella il finale a sopresa! ohibò… devo forse inferirne che girando le pagine il recensore sia stato infettato dal puro sadismo del clown che non sa/fa ridere? oppure trattasi di recensione prettamente fantastica in salsa Borghesiana? eh, in tal caso onore al simpatico Bibi, il bibliofilo Bissolati
: )))
peraltro, mi ha fatto particolarmente sorridere il passo “Non un capolavoro, ma insomma” mediante il quale, con agile finta di corpo, il recensore schiva l’inciampo di definire “capolavoro a tutto tondo” un romanzo autopubblicato (cosa chiaramente contronatura in un sistema culturale di mercato).
: )