Posts Tagged ‘Virginia Woolf’

Come sono fatti certi libri, 24 / “Gita al faro”, di Virginia Woolf

16 settembre 2017

di Daniela Russo

[In questa rubrica pubblico descrizioni, anche sommarie, di libri che – al di là della storia che raccontano o del tipo di scrittura – presentano una “forma” un po’ particolare, o magari bizzarra. Che cosa si intenda qui per “forma” mi pare, visti gli articoli già pubblicati, piuttosto evidente. Chi volesse contribuire si faccia vivo in privato (giuliomozzi@gmail.com). gm].

Virginia Woolf ritratta da Roger Fry

Il romanzo di Virginia Woolf To the lighthouse, a lungo noto in Italia come Gita al faro, in diverse edizioni recenti viene proposto col titolo più fedelmente tradotto di Al faro. Nell’Universale economica Feltrinelli, sezione Classici, è pubblicato con la traduzione (e una postfazione) di Nadia Fusini. È lungo 185 pagine e costa (a settembre 2017) otto euro. In copertina, un particolare del Portrait de dame en bleu di Paul Cézanne.

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Dimmi chi leggi e ti dirò chi sei

27 gennaio 2016
Due scrittori a confronto

Due scrittori a confronto

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci (vedi qui la sua “storia di formazione”) ha pubblicato: Terremoto, Terre di mezzo 2010 (vedi); La dissoluzione familiare, Indiana 2012 (vedi); Breve storia del talento, Mondadori 2015].

Tempo fa postai su Facebook, per gioco ma nemmeno troppo, una frase in cui Cormac McCarthy disprezzava Marcel Proust, e aggiunsi di ritenere il francese inferiore a Dostoevskij: valanga di commenti, educati ma accalorati. Proust rappresenta oggi una delle poche figure letterarie davvero indiscutibili, un totem, un imperativo categorico, per tanti addetti ai lavori “il più grande scrittore di ogni tempo.” Ciò è indice, credo, di un’epoca oramai del tutto mondana e secolare; ma non è questo il punto.

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Gilda Policastro: intervista su “Cella” / 7

10 novembre 2015
Emma Bovary

Emma Bovary

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La coscienza increata di “Ulysses”

12 Maggio 2015

di Marco Candida

Incontrare per la milionesima volta
la realtà dell’esperienza
e forgiare nella fucina della mia anima
la coscienza increata della mia razza
(Gente di Dublino)

Intro

Alcune annotazioni in seguito alla lettura dell’Ulisse di Joyce. L’edizione è quella dei Tascabili Mondadori. Traduzione Giulio de Angelis. Nella quarta di copertina c’è scritto: “Un uomo a spasso per Dublino dalle 8 alle 2 di notte del 16 giugno 1904: le sue azioni, i pensieri, le azioni e i pensieri della città, delle cose, della gente che incontra, di Stephen Dedalus…”. Le azioni e i pensieri delle cose? No, l’Ulisse non arriva a tanto… Ma quasi.

Birra

L’Ulysses si apre con questo paragrafo:

Solenne e paffuto Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro, al soffio della mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò:
“Introibo ad altare Dei”

E’ interessante soffermarsi, in quest’incipit, sul particolare del “bacile di schiuma”. Il bacile viene JamesJoyceStatue2anche levato in alto e offerto a Dio. E’ possibile che Joyce abbia voluto servirsi dell’immagine del “bacile di schiuma” come succedaneo alla birra?
La birra è un liquido sacro nell’Ulysses. A pag. 306 leggiamo:

Una bella cotta, s’era preso, in una gargotta di Bride Street dopo l’ora di chiusura, brancicava due sciupate col magnaccia che stava di guardia e beveva birra in tazze da tè.

Addirittura la birra è degna d’essere versata in pregiate tazze da tè! E ancora a pagina 404:

Da quattro minuti circa teneva gli occhi fissi su un certo quantitativo di birra Bass numero uno imbottigliata da Bass e Co di Burton-on-Trent che si trovava situata in mezzo a un gran numero di analoghe bottiglie esattamente difronte a dove egli stava e che erano certamente intese ad attirare l’altrui attenzione a cagione del loro aspetto scarlatto.

La birra torna, nell’Ulysses, e viene sempre presentata e descritta sotto una luce aurea, sacrale, è un nettare divino.
Come mai Joyce dava così tanta importanza al luppolo? Forse solo perché gli piaceva? Oppure è un elemento simbolico? Non potrebbe essere che tanto l’Ulysses quanto il Finnegans Wake rappresentino la schiuma alfabetica dei fatti? Quanta minor birra versi nel bicchiere, quanto più velocemente lo fai, tanto maggiormente otterrai schiuma.

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La formazione della fumettista, 7 / Federica Del Proposto

9 dicembre 2014

di Federica Del Proposto

[Questa è la settima puntata della rubrica dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti, che esce in vibrisse il martedì. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Federica per la disponibilità. La fotografia di Federica è di Caterina Sansone].

FedericaDelProposto(fotoDiCaterinaSansone)E’ stato amore a prima vista,
mi innamorai del disegno subito, forse prima dei 5 anni.

Mi divertiva talmente tanto che ero arrivata a disegnarmi i giocattoli e giravo per casa con una cartellina piena di tutte cose di carta.
In casa non c’erano molti fumetti o libri illustrati, ma passavo le ore a guardare le figure dell’enciclopedia e dell’enciclopedia medica, e le forme di una serigrafia che era appesa in salone: uno scorcio di città dipinto da Sante Monachesi, credo fosse proprio Parigi. Una serigrafia bellissima, colori primari e forme.
Io capivo che era una città, anche se era stilizzata, schematica.

A mamma piaceva dipingere, e le piaceva l’arte, ma in casa avevamo pochissimi libri “con le figure”.
I miei, due infermieri giovanissimi e genitori di due bambine, avevano altre priorità economiche in quel periodo, prima di spendere in libri e fumetti. Per giovanissimi, intendo proprio giovanissimi: 21 anni mamma e 24 papà, quando sono nata io, arrivati in città qualche anno prima per frequentare il corso da infermieri.
Quella mia e di mia sorella è stata un’infanzia bellissima e ogni giornata era un gioco di 24 ore, accompagnato dalla colonna sonora dei Beatles, dei Led Zeppelin, e di Battisti.
L’unica cosa che forse potrei loro rimproverare è che ci hanno viziate troppo, nascondendo sempre ogni anche minima difficoltà quotidiana, quindi abbiamo capito un po’ tardi il senso della parola “lavoro”.
Ma era giusto così, per questa famiglia che a ripensarci adesso era composta da 4 ragazzini.

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La formazione dello scrittore, 15 / Marco Giovenale

1 ottobre 2014

di Marco Giovenale

[Questo è il quindicesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Ringrazio Marco per la disponibilità. gm]

marco_giovenaleStarei in verità per confessarmi inadatto a parlare di formazione dello scrittore. Applicata l’espressione al mio caso – sento forse pertinente e calzante modificarla in “formazione di una scrittura”.

Parlerei dunque, come posso, di questa, della formazione di una scrittura. (Che tenta di essere senza io-moi, dunque senza io-scrittore, forse; ma non senza soggetto – dell’inconscio). (L’informe c’è. Il formato, se e quando c’è, è il testo).

Di più. La scrittura è poi in effetti, in qualche modo, scritture. Una faccenda plurale. Correggo allora: Formazione di scritture.

Come evolvono, firmate MG (o “differx”, talvolta)? Da quali possibili gruppi / groppi di premesse? Verso quali direzione?

Se almeno dal 2002 (in termini editoriali) una delle strade affrontate è stata quella della poesia, anche questa – in sé – si ramificava o contraddiceva lavorando su piani che proprio poesia non erano. Anzi chiudevano in un angolo di contraddizione l’idea corrente di poesia che (non solo in quegli anni) pareva dominante nel contesto italiano. Questo ho sperimentato, fino al punto in cui la contraddizione interna al mio lavoro è parsa spostare l’asse del discorso e del mio piccolo iter su una prosa particolare, o modo di prosa, che non era e non è prosa poetica, e che anzi rivendica un’identità di… prosa in prosa. Una roba stranissima, distante dalla narrazione come dalla poesia (e dal poetico).

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La formazione della scrittrice, 28 / Emilia Bersabea Cirillo

21 luglio 2014

di Emilia Bersabea Cirillo

[Questo è il ventottesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Emilia per la disponibilità. gm].

Emilia Bersabea CirilloHo sempre letto moltissimo, con la curiosità e l’accanimento di chi cerca un aiuto ai sogni. Di solito compravo i libri attratta dal titolo e dalla copertina. Ma soprattutto leggevo nella biblioteca dei ragazzi, giornate intere con la testa e il cuore nelle storie di altri. Arrivavo alle dieci del mattino e restavo a leggere fino all’una. Avevo una lista di autori: Brontë, Alcott, Colette, Dickens, Barrie, a questi si aggiunsero Harper Lee con il suo Il buio oltre la siepe, la Capanna dello zio Tom, Pattini d’argento, la Piccola sconosciuta di H. V. Gebhard, Davy Crockett di E.L. Meadowcroft, Polyanna, e poi, man mano alcune poesie di Pascoli e Il vecchio e il mare di Hemingway.
Fu allora, nell’adolescenza, che cominciai a scrivere. Mi sembrava un’arte così preziosa, che volevo provare anche io. Ma chi non comincia a scrivere nell’adolescenza. Ho ancora conservate alcune cose, scritte su un quaderno a quadretti, che non ho più riletto. Scrivevo storielline e mi dannavo: un po’ perché non venivano come io volevo, un po’ perché mi sentivo, proprio perché scrivevo, diversa dagli altri. Ho cominciato a scrivere con maggior fiducia in me stessa dopo aver letto Piccole donne ed essermi innamorata di Jo March. Anche questo, credo sia stata una febbre comune a tante donne. Solo che a me questa febbre non è più passata e ho imparato a conviverci, facendola diventare una parte di me necessaria e importante. Scrivevo raccontini d’amore, verso i quindici anni, un po’ scialbi, un po’ prevedibili. Ho letto molto allora. I libri più significativi sono stati Gita al faro di V. Woolf, Riflessioni su Christa T. di C. Wolf, La luna e i falò di C. Pavese e i racconti di K. Mansfield.

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La formazione della scrittrice, 18 / Sandra Petrignani

12 Maggio 2014

di Sandra Petrignani

[Questo è il diciottesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Sandra per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]

sandra_petrignaniNella leggenda familiare si dice che intorno ai quattro anni fui messa su una sedia a recitare la poesia di mia invenzione: “Son piccina, son carina/ son la gioia del papà/ ma se sporco la vestina/ il papà mi fa tò-tò”. Riconosco nei contenuti e nei versi approssimati non la mia piccolezza, ma la retorica borghese che regnava in casa, dunque immagino che i veri autori fossero proprio i miei genitori. Nel corso del tempo, probabilmente, osservando le mie inclinazioni letterarie, si sono confusi e hanno attribuito a me la proprietà di versi che non mi preme minimamente rivendicare. Anzi, appena ho avuto la possibilità di scegliere, il mio gusto e le prime prove artistiche si sono subito mosse in senso contrario: a me piaceva tutto ciò che era spiazzante, inedito, bizzarro. Una delle prime poesie che potevo a buon diritto riconoscere mie e che affidavo a un quadernetto segreto durante le elementari, inneggiava alla felicità dello sporcarsi da capo a piedi rotolandosi nei campi. Molto presto ho scoperto l’esistenza di un genio di nome Kafka imbattendomi nei suoi racconti alla biblioteca scolastica delle Medie. Fu un’emozione così forte che non riuscii più ad aprire uno dei Delly che pure avevano deliziato la mia prima adolescenza promettendomi grandi amori romantici.

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La formazione della scrittrice, 16 / Carola Susani

28 aprile 2014

di Carola Susani

[Questo è il sedicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Carola per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]

carolasusaniQuand’ero piccola, alla domanda: cosa farai da grande, rispondevo per inerzia: l’architetto. I miei genitori erano architetti e del loro lavoro mi piaceva tutto tranne il peso della responsabilità nei crolli. Così ho fatto l’architetto di strutture immaginarie. L’inizio della mia formazione si può far coincidere con una notte, era settembre, il 1969; la notte in cui, con sette bambole e sette pupazzi a forma d’animale antropomorfico, rimasi accoccolata sul sedile dietro della Peugeot bianca dai sedili azzurri mentre venivo trasportata dal nord al sud l’Italia, oltre lo stretto, fino in Sicilia. La luna mi accompagnava e le ero grata, ma intanto mi scoprivo a indugiare con la mente su piccole torture, bambini della mia età o poco più grandi che producevano taglietti nei ventri rotondi di bambini un po’ più piccoli. Lasciavo via della Rimembranza, città elettiva del mio più caro amico immaginario, Tano Bilò e dei suoi compagni d’avventura, il Dano e la Dana; non so perché scelsero quel giorno di restare indietro, non so se li cacciai, certo da allora sulla mia strada non li ho più incontrati. Lasciavo la cittadina veneta umile e garbata, incuriosita della sua stessa crescita economica, per andare – dove? Io non ne avevo idea.

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La formazione della scrittrice, 3 / Maria Grazia Calandrone

27 gennaio 2014

di Maria Grazia Calandrone

[Questo è il terzo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Per ragioni pratiche ho cominciato invitando a scrivere delle scrittrici amiche. Ringrazio Maria Grazia per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. gm]

maria_grazia_calandronePotrei dire che credo al destino, poiché il racconto che mi accingo a fare non smentisce alcuna illusione, anzi, mi giustifica a essere allegramente sciocca, a coltivare il mito dell’idiota dostoevskiano e della sua bellezza, posta come un traguardo alla fine del mondo.

È cominciata così: la mia mamma adottiva era una professoressa di Lettere. Molto acuta, molto dedita, molto severa. Come spesso accade alle professoresse, aveva il vizio di svolgere ininterrottamente la propria attività. Anche in casa, specialmente nei dopocena. Non avevamo la televisione e bisognava pur passare il tempo. Ma, soprattutto, era lei stessa una scrittrice mancata. Le mancava il tempo, ma non la coerenza: palesava a ritmo costante cartelline ripiene di romanzi interrotti, nei quali la sua esperienza di insegnante era sempre sul bilico di venire travasata in racconto euforico. Prassi, lavoro, impegno. Ma covava, in un lato segreto della dispensa, quegli slanci dell’anima singolare verso l’anima tutta, declinati in versi nemmeno tanto ingenui, ma tenebrosi alquanto: meridionali, di un Sud normanno: una mischia pirandelliana di amori infelici e di abbandono e di morte irrisa. Un disperato e tragico sarcasmo. Che lavorava dentro, continuamente.

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