Posts Tagged ‘Stephen King’

Dieci cose che se vengono dette di un romanzo americano fanno figo, se vengono dette di un romanzo italiano fanno cadere le palle

8 agosto 2017

di giuliomozzi

1. Fa 800 pagine, circa.

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“Il racconto di una lacerazione immedicabile richiede sobrietà”

31 luglio 2016

di Filippo La Porta

[Questo articolo di Filippo La Porta è apparso nel “Domenicale”, supplemento de “Il Sole/24 ore”, oggi 31 luglio 2016].

7228419_1572657Il quinto romanzo di Laura Pugno, La ragazza selvaggia, fa pensare a certi racconti dello splendido filone non horror di Stephen King, lì dove il perturbante agita il lettore mostrandogli la domestica familiarità dell’estraneo, l’oscurità impenetrabile che circonda il perimetro della razionalità. La giovane biologa Tessa, custode della riserva protetta di Stellaria – un progetto fallito per mancanza di fondi – «aprì la porta sul buio del bosco…». E così ritrova la ventenne Dasha, sparita nel bosco quando era bambina: il corpo pieno di ferite e cicatrici, l’odore di selvatico, un flebile mugolio. Di lì ricostruiamo l’intera vicenda, fitta di personaggi (suggerisco di fare uno specchietto nell’ultima pagina) e storie secondarie: Dasha e la sorella gemella sono state adottate in Ucraina dai coniugi Held, Giorgio e Agnese, poi Dasha sparisce nel bosco e Nina resta in coma per un incidente; Nicola, figlio dei Varriale, trascorre gli anni dell’infanzia con loro e si iscrive all’università – Economia – insieme a Nina; con lui Tessa, a sua volta cresciuta orfana, sotto la protezione della zia Sagitta, intreccia una relazione sentimentale e tenta – vanamente – di sbrogliare quella che sembra la matassa di una oscura maledizione.

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Quando cadono le stelle, di Gian Paolo Serino

21 Maggio 2016

di Marco Candida

Quando-Cadono-Le-Stelle-G.-Paolo-SerinoDi ritorno dalla presentazione alla Libreria Mondadori di Alessandria del romanzo d’esordio di Gian Paolo Serino Quando Cadono le stelle Baldini Castoldi. A presentarlo Angelo Marenzana. Marenzana è autore del romanzo noir L’uomo dei temporali edito da Rizzoli. Scrittore ottimo e vero, a parer mio, la principale forza di Marenzana è la caratterizzazione di luoghi e personaggi. In Italia l’opinione più diffusa è probabilmente che l’abilità dello scrittore stia nel dipingere il quadro con poche pennellate. Invece, i romanzi quasi sempre necessitano indugio e questo Marenzana lo fa, con il risultato che i suoi personaggi (ispettori o commissari che siano) sono persone di carne e sangue e non solo inchiostro.

Sentendo Serino presentare il suo romanzo mi è venuta una riflessione. Da anni Vasco Rossi sostiene Serino affermando che è una mente geniale. Usa parole forti, importanti. Sicuramente, Serino ha una carriera che testimonia la veridicità dell’asserzione del rocker. Mi chiedo, però, se il mondo letterario abbia preso sul serio in considerazione le parole di Vasco. Ascoltando Serino, insomma, ho pensato: Vasco Rossi ha ragione a parlare bene e molto bene di Serino. E poi ho pensato: come mai quando qualcuno spende parole importanti per qualcun altro non viene quasi mai preso del tutto sul serio?  Mi è venuto da pensare che quello che fanno gli altri è sempre facile, vale poco, non è da prendere molto in considerazione. Vasco Rossi parla bene di te? Oh be’, sì: lo farebbe anche di me, se ci conoscessimo, fossimo amici… E’ sempre facile quello che ottengono gli altri. Invece, bisogna capire che non è facile, non è scontato, mai.

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Dimmi chi leggi e ti dirò chi sei

27 gennaio 2016
Due scrittori a confronto

Due scrittori a confronto

di Enrico Macioci

[Enrico Macioci (vedi qui la sua “storia di formazione”) ha pubblicato: Terremoto, Terre di mezzo 2010 (vedi); La dissoluzione familiare, Indiana 2012 (vedi); Breve storia del talento, Mondadori 2015].

Tempo fa postai su Facebook, per gioco ma nemmeno troppo, una frase in cui Cormac McCarthy disprezzava Marcel Proust, e aggiunsi di ritenere il francese inferiore a Dostoevskij: valanga di commenti, educati ma accalorati. Proust rappresenta oggi una delle poche figure letterarie davvero indiscutibili, un totem, un imperativo categorico, per tanti addetti ai lavori “il più grande scrittore di ogni tempo.” Ciò è indice, credo, di un’epoca oramai del tutto mondana e secolare; ma non è questo il punto.

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It, di Stephen King

12 novembre 2015

di Marco Candida

[Avrei voluto scrivere questo articolo da quando sono alto così. Oggi che ho l’età di Bill Denbrough nel 1985, l’ho fatto. Forse, alla fine, anch’io ho affrontato il mio It]

Dedicato con affetto a Stephen King

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Stephen King ha scritto It tra il 1981 e 1985. Un dato non secondario se si considera che nell’edizione italiana It consta complessivamente di ben 1238 pagine. I protagonisti sono sette: Mike, Bill, Richie, Ben, Eddie, Stan e Beverly. L’antagonista è uno e settuplo: It è un’entità multiforme che di volta in volta si presenta come uccello gigantesco, mummia, lebbroso, lupo mannaro, ragno gigante…, ma gira per Derry preferibilmente nei panni di un pagliaccio. Tra i personaggi non protagonisti spiccano Audra Philips la moglie di Bill (leader dei sette ragazzi) e Tom Rogan il marito di Beverly (antesignano di Norman Bates nel romanzo Rose Madder). Poi ci sono anche grandi personaggi secondari come Mr. Keene il gestore del Drug Store Center di Derry (quello dell’effetto “placebo”; la medicina per l’asma di Eddie è in realtà acqua zucchero e un pizzico di canfora); Adrian Mellon (l’omosessuale divorato da It: la vittima che nel 1984 segnala il risveglio trentennale del mostro di Derry); Will Hanlon che racconta al figlio Mike i misteriosi incidenti occorsi ogni trent’anni circa nella cittadina di Derry; e poi Henry Bowers assieme a Belch Huggins e Victor Criss nella parte dei bulli che danno la caccia a Bill &Co.; Richard P. Macklin… senza dimenticare personaggi di sfondo divinamente tratteggiati quali Mandy Fazio o Rena Davenport o il sergente Wilson o Patrick Hockstetter… Infine c’è Derry. Derry è un personaggio del romanzo tanto quanto lo sono Ben o Richie, ma assai più complesso da raccontare essendo Derry un’intera città. La narrazione trabocca di storie – fatti a se stanti e dotati ciascuno di originalità. E va da sé che, essendo il numero di protagonisti così ampio, gli intrecci sono molto numerosi.

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La coscienza increata di “Ulysses”

12 Maggio 2015

di Marco Candida

Incontrare per la milionesima volta
la realtà dell’esperienza
e forgiare nella fucina della mia anima
la coscienza increata della mia razza
(Gente di Dublino)

Intro

Alcune annotazioni in seguito alla lettura dell’Ulisse di Joyce. L’edizione è quella dei Tascabili Mondadori. Traduzione Giulio de Angelis. Nella quarta di copertina c’è scritto: “Un uomo a spasso per Dublino dalle 8 alle 2 di notte del 16 giugno 1904: le sue azioni, i pensieri, le azioni e i pensieri della città, delle cose, della gente che incontra, di Stephen Dedalus…”. Le azioni e i pensieri delle cose? No, l’Ulisse non arriva a tanto… Ma quasi.

Birra

L’Ulysses si apre con questo paragrafo:

Solenne e paffuto Buck Mulligan comparve dall’alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro, al soffio della mite aria mattutina. Levò alto il bacile e intonò:
“Introibo ad altare Dei”

E’ interessante soffermarsi, in quest’incipit, sul particolare del “bacile di schiuma”. Il bacile viene JamesJoyceStatue2anche levato in alto e offerto a Dio. E’ possibile che Joyce abbia voluto servirsi dell’immagine del “bacile di schiuma” come succedaneo alla birra?
La birra è un liquido sacro nell’Ulysses. A pag. 306 leggiamo:

Una bella cotta, s’era preso, in una gargotta di Bride Street dopo l’ora di chiusura, brancicava due sciupate col magnaccia che stava di guardia e beveva birra in tazze da tè.

Addirittura la birra è degna d’essere versata in pregiate tazze da tè! E ancora a pagina 404:

Da quattro minuti circa teneva gli occhi fissi su un certo quantitativo di birra Bass numero uno imbottigliata da Bass e Co di Burton-on-Trent che si trovava situata in mezzo a un gran numero di analoghe bottiglie esattamente difronte a dove egli stava e che erano certamente intese ad attirare l’altrui attenzione a cagione del loro aspetto scarlatto.

La birra torna, nell’Ulysses, e viene sempre presentata e descritta sotto una luce aurea, sacrale, è un nettare divino.
Come mai Joyce dava così tanta importanza al luppolo? Forse solo perché gli piaceva? Oppure è un elemento simbolico? Non potrebbe essere che tanto l’Ulysses quanto il Finnegans Wake rappresentino la schiuma alfabetica dei fatti? Quanta minor birra versi nel bicchiere, quanto più velocemente lo fai, tanto maggiormente otterrai schiuma.

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La formazione del fumettista, 14 / Diego Cajelli

10 febbraio 2015

di Diego Cajelli

[Questa è la quattordicesima puntata della rubrica del martedì, dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Diego per la disponibilità. gm].

diegocajelliDetesto fare bilanci e odio puntualizzare. Raccontare della mia formazione mi costringe, per forza di cose, a riflettere sul mio passato e pensare a come diavolo sono arrivato dove mi trovo ora. È un bilancio. Cavolo. E io detesto fare i bilanci.
Prima di affrontare quella-roba, prendiamo di petto il secondo elemento al mondo che più mi irrita. Puntualizzare. Mettere i puntini sulle “i” e i trattini sulle “t”. Fare distinzioni, dettagliare, specificare in modo pedante. Ne consegue che ho scelto il mestiere sbagliato perché è vero che faccio fumetti, ma…
Non disegno.
(Prima puntualizzazione)
Scrivo.
No, non sono quello che trascrive i dialoghi dentro i balloon. Quello è il letterista.
(Seconda puntualizzazione)
Sono quello che inventa la storia. No, la maggior parte delle volte non mi dicono loro che cosa scrivere.
(Terza puntualizzazione)
Scrivo al disegnatore quello che deve disegnare.
(Quarta puntualizzazione)
Ti risparmio la quinta, sesta, settima e via-così puntualizzazione.
Il mio lavoro: sceneggiare fumetti, è un mestiere che richiede una formazione specifica e un alto grado di specializzazione. Non basta “scrivere”. La faccenda è tutta su come viene coniugata la scrittura, come si lega e come si intreccia al media chiamato fumetto. Di solito, ma non è il mio caso, gli sceneggiatori hanno iniziato ad avvicinarsi ai fumetti disegnandoli. Poi, dopo, si trasformati in sceneggiatori. Io no. Non ho mai avuto ambizioni da disegnatore. Ho sempre, da subito, voluto solo e soltanto scrivere. Forse perché ho sempre letto un casino. Leggere ha come effetto collaterale il desiderio di scrivere.

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La formazione dello scrittore, 24 / Enrico Macioci

10 novembre 2014

di Enrico Macioci

[Questo è il ventiquattresimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice. Le due serie escono, ormai un po’ come viene viene, il lunedì e il giovedì. Ringrazio Enrico per la disponibilità. gm]

La mia formazione di scrittore si divide in quattro fasi piuttosto nette.

La prima fase va dai sette ai quattordici anni ed è forse la più importante, quella che ha indirizzato e condizionato il seguito nel bene e nel male. Una mattina di febbraio del 1983 nevicava forte. Frequentavo la seconda elementare, la mia classe affacciava su un vicolo che la bufera imbiancò in un amen. La maestra propose di scrivere una poesia sulla neve. Noi alunni ci guardammo perplessi; cos’era una poesia? La maestra ci diede un’ora di tempo o forse due, non ricordo; ciò che ricordo è che allo scadere un solo bambino aveva prodotto una cosiddetta poesia, e quel bambino ero io. Una filastrocca che però conteneva un seme di ritmo e di suono, e qualche timida metafora. Tornai a casa e raccontai l’accaduto consegnando il manoscritto; mio padre, sorpreso e inorgoglito, mi comperò un drago di plastica verde e giallo che conservo ancora. Da lì in avanti, e fino ai tredici anni, scrissi altre trentaquattro poesie più un numero enorme di racconti e romanzi, la maggior parte dei quali non terminati, stipati in decine di quaderni a righe e a quadretti. Leggevo moltissimo e assorbivo lo stile e i contenuti degli autori per poi scimmiottarli; divorai Emilio Salgari, Jules Verne, Francis Hodgson Burnett, Mark Twain, Robert Luis Stevenson ed Edgar Allan Poe; mi sciroppai Pinocchio qualche decina di volte (Pinocchio è un capolavoro della letteratura mondiale, non dimenticatelo mai, specie la scena notturna in cui il gatto e la volpe, avvolti in neri pastrani, braccano il burattino all’uscita dall’osteria del Gambero Rosso); attraversai la fase dell’avventura, quella dell’orrore, quella umoristica e persino quella calcistica (il mio nume tutelare era Gianni Brera). A ben riflettere la produzione in prosa fu sin da allora incomparabilmente più abbondante della produzione in poesia, ma era quest’ultima a suscitare interesse e curiosità. In alcune delle mie poesie c’era in effetti qualcosa di singolare, di troppo precoce, una specie di tristezza matura, un anticipo sui tempi; vinsi dei premi (i premi di poesia per bambini andrebbero aboliti e sostituiti con gare di calci di rigore, o di corsa a ostacoli o di freccette); cominciai a sentire puzza di bruciato. Possedevo un dono bizzarro che si manifestava improvviso e al di fuori del mio controllo, una sorta di lampo o illuminazione indipendente dalla mia volontà, troppo remoto anche per poterlo associare all’istinto; d’un tratto mi sedevo e scrivevo, come sotto dettatura. Questo dono mi regalava attimi brevi ma intensi di felicità – meglio: di rapimento e pienezza, di totale sintonia col mistero chiamato mondo; però allo stesso tempo mi separava dal mondo, dal mondo e dagli amici. Non era vero naturalmente, ma quando mai ciò che è vero ha contato un soldo bucato nelle nostre vite? Conta solo ciò che crediamo, e io credevo con fermezza che la poesia (non il racconto o il romanzo, si badi bene, solo la poesia) scavasse un fossato fra me e i miei coetanei, mi rendesse “diverso” (una parola dubbia e ambigua, una parola limacciosa, una parola che è una palude). In realtà gli amici e le amiche si limitavano a manifestare equanimità, stupore o addirittura ammirazione quando s’imbattevano nei miei versi, ma il mio astio verso il “dono” divenne via via più inflessibile. Da un certo punto in avanti non volli che si parlasse delle mie poesie e ne proibii la circolazione; se qualche parente diffondeva la voce del poeta m’arrabbiavo; staccai dal muro un diploma di merito e lo nascosi sotto il letto, dietro le scatole delle scarpe, nel regno della polvere e dell’oblio; infine, sei giorni dopo aver compiuto quattordici anni, buttai giù l’ultima poesia da bambino e decisi che non avrei più scritto. Fu una risoluzione netta, fredda e consapevole, non certo un capriccio. Ci diedi un taglio con l’affilata lama della vergogna intinta nel veleno del senso di colpa. Non scrissi (e non lessi) più nulla per i successivi tredici anni.

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La formazione dello scrittore, 18 / Fabio Capello

16 ottobre 2014

di Fabio Capello

[Questo è il diciottesimo articolo della serie La formazione dello scrittore, parallela alla serie La formazione della scrittrice (che per qualche settimana sarà sospesa, mentre le “formazioni” degli scrittori uscitanno sia il giovedì sia il lunedì). Ringrazio Fabio per la disponibilità. gm]

Ti auguro di vivere in tempi interessanti.
[Antico proverbio cinese]

fabio_capelloTutto doveva essere iniziato molto prima. Ancorato tra una Stratocaster nera e il Cloanto C1 Text, c’era un confine preciso che si perdeva in una notte d’estate. Alterata, come il jet lag che mi riportava in Italia.
L’America era un sogno cercato, trovato, e poi lasciato brutalmente alle spalle.
Un foglio di carta bianco, su quello stesso quaderno su cui avevo affondato i miei sogni di adolescente, era un mondo che si apriva, che ti dava per la prima volta la possibilità di scegliere tu la storia da raccontare. L’Alfa e l’Omega. Il qui e adesso, ma anche il futuro e il passato di qualunque mondo lontano.
E, allora non lo sapevo, di mondi ne avrei visti tanti.
Se mi avessero detto quella notte, che un giorno avrei scritto di medicina e fisica, e che i mei libri avrebbero varcato i confini nazionali, avrei risposto che era naturale. Perchè?
Cosa hanno mai in comune la scrittura scientifica e la narrativa?
Micheal Crichton, certo, e Frank Schätzing.
Ma non basta.

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La formazione dello scrittore, 10 / Marco Candida

24 luglio 2014

di Marco Candida

[Questo è il decimo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Marco per la disponibilità. Con questo articolo la rubrica va in vacanza: riprenderà giovedì 4 settembre con il contributo di Raul Montanari. gm]

Marco CandidaHo scritto il primo romanzo a dodici anni. 1990. Quell’anno passavano in televisione la serie televisiva Twin Peaks. Avevo visto La Casa Russia con Sean Connery e Michelle Pfeiffer. A scuola leggevamo in classe Zanna Bianca di Jack London e avevo trovato presso le bancarelle in Piazza Duomo a Tortona Martin Eden e Il richiamo della foresta nell’edizione cartonata e molto voluminosa dei Fratelli Melita. Il richiamo della foresta è stato un grande libro, ma Martin Eden è stato un libro che ha rappresentato per me, come per molti altri, un caposaldo. Casa Russia. Twin Peaks. Martin Eden. Ricordo d’essermi seduto per la prima volta alla scrivania nella mia stanza soprattutto con le suggestioni e le atmosfere date da queste storie nella testa – come non rimanere suggestionati dalla colonna sonora composta da Angelo Badalamenti per la serie televisiva girata da David Lynch? E’ venuto fuori un romanzo lunghissimo scritto in sei mesi con tre diversi tipi di penne (una penna biro blu, una Bic nera e poi un bavoso tratto pen) in un quadernetto con la copertina rigida (che recava l’immagine della maglietta della Juventus con qualche adesivo acquistato in un negozio sottocasa dal nome Chewing-gum, vera e propria oasi di colori, plastica e gomma nel grigiore paludoso, di pietra e di stucco, della mia città natale) con fogli a spirale a quadretti e poi a righe. Ora che lo riguardo mi accorgo come nel quaderno i caratteri della grafia diventino sempre più piccoli man mano che la narrazione procede. Più il romanzo si scioglie e diventa solo una storia e non il tentativo di un ragazzo di scrivere, di fare lo scrittore e più la grafia si rimpicciolisce, cosa che forse suggerisce una forma di pudore: nelle parti dove non stavo facendo lo scrittore, ero soltanto me stesso con una penna e dei fogli e questo mi procurava imbarazzo, e scrivevo piccolo per rendere quello scritto accessibile solo a me, comprensibile solo ai miei occhi e a nessun altro sguardo occasionale – mi figuravo i miei genitori curiosare tra le mie cose e poi me li figuravo leggerle agli Elemento o ai Taverna o a Piero e Assunta. Ciò che è davvero interessante del quadernetto si trova nella prima pagina. C’è una griglia con un calcolo approssimativo del numero di parole all’interno del romanzo. Se non ricordo male era un discorso letto per la prima volta proprio presso Jack London. Tenere conto del numero di parole in uno scritto. Mi stupisce ora pensare che un ragazzino di dodici anni si appassionasse a dettagli come calcolare il numero di parole dei suoi romanzi perché è una questione molto molto tecnica – e nemmeno particolarmente praticata presso i più affermati scrittori nostrani. Di qua avevamo un ragazzo che aveva attaccato il suo romanzo con la descrizione del canto del gallo, delle foglie nella rugiada, l’alba e di là lo stesso ragazzo vedeva tutte quelle cose con sguardo aritmetico, considerava ogni emozione e palpito dato dalla prosa come quantità.

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La formazione dello scrittore, 8 / Alessandro Zaccuri

10 luglio 2014
Gianni De Luca, Amleto, da William Shakespeare (Il Giornalino, 1976)

Gianni De Luca, Amleto, da William Shakespeare (Il Giornalino, 1976)

di Alessandro Zaccuri

[Questo è l’ottavo articolo della serie La formazione dello scrittore, che appare in vibrisse il giovedì (ed è parallela a quella La formazione della scrittrice, che appare invece il lunedì). Ringrazio Alessandro per la disponibilità. gm]

1.

alessandro_zaccuriL’ultima storia sarebbe questa.
Muore un uomo, si prepara il suo funerale. La malattia è stata lunga, metodica com’era stata la sua esistenza. Il lavoro in banca, la cura perfino eccessiva nell’organizzare le giornate, l’abitudine di arrivare in stazione anche un’ora prima quando c’era da prendere il treno, l’insistenza nel leggere prima le istruzioni, sempre. Mai in ritardo a un appuntamento o a una scadenza.
Quest’uomo ordinato muore, dunque, e si prepara il suo funerale. In un giorno qualunque, a inizio settimana. In un paese di provincia, dove fino ad allora nulla è accaduto. Ma quel giorno, proprio all’altezza della cittadina dove nulla accade, un furgone sbarra l’accesso all’autostrada che da Milano va verso Como, un camion si mette di traverso sulla carreggiata, uomini con il passamontagna scendono, gettano chiodi a tre punte. Impugnano kalashnikov, sparano. Il blindato del portavalori viene assalito e svuotato. Pochi minuti per la rapina del secolo. Pochi minuti per liberare i demoni del caos. I banditi scappano, l’autostrada è bloccata, il blocco dell’autostrada provoca l’effetto domino sulla viabilità della zona, dell’area metropolitana, dell’intera regione. Arrivare al funerale diventa un’impresa. Tutti i contrattempi, tutti i ritardi evitati nel corso di una vita si accumulano in quell’ultimo giorno, in un ingorgo spaventoso e insieme allegro. Inspiegabilmente, meravigliosamente allegro.
Ecco, questa è l’ultima storia che mio padre mi ha raccontato. Non a parole, perché di parlare aveva smesso da anni. Il morto era lui, il funerale era il suo. Quel giorno pioveva, tra l’altro.

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La formazione della scrittrice, 14 / Sara Loffredi

14 aprile 2014

di Sara Loffredi

[Questo è il quattordicesimo articolo di una serie che spero lunga e interessante. Ringrazio Sara per la disponibilità. Chi volesse proporsi, mi scriva mettendo nell’oggetto le parole “La formazione della scrittrice”. La prossima settimana toccherà a Silvia Cassioli. gm]

sara-loffrediVengo da una famiglia fatta di posti diversi, distanti tra loro. Nasco a Milano trentacinque anni fa ma i miei genitori si spostano subito in Valle d’Aosta, dove vivono i parenti di mio padre, la nonna calabrese, il nonno romano, la bisnonna greca. Quando compio sei anni ci trasferiamo da mia madre, a Brescia, città dove trascorro tutti gli anni della scuola. Sono una brava bambina: le elementari dalle suore, le medie al conservatorio, il pianoforte al pomeriggio. Un giorno non reggo più e decido che non voglio fare il liceo: vuole essere una vendetta stupida verso chi non mi dà attenzione, si rivela la prima scelta autonoma di cui devo gestire le conseguenze. Frequento per cinque anni un istituto professionale per tecnico di laboratorio, mi affascinano le reazioni chimiche, una sostanza che ne diventa un’altra, terreni di coltura dove cresce ciò che non si vede. Non studio niente che abbia a che fare con la letteratura. Leggo molto, ma amo davvero solo ciò che mi fa paura: da Stephen King a Hoffman e Poe. Perdo del tempo? Non lo so. Vedo film, ascolto musica, leggo fumetti. In quegli anni imparo l’attesa e la sensazione che per me esista un altrove.

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