di Enrico Macioci
[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].
Che cos’è Il quinto evangelio di Mario Pomilio? Alla domanda si può rispondere in almeno due maniere.Anzitutto consideriamo l’oggetto narrativo. Pomilio lo pubblicò dopo prove quali L’uccello nella cupola, Il testimone, Il nuovo corso, Il cimitero cinese, e dopo un lungo blocco durante cui stese saggi e riflessioni e maturò risposte profonde alla sua crisi di uomo e scrittore, allestendo l’officina e forgiandosi gli strumenti per edificare il capolavoro. Veniva da un decennio di stasi creativa che lo portò ai confini del silenzio, e Il quinto evangelio rappresentò la svolta attraverso cui ribaltare le difficoltà in risorse e l’afonia in una diversa, più potente voce. Accade abbastanza spesso, del resto, che un autore consacri il proprio genio attraverso un solo, grande libro – pensiamo a Dante, a Melville, a Musil; è anche il caso di Pomilio.
Il quinto evangelio venne pubblicato nel 1975 (lo stesso anno in cui uscì Horcynus Orca di D’Arrigo), dunque in pieno postmoderno; tuttavia esso riassume, forse più di qualsiasi altro testo narrativo in Italia e in Europa, la migliore essenza postmodernista per poi scavalcarla. Si tratta cioè di un’opera aperta, metatestuale, labirintica, autoriflessiva, debordante, ramificata, potenzialmente infinita; è l’opera di un autore assai consapevole; è colta; ama gli intrighi; mette e si mette in scena; è insomma un’opera intelligente, che richiede al lettore una collaborazione attiva e quasi una co-creazione. Ciò che invece manca di postmoderno – mancanza che non stona e anzi aggiunge merito a Pomilio – sono l’ironia e il disincanto che finiranno per divorare parecchi scrittori a venire, determinando la deriva nichilista che Foster Wallace, già nella seconda metà degli anni ’90, denunciò con toni piuttosto allarmistici. Non si può scherzare (per) sempre, e Pomilio nel suo romanzo non scherza. Del resto Il quinto evangelio parla della questione delle questioni, la questione che per brevità potremmo chiamare del Libro. Quale prova più ustionante per uno scrittore?
Qualche titolo, in breve.
Infinite Jest di David Foster Wallace vede la luce nel 1996; è una serrata analisi (e una satira) della società dei consumi e ruota intorno alla letale cartuccia di un film che costituisce l’intrattenimento definitivo: chi lo vede, muore. Underworld di Don DeLillo viene edito nel 1997; costituisce un affresco degli Stati Uniti d’America a cavallo fra il secondo dopoguerra e gli anni ’90, tessuto inseguendo una vecchia e logora palla da baseball, cimelio, simbolo e icona di un’intera configurazione dell’uomo e del mondo. 2666 di Roberto Bolaño esce invece nel 2003 e fa esplodere il dettato postmoderno sia nella forma (una germinazione di storie oramai convulsa, che può indurre al panico) sia nei contenuti (il pathos del sacro che torna a bussare alle porte di una rediviva coscienza spirituale); l’epopea del cileno parla della lunga e infruttuosa caccia allo scrittore scomparso Benno Von Arcimboldi, ambiguo genio forse complice delle perversità del ʼ900, e sfiorandone la figura – sorta di Balena Bianca contemporanea – senza mai arpionarla, spalanca una botola nel senso stesso della letteratura.
Tre fra i romanzi più notevoli degli ultimi decenni sono dunque strutturati in maniera abbastanza simile: gigantesche cattedrali che custodiscono al loro interno un arcano, insidioso e sfuggente graal. L’arte narrativa pone un problema e poi, per quanto abile essa si dimostri, non lo risolve, non sa più sciogliere il cappio. Viene in mente a proposito di cappio – macabro e triste pensiero – il suicidio proprio di Foster Wallace, che s’impicca lasciando incompiuto l’ultimo difficile lavoro, Il re pallido. La bravura, insomma, non basta più; e trova una paradossale ragion d’essere nella piena espressione della propria inadeguatezza.
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In un’ottica del genere Il quinto evangelio anticipa – e per certi versi supera – gli esempi fatti; li anticipa perché viene concepito venti o trent’anni prima; li supera perché il nucleo che si sforza di raggiungere è (semplificando ma non troppo) Gesù Cristo il Figlio di Dio, il fondatore della nostra civiltà, l’individuo più complesso e inquietante in cui possiamo specchiarci.
Pomilio sfoggia un armamentario tecnico eccelso; la finzione narrativa, i numerosi alter ego, le diverse forme e i molteplici registri gli consentono di prendere le distanze da una materia tanto incandescente e però di metterla a fuoco grado a grado, provare a fissarla in una luce durevole che sveli e non accechi. Le lettere, i lacerti, gli apocrifi, i commenti e i commenti dei commenti, le domande e le risposte vanno a modellare un unico grande coro, nel tentativo di rispondere alla domanda che ci angoscia, affascina e scandalizza da più di due millenni: voi, chi dite che io sia? Come un disegno di Escher, il libro di Pomilio s’avvicina allontanandosi e s’allontana avvicinandosi; la sua méta è davanti ma anche indietro, è a destra, a sinistra, sotto e sopra; somiglia a quelle trottole che vorticando mescolano molti colori in un unico colore, il quale però esiste fintanto che si verifica il movimento. Il movimento de Il quinto evangelio consiste in un perenne interrogarsi, perché solo così il mistero si ravviva emergendo dalle ingannevoli tinte del pensiero superficiale.
Joseph Conrad (fonte d’ispirazione di tanto modernismo e dunque, per vie traverse, di tanto postmodernismo) ha impartito ai romanzieri lezioni perfette sull’arte di nascondersi, rimandare, frapporre barriere, inventare stuntmen letterari, cautelarsi dal fuoco della verità; è grazie a Marlow che giungiamo a conoscere Kurtz, è Marlow lo specchio – incrinato – in cui il folle volto di Kurtz si riflette e ci osserva senza distruggerci. Pomilio ne Il quinto evangelio spinge la pratica alle estreme conseguenze, dando vita a una foltissima schiera di personaggi e servendosene per ridurre il calore della fiamma, l’urgenza della sfida che risuona nel cavo dei secoli: voi, chi dite che io sia?
E qui passiamo all’altro aspetto de Il quinto evangelio, quello metafisico, il più centrale, la dinamo del testo. Pomilio si è cimentato in un’operazione – dal punto di vista estetico e cognitivo – ardua e sgomentante. Egli ha riletto per sé e per noi i quattro Vangeli canonici e ha tentato di cavarne fuori una visione (una forma) che andasse oltre le incongruenze, le interpretazioni, le forzature, le devianze accumulatesi nel tempo. È dunque risalito alla sorgente della nostra storia intellettuale e se n’è abbeverato; quell’acqua è fredda, può dissetare ma anche tagliare la gola, eppure lui ne ha bevuto e poi s’è tuffato, alla ricerca del quinto evangelio.
Ma che sarà mai questo quinto evangelio? Pomilio comincia a chiarircelo a pagina 75, attraverso le parole di un abate del X secolo, un certo Servato Lupo: “Adesso sono intento a comporre un quinto poemetto nel quale non vorrei procedere più per paragrafi ma dar voce alla mia voce celebrando non questo o quel vangelo già composto, ma la verità che scorre per tutti e in nessuno si trova intera”, la quale verità fa “a somiglianza dell’erba, che non le bastano i luoghi culti, ma cresce anche lungo i fossi e perfino tra le pietre”, o del lievito, “che fermenta in sempre nuova pasta […] per manifestarsi ulteriormente al nostro intendimento”. Il passaggio-chiave si situa per me laddove l’abate sostiene di voler dare voce alla propria stessa voce. La materia trattata insomma non esiste in sé; essa è piuttosto il risultato – meglio, il distillato – di un principio che possediamo già, che si trova già a portata di mano, che è ovunque e che, alla pari dei raggi ultravioletti o dei neutrini, attende gli strumenti per decifrarlo. Pomilio insegue più un margine che un centro, più un’ombra che una luce (o una luce talmente forte da diventare e da fare ombra); la sua è più una (ri)scoperta che un teorema. Come afferma lui stesso “è lo Spirito che si cerca”, e non occorre afferrarlo né possederlo bensì accoglierlo; un’accoglienza siffatta richiede disponibilità, flessibilità, morbidezza interiore, una rara umiltà (l’umiltà dei santi) e un’eroica rinuncia all’ego. La materia del romanzo di Pomilio – la stessa che trasuda dai Vangeli come resina da un tronco, ancora in larga parte incompresa, fraintesa, inesplosa – è ricca d’insidie; leggere i Vangeli implica sempre un riaccendere il problema, giammai un risolverlo, sempre un rimettersi in gioco e giammai un concluderlo; fra le pagine umane dei quattro libretti vibra un messaggio sovraumano; chiunque Gesù fosse, le sue frasi eccedono la nostra capacità di comprensione: “Eppure, ecco, alla fine di questa somma d’inesattezze [dei Vangeli] deriva un’impressione tutt’altro che gradevole e uno stato d’animo, starei per dire, assai simile al disagio. Come se, sì, quanto alla lettera quelle pagine restassero più o meno le stesse, ma quanto allo spirito apparissero mutate, più arrischiate, più inquietanti, più scottanti e imbarazzanti, e direi quasi intessute con fibre più inflessibili. Al punto che alcuni giorni io spesso mi domando: Ma che diamine c’è, insomma, nei Vangeli, che basta leggerli tradotti in modo appena un po’ diverso, o solo udirli pronunziare diversamente dall’usato, perché all’improvviso ci suonino sediziosi?”.
Qui Pomilio si esprime tramite Teodoro da Tortona, un abate che sarebbe vissuto a Bobbio durante il 1200 e il cui carteggio col vescovo di Vercelli verrebbe citato negli Annali dal Muratori. La dovizia di particolari che l’autore dedica ai vari cronisti e al loro inquadramento storico e geografico è significativa: più essi appaiono reali, meno Mario Pomilio rischia in prima persona (Conrad docet) perché la letteratura, se si spinge a esplorare certe zone, chiede in cambio qualche sostanzioso tributo. Leggere i Vangeli e poi scriverne con la dovuta serietà significa correre il pericolo di guardare nell’abisso – l’abisso dell’umano – e non scorgervi il fondo. Del resto, scorgiamo un fondo se ci chiniamo a guardare dentro di noi?
I Vangeli sono intimamente contraddittori, rigettano le ideologie e le filosofie; non sono addomesticabili, non rientrano negli schemi; fanno attrito non solo con la storia precedente e successiva ma perfino con sé stessi. La loro parola è un perpetuo dissidio, un ininterrotto dialogo fra questo mondo e un altro, che balugina ora minaccioso ora luminoso ma comunque smisurato nella sua feroce genuinità, vicinissimo e remoto. Gesù Cristo ha portato sulla Terra una parola nuova e ancor oggi futura, una fiamma furibonda che nessuno è in grado di spegnere o quantomeno controllare. Gesù, parlando come nessuno mai, ha ammalato ogni ulteriore discorso. Gesù è dunque – anche – un dilemma, un arduo dilemma. Poco più sotto Pomilio (stavolta per l’interposta persona di Benedetto da Monforte, vescovo di Vercelli) aggiunge: “Io finora ai Vangeli avevo sempre pensato come a un libro di devozione, e invece ho scoperto che sono una fonte di virtù antagoniste”.
È qui che subentra, simile a una spina conficcata nella pelle, il problema dell’identità del soggetto delle narrazioni evangeliche. “Guardiamo al suo carattere”, ci esorta il Quinto Evangelista che, fra le voci del libro, è la più eloquente e ispirata, la più diretta – Pomilio se ne sta subito dietro, pieno di timore e coraggio assieme. “Tenero e forte, delicato e fiero, dignitoso e sofferente, imperioso e insicuro, umano e più che umano. […] Si possono moltiplicare i punti di vista intorno a lui col risultato che ne emerge solo l’indecifrabilità”.
Gesù è un agrafo, come Socrate. I due maestri dell’Occidente non scrivono, parlano. E la parola di Gesù risulta così potente da frantumare il quadro che si sforza di racchiuderla, un po’ come se si tentasse d’infilare in una cornice l’oceano in tempesta. “Su un piano narrativo incolore e quasi inerte emergono via via i discorsi di Gesù: e sono discorsi d’altro stampo, scritti come in un’altra lingua, discorsi tali, dico, che ancora oggi ci stiamo domandando chi fosse a pronunziarli e se fosse semplicemente un uomo”, afferma il Quinto Evangelista. Poi: “Certo è che il linguaggio usato da Gesù, più ci si pensa, più appare un vero miracolo espressivo: non riferibile a tradizioni, sfugge a ogni definizione, non è riducibile al metro umano – come se questo, per dir così, non riuscisse a contenerlo intero”.
Di qui la feconda insufficienza dei Vangeli, e più in generale l’insufficienza di qualsiasi testo al cospetto del Verbo donde la totalità dei testi, per vie sempre e comunque da discernere, prende slancio. Pomilio ci avverte: s’annida un cortocircuito nell’atto dello scrivere. La modernità ha reso via via più pressante quest’impotenza genetica della scrittura. Due poeti cruciali degli ultimi secoli, Hölderlin e Rimbaud, tacciono rispettivamente a trenta e a vent’anni; Melville tace poco dopo la stesura di Moby Dick, uno dei romanzi decisivi fra Otto e Novecento; Nietzsche sprofonda nelle tenebre a quarantacinque anni; e gli esempi aumentano avvicinandosi ai nostri tempi fra silenzi, suicidi, follie (Trakl, Campana, Cvetaeva, Wittgenstein, Celan, eccetera). Più la coscienza e l’ascolto del Logos si acutizzano, più bruciano la parola scritta. Dinanzi all’incendio dello spirito i nostri poveri foglietti diventano cenere. La parola scritta è un ripiego, nel migliore dei casi una pallida eco dell’originale, e qualunque scrittore che abbia lavorato con impegno allo sviluppo delle proprie idee lo sa bene. “È una conferma del paradosso dei Vangeli”, afferma Pomilio tramite lo scritto, apparso su la “Rassegna delle province meridionali” di un tale Ferdinando Derosa, “che non sono intelligibili se non ai sentimenti”. Per poi far sentenziare al chimerico Dominique Dubos, nella biografia dell’altrettanto chimerico cavalier Du Breil: “La verità non è mai così esatta da non consentire una certa dose d’immaginazione”.
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Qui però, al culmine della vertigine speculativa, subentra il salto mortale della grazia, il taglio del nodo gordiano; la faccenda non è risolvibile da un punto di vista razionale, la logica non basta e occorre attingere alle emozioni, alle parti preconsce, a ciò che ci abita senza che lo sappiamo; occorre attingere a ciò che abbiamo dimenticato di possedere e forse perfino di essere. Stanare il quinto evangelio, estrarlo dalla palude della religione e dell’ateismo, della credulità ingenua e dell’arido raziocinio, non è più un problema filologico e neppure psicologico o culturale, ma spirituale o iniziatico. “Procura di trovare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio”, ci istruisce l’abate di Bobbio, laddove giacciono alcune carte che lì avrebbe lasciato San Colombano di ritorno da un viaggio in Calabria. La soluzione – semplice e terribile – consiste in una scelta (gli uomini, ammonisce Dostoevskij, odiano poter scegliere e cioè odiano l’arbitrio): la scelta di credere che non sia tutto qui e che l’avanzo di senso che stilla dai Vangeli come succo dall’orlo d’un barattolo concreti la reale essenza di Gesù, ciò che Egli non rivelò compiutamente per tema forse di bruciarci. Perciò “il quinto evangelio è già scritto negli altri quattro, e bisogna solo sapervelo leggere” poiché “un’impostura, quasi sempre, non è altro che una verità manomessa” e poiché “ciascuna generazione non soltanto rilegge diversamente i Vangeli, ma, dal modo in cui ne adotta e ne esplica il messaggio, è come se a sua volta scrivesse un suo vangelo”.
In tal senso, letteralmente, il quinto evangelio è Gesù. Lo conferma il magnifico dramma teatrale che conclude il libro, in cui prende la parola il Quinto Evangelista rivelandosi, dopo che nemmeno gli evangelisti canonici lo hanno riconosciuto, come il Figlio dell’Uomo. Il salto mortale di Pomilio si compie non tramite il ragionamento ma tramite la finzione narrativa; di personaggio in personaggio, di balzo in balzo egli, indomito acrobata, giunge fino alla croce di Cristo, alla sua morte e resurrezione; il problema in apparenza irrisolvibile viene risolto.
Il racconto evangelico, a differenza di tutti gli altri racconti, non si riduce a un facciamo finta che; ma essendo troppo vero per i nostri fragili parametri giochiamo a fingere, permettendoci in tal modo di esitare e rimanercene al calduccio. Perché se Gesù è esistito (se Gesù esiste), tutto è possibile: la difficoltà si trasforma in uno stimolo e l’incompiutezza in una nostra decisione, mentre la morte non appare più come uno sbarramento ma come una foce, come il passaggio verso un luogo in cui dovremo rivelarci infine all’altezza di noi stessi, della nostra natura umano-divina. “Certamente il quinto evangelo è anche la storia d’una lunga eresia; e parimenti esso è anche il ramo verde della Chiesa, di continuo reciso e di continuo rifiorente, è anche la perpetua utopia del Regno, è anche l’emblema della fuga in avanti impostaci per sempre dalla parola del Cristo. Solo che la ricerca d’un quinto vangelo reale, tangibile, d’un vero libro insomma, non è stata soltanto una scommessa con l’impossibile […]. È vero semmai che essa includeva anche il bisogno, velleitario quanto si vuole, visionario quanto si vuole, di rincorrere un’evidenza per incontrare una speranza”.
Ecco, la parola “speranza” (posta non lontano dalla parola “evidenza”) mi sembra la più adatta per concludere queste riflessioni poiché il grande libro di Pomilio, sebbene pervaso dallo scetticismo e roso dal dubbio di un’inesausta intelligenza, pulsa di un’antica eppur nuovissima attesa, come di un parto dolce e tremendo e salvifico.
Enrico Macioci (L’Aquila, 1975) si è laureato in Giurisprudenza con una tesi di diritto tributario e in Lettere Moderne con una tesi su Cuore di tenebra di Conrad. Ha pubblicato Terremoto (Terre di mezzo, 2010), La dissoluzione familiare (Indiana, 2012) e Breve storia del talento (Mondadori, 2015). Ha pubblicato racconti in Nazione indiana, vibrisse, Nuovi argomenti e Il primo amore.
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26 ottobre 2015 alle 13:25
una bellissima disamina, di testa ma anche di cuore. Molto molto apprezzata,grazie ad Enrico Macioci
26 ottobre 2015 alle 15:11
A me, fra primi due testi, ha colpito un’assonanza: la “fraintesa leggerezza” di Frasca, e il passaggio sull’ironia che ha finito per divorare molti, di Macioci. È un po’ di tempo, troppo, che osservo come di questi tempi post-tutto l’ironia sia diventata l’unica forma di atteggiamento possibile nell’avere a che fare col mondo. È una cosa che mi spinge da tempo alla reazione contraria. Alla ricerca di pesantezza. (Prendetela nel verso giusto, la parola “pesantezza”, che poverina, vedete che accezione negativa le si mette addosso subito?)
26 ottobre 2015 alle 16:19
Anna Maria, ti ringrazio per il tuo apprezzamento.
Sandro: arrivo tardi perché Wallace (tanto per fare un nome) denunciò un certo tipo di ironia e il suo abuso giù vent’anni fa. Credo che nel frattempo la situazione si sia aggravata, per poi collassare. L’ironia va bene, ma non può costituire la precipua chiave di lettura del mondo; e lo stiamo capendo, mi sa.
Poi c’è l’umorismo che è una cosa diversa, ha la stessa radice di humilis e di humus, dunque un elemento umile e terreno, terragno. Io lo preferisco all’ironia, alla lunga. Ci vedo più cuore. L’ironia crea una distanza fra noi e le cose che può salvarci ma anche perderci. E siccome ritengo che ci troviamo a vivere un tempo per molti versi ultimativo e pieno di sfide – basta vedere tutte le crisi personali e collettive che ci assillano – credo che una certa “pesantezza”, come la chiami tu, sia oggi necessaria. Pomilio, accostandosi a un tema enorme, mostra l’umiltà di prenderlo davvero sul serio. Va a caccia della Balena Bianca ma non finisce come Achab. E vince la sfida, perché leggendo Il quinto evangelio noi gli crediamo. Quale complimento più grande per uno scrittore di narrativa?
26 ottobre 2015 alle 16:32
“ 30 ottobre 1991 – Non si deve svuotare troppo le parole di senso. Perché così facendo si privano di qualcosa a cui hanno diritto, di qualcosa di indispensabile alla loro vita. Il loro potere, cioè la loro vitalità, risiede anche nel fatto di non essere puro suono, di avere un contenuto trasmissibile, una pesantezza che garantisce il loro valore umano. “ [*]
[*] Lsds / 571
27 ottobre 2015 alle 12:25
Su suggerimento di Demetrio, incollo qui il commento che avevo lasciato su Facebook, aggiustandolo un po’.
Piccola premessa: mi riferisco solo al ragionamento di Sandro Campani ed Enrico Macioci sull’ironia postmoderna, e sulla ricerca di una ritrovata “pesantezza”, e non sull’articolo in sé, o sul grande Pomilio. Mi scuso per la serietà (!) del tono; ma ‘sto periodo vado preso così, o ciccia.
Credo, innanzitutto, che l’abuso di ironia, – portato in dote dall’improvvisa popolarità di un frainteso “stile post-moderno”, – sia stato causato da un “effetto backlash” nei confronti di secoli e secoli di serietà stilistica clericale (non in senso cristiano; ma nel senso distorto del clericalismo della militanza), che, a un certo punto del Novecento, è letteralmente esploso nel suo opposto quando alcuni tra gli accademici più idealisti(ci) del giro si sono accorti dell’inevitabile avvento di un’era post-ideologica, e hanno tentato di giocare d’anticipo. Ancora una volta, però, data la loro inevitabile forma mentis, hanno reagito strutturando l’ennesimo ferreo sistema di pensiero e di regole: o ironia, o morte. Una reazione ai danni fatti da un millennio circa di autoerotismo intellettuale praticato sui rimasugli a noi noti della “Poetica” aristotelica. (Vedi la divulgazione che ne fa Eco nel “Nome della rosa” a tutto vantaggio morale dell’ironia). In sintesi, mi sembra tutto, come sempre, frutto della vecchia tensione (e tenzone) che si è voluta creare, – a tutti i costi, artificiosamente, e in maniera riduzionistica, – tra assolutismo e relativismo morali, che ha poi lentamente inquinato il mondo letterario tramite l’accademia; in un contesto globale in cui il centrismo radicale del pluralismo dei valori, – che ammetterebbe tanto la serietà quanto l’ironia, nella loro incommensurabilità e irrisolvibilità, lasciando all’individuo la scelta altrimenti delegata all’Autorità o al Caso, – è volutamente ignorato per ragioni di partito-preso-accademico. O il pessimismo radicale, e quindi solo il ludus AKA l’ironia, oppure la serietà escatologica degli Eterni. O/O. Aristotele e Nietzsche che si danno a mazzate in faccia in nome del monismo dei valori, e tutti gli epigoni costretti a dover scegliere, fermi col cerino in mano; ché, nel XXI Secolo AKA XX Secolo 2.0, se non fai una scelta di campo, sei una persona detestabile. (Uno scrittore pluralista, – quasi mai messo, infatti, assieme ai post-modernisti durante la stesura dei Grandi Canoni, – ha esemplificato il suo motto in: “Sheer Playfulness and Deadly Seriousness are my closest friends”). A me sembra che ironia e serietà non siano altro che strumenti, come la vanga e l’aratro, o il laissez faire e il dirigismo, – e quindi non incompatibili per loro stessa natura, – se non in situazioni di bias, ossia di forte pregiudizio, ossiancora di partito-preso-idealistico.
27 ottobre 2015 alle 15:56
Di Salvia tocca un argomento importante, e lo fa a mio avviso col giusto equilibrio; ma voglio aggiungere una riflessione. In fondo ogni tecnica (ironia, serietà ecc) va giudicata dall’uso che se ne fa, questo lo sappiamo. Ma credo che una tecnica non sia mai innocente, e che a propria volta trasformi chi la utilizza, perfino a insaputa dell’utilizzatore. E credo che la famosa denuncia di Wallace fosse realmente urgente, e cioè che un eccesso di ironia a cavallo fra gli anni novanta e i dieci ci stesse uccidendo l’anima (uso questo termine in senso lato e non religioso). Poi, chiaro, ciascuno ha i propri punti di riferimento. Io, che pure appena tre anni fa ho pubblicato un romanzo zeppo d’ironia e sarcasmo, considero Dostoevskij il massimo dei romanzieri, e Dostoevskij (mi pare) non scherza praticamente mai. Prende di petto le questioni capitali e ci “rischia la vita”. Ecco, forse oggi dobbiamo ricominciare a fare così, o dobbiamo comunque farlo di più. Mi sembra che siano i tempi stessi a chiedercelo e quasi a imporcelo. Le domande radicali: Dio o no? Libertà o no? Salvezza o no? Redenzione o no? Questa è, lo ripeto, una mia visione del tutto personale, ancorché non isolata; e seppure io non possa sganciarla dall’ottica cristiana, essendo un italiano del xx secolo, per me è del tutto laica e riguarda tutti. Per usare le parole di Di Salvia, io escluderei il “pessimismo radicale” ma non la “serietà escatologica degli eterni”. Il che non vuol dire – sempre per come la intendo io – essere credenti, ma impegnarsi a cercare seriamente la presenza o l’assenza di un senso. Si tratta comunque di argomenti difficili e ambigui, che non desidero tagliare con l’accetta e che lasciano sempre un margine da chiarire o illuminare. E grazie ancora per i vostri preziosi commenti, il Quinto evangelio merita riflessioni infinite
28 ottobre 2015 alle 09:47
Ciao. In parte sono d’accordo con Francesco e in parte con Enrico. Mi spiego. L’ironia non è un lascito del romanzo post moderno la letteratura ne è piena e da sempre. Pensiamo cosa sono stati i poemi eroicomici e come essi non esisterebbero senza Pulci e senza l’Ariosto o il Tassoni. Quindi l’assenza di ironia È a sua volta un modo di dare importanza all’ironia. Secondo me invece quello che individua Enrico non lo definirei ironia ma disincanto. Quasi che lo scrittore del romanzo post moderno dicesse: Ragazzi È tutto detto potrei scegliere o il silenzio o il gioco di combinatorio. Ecco io questo lo avverto forte nell’ultimo Calvino
29 ottobre 2015 alle 06:09
Mi ricordo un convegno a Venezia, tanti anni fa. Tiziano Scarpa (che aveva già diversi libri alle spalle, ma non lo Stabat mater e lo Strega), raccontava di essere giunto a pensare che, forse, con la letteratura, si può provare e riuscire a dire qualche “parola di verità”. Andrea Cortellessa gli ribatteva: ma va’, questo è solo un “momento della tua poetica”.
Vado a memoria e quindi prendete con le mollette; ma le parole “momento della tua poetica” mi si sono piantate in testa.
La sensazione, in verità, era questa: lo scrittore cerca di spiegare che per lui, anche esistenzialmente, la letteratura è qualcosa che ha che fare con la verità; il critico lo prende per il culo.
Che poi il critico sia il medesimo che nella sua (bella) collana ha accolto Il quinto evangelio… Be’: c’è un’ironia anche negli eventi stessi.
29 ottobre 2015 alle 13:42
Mi riallaccio al commento di Giulio per ribadire in breve un fatto importante: Il quinto evangelio non è un’opera “cristiana” ma appunto un’opera sulla verità – come tale destinata a uscire sconfitta, ma che magnifica sconfitta che porta a casa Pomilio! Cioè questo romanzo è refrattario, secondo me, a qualunque ideologia; va letto e basta. Forse dovrebbe essere così con tutti i libri ma quello di Pomilio, per il tema che tratta e per come lo tratta, merita un’ulteriore conferma dell’assunto.
30 ottobre 2015 alle 18:47
Avevo scritto un commento che s’era trasformato in una dissertazione di due pagine sull’ironia, e la serietà, e la neutralità degli strumenti, e Pulci, e Dionisotti (!). (E su di me che fuggo adolescente da Salerno; mentre Macioci, in qualche modo, ci arriva, a un certo punto della sua vita). Poi, per fortuna, il commento di Giulio mi ha fatto ritornare in me stesso.
Io sono un turista delle filosofia e, temo, anche della letteratura. Chiedo scusa a tutti per le inconsistenze del mio sistema di pensiero; che non è strutturale e, tempo, non abbastanza noioso. Il problema della nullità/inconsistenza/assurdità della parola “verità” mi pare, però, un altro tipico problema dei teorici piagnoni del post-modernismo (accademico). Per questo mi sollazzo a leggere un Severino o uno Sloterdijk – che saran accademici anche loro, per carità, – ma, quanto meno, non hanno paura di usarla quella parola lì, verità, e addirittura di battersi per una riappropriazione critica della stessa.
L’esempio di Cortellessa vs. Scarpa è proprio il cuore della tenzone che avevo riassunto nel concetto sull’ironia forzata che ha “poi lentamente inquinato il mondo letterario tramite l’accademia”. Se lo scrittore ascolta troppo il critico-accademico (e Cortellessa lo è, un critico, e un docente), e ne diventa succube, i risultati mi paiono di questo genere qui: o ironia, o morte. (O transustanziazione, o morte; o soviet ed elettrificazione, o morte, etc.). Scarpa avrebbe dovuto leggergli quel suo bellissimo pezzo sullo scolo, che recitò ultimamente anche al festival di Salerno, per tutta riposta.
Perché dico certe scempiaggini? L’aneddoto di Giulio mi ha ricordato questo aneddoto: “E per ironia della sorte proprio Theodor W. Adorno – uno tra i massimi teorici dell’estetica moderna – è stato egli stesso vittima dell’impulso neokinico. Un giorno, un gruppo di dimostranti si fece incontro al filosofo, entrato in aula per tenere la sua lezione, e gli sbarrò l’accesso al podio degli oratori. Niente di straordinario, dato che correva l’anno 1969. Tuttavia, un dettaglio era destinato, nel nostro caso, a richiamare l’attenzione generale. Tra i contestatori si erano, infatti, distinte le studentesse, alcune delle quali, per protesta, si denudarono il petto di fronte al pensatore. Tale disvelamento non va sussunto a un argomentare erotico-sfrontato per cutem femminam, peraltro usuale. Quelle tette simboleggiavano, quasi in senso antico, corpi usati kinicamente ignudi, corpi a mo’ di argomenti, corpi come armi. Averle mostrate – indipendentemente dai motivi privati delle dimostranti – assunse una valenza antiteoretica. (…) Adorno si ritrovò in una posizione tragica e, nondiemno, comprensibile: quella del Socrate idealista; le donne in quella del selvatico Diogene. Contro la teoria, la più ricca di discernimento, ecco dunque opporsi l’ostinato e intelligente uso dei corpi”.
E sono andato con la memoria al primo anno in cui vagavo per il palazzo di Lettere della Sapienza e cercavo in tutti i modi di evitare l’esame di letteratura italiana con (gli assistenti di) Asor Rosa (autore di analisi straordinarie; ma anche di enormi sviste “clericali”), per me, allucinanti); alla fine finii con un ferroniano a parlare di Machiavelli; ma poi decisi di fare la tesi con ****** ******, che, a googlarne il nome assieme a quello di Asor Rosa, dà risultati abbastanza espliciti; e ho fatto una tesi su un pluralista come Morselli, – e su quel libro post-ideologico e pieno di difetti che è Dissipatio H.G. – nonostante ella, la suddetta, fosse una celebre esperta di letteratura (mi si perdoni il riduzionismo) femminista. Era il mio modo di mostrare le tette all’accedemia, nel mio minuscolo.
E quindi, per me, per come la vedo via, – ed evviva Pomilio per avero fatto in nome delle su idee, che sono spesso diverse dalle mie, ma che non mi impediscono di considerare IQE un libro per me migliore del molto più chiacchierato “Horcynus Orca” – e in onore alla pluralità delle verità, o persino nelle vostre verità monistiche, – si dovrebbe sbattere (chessò) la “transustanziazione” in faccia agli accademici, oppure l’assurdità di espressioni come “svolta ultraliberista dell’intero sistema occidentale”, che non hanno alcuna base scientifica, – ciò presupporrebbe che Murray Rothbard sia stato l’artefice magico delle politiche socio-economiche della Scandinavia degli ultimi 30 anni, – invece di farsi “prendere per il culo” (cit.), e starsene zitti in silenzio, magari in attesa di un “cambio di poetica”. Sarà anche che sono figlio di un accademico, professore universitario a Salerno, e la mia psicologia individuale entra in gioco, chissà. Tutti abbiamo dei bias, in fin dei conti.
PS Io Tiziano Scarpa l’ho incontrato mezza volta, e ascoltato un’altra mezza volta, e non ho con lui rapporti personali; ma un po’ gli voglio bene. Scrivere “Stabat Mater”, e non “vergognarsi”, allo stesso tempo, di pubblicare “Come ho preso lo scolo”, lo trovo un bellissimo atto di pluralismo e di verità. (Cosa simile la fa anche Giulio, a cui voglio molto bene, anche se in modo mi pare molto diverso da Scarpa; il Mozzi del “Male naturale”, ma anche il Mozzi di vibrisse, è un pluralista).