di Mirko Volpi
[Continua il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio].
Il manzonismo di Mario Pomilio è cosa arcinota, discussa e studiata ormai da decenni. Del suo legame con il Gran Lombardo, della presenza di questo nella sua produzione si è scritto fin dalle prime recensioni ai romanzi uscite su riviste e quotidiani così come, post mortem, nei convegni e nei contributi scientifico-accademici. Lo hanno visto tutti i critici e i lettori più provveduti: Manzoni ha abitato fin da subito le pagine pomiliane (ivi comprese, e non sono di poco conto per qualità e numero, anche quelle saggistiche e giornalistiche), dall’Uccello nella cupola (nonostante i da lui mal tollerati continui riferimenti a Bernanos) al palesamento estremo di un rapporto sempre amorosamente nutrito, ossia l’ultimo romanzo, Il Natale del 1833.Curando di recente la riedizione del Nuovo corso meritoriamente pubblicata da Hacca nel 2014 (e impreziosita da un’introduzione di Alessandro Zaccuri), ho scoperto – con sorpresa mista a una non immediatamente spiegabile interna soddisfazione – che c’era moltissimo Manzoni anche nel terzo romanzo pomiliano (era uscito per Bompiani nel 1959), tra i meno noti e noto per lo più per l’orwelliana (anche qui, in realtà, più suggestione che fonte reale, come ho cercato di mostrare nella postfazione) ideazione di uno Stato totalitario, plagiatore di menti e mistificatore della verità, espressamente modellato sull’Unione Sovietica che aveva da poco invaso l’Ungheria. Questo, dunque, l’inequivocabile spunto storico: il 1956, la repressione comunista attuata nello stato satellite, e quindi l’eterno anelito alla libertà dei popoli oppressi. Ma a un livello diverso – non dirò più alto o più profondo perché ritengo procedano di conserva, e il secondo deve al primo, e alla sua crudele contingenza storica, l’impulso all’obbligata e sofferta riflessione, all’assolutizzazione richiesta dalla letteratura e dalla storia delle idee – sta la costante lettura pomiliana di Manzoni.
Tale disvelamento non si è certo compiuto in virtù di un mio speciale acume critico (che non ho), ma si è invece potuto precisare con contorni meno fluidi e impressionistici, e scongiurando il rischio che fossero tracciati da intuizioni esegetiche labili e presuntuose, grazie a una più modesta operazione filologica di scavo nei materiali autografi pomiliani presenti in quella miniera di preziosità che è il Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. Modesta ma indispensabile, come ogni tappa di avvicinamento alla verità.
Il Manzoni del Nuovo corso era in realtà già stato più o meno correttamente individuato, in particolare (o soltanto) nella premessa dell’anonimo cronista che apre il libro, laddove si legge:
Chi scrive si propone soltanto di riferire le loro vicende. Non certo di giudicare, e nemmeno di capire, tanto più che per capire dovrebbe avere ben chiari i fini della Storia, mentre in questo caso, per quanto li cerchi, s’imbatte soltanto nel cuore di alcuni uomini: e si sa che i sentimenti degli uomini non hanno nulla a che fare coi fini della Storia.
E ancor più nel paragrafo che segue:
È perciò ch’egli preferisce limitarsi a questa semplice avvertenza: che nella sua cronaca il posto lasciato alla verità è grande almeno quanto il ruolo assunto dall’immaginazione; e che semmai l’immaginazione è intervenuta solo là dov’egli s’è imbattuto nell’irrazionale che è nell’uomo e s’è accorto, con sua sorpresa, che ignorandolo si precludeva ogni via per intuire e far intuire il razionale che è nella Storia.
Se però esaminiamo il dattiloscritto, con postille autografe, recante una versione precedente (e conservato ovviamente nel Fondo Pomilio del Centro Manoscritti pavese):
Chiameremo quindi la presente piuttosto una cronaca: fedele nella misura in cui s’è servita dell’immaginazione [soprascritto: della verità], immaginosa nella misura in cui, cercando la verità, s’è imbattuta con sua sorpresa nell’irrazionale che è nell’uomo, e s’è resa conto che ignorandolo si precludeva anche ogni via per intuire e far intuire il razionale che è nella storia;
notiamo quell’incertezza tra immaginazione e verità che svela – mi piace credere – la riflessione in atto sulla manzoniana mistione tra realtà e finzione.
Fin qui, più o meno, il noto. Ma se dico Manzoni nel Nuovo corso, più puntualmente dovrei parlare del Manzoni della Storia della Colonna infame. Tra le carte pavesi dello scrittore, infatti, si trovano appunti e abbozzi e stesure scartate che illuminano il reale peso che hanno avuto nella genesi del romanzo la lettura e la meditazione della fondamentale appendice storica (che, come sappiamo, appendice asportabile non è, ma parte integrante della storia milanese del XVII secolo). O ancora, interi brani trascritti e pensati come esergo (poi caduti). E si tratta di frammenti chiarissimi, tratti per lo più dal finale, sull’occultamento della verità, sulla storia che non si cura degli umili, sulla perpetuazione degli errori. E proprio come una “storia dell’errore” si configura il romanzo pomiliano (la locuzione occorre svariate volte negli scartafacci), forse eco di “quell’orrenda vittoria dell’errore contro la verità”, moralissimo sunto che si trova, questa volta, nell’Introduzione alla Storia della Colonna infame.
A corroborare tale ormai palese inclinazione, rilevo poi che nel luglio del 1959, proprio l’anno di uscita del Nuovo corso, Pomilio scrive un articolo per Il Popolo sul Manzoni “minore”, ossia sulla Colonna infame e il ruolo del male e dell’irrazionale nella storia. Questo è senz’altro il cuore del problema, il fulcro dell’indagine pomiliana che si alimenta sulle pagine di Manzoni, e che non riguarda solo il Nuovo corso, ma che un’analisi su di esso consente di dilatare, di estendere, di conoscere più in profondità lungo la sua intera produzione (non esclusa quella critico-saggistica). Potrebbero sembrare, ma non agli occhi di chi come me per lavoro (vocazione?) ci consacra i giorni, piccole conquiste trascurabili, ma che hanno invece molto a che fare con la moralità della filologia come primo strumento di ricerca del vero.
Tanto più che l’attenzione filologica al testo, nei risultati che ho detto, è stata poi proprio il decisivo traino che mi ha condotto a riconsiderare sotto una più consapevole luce il significato dell’ultimo romanzo, Il Natale del 1833.
Vediamo come. Nel Nuovo corso si ha una notevole disseminazione di motivi manzoniani, tra il romanzo e l’appendice storica, che trovano il loro culmine, o meglio, il loro snodo cruciale, il crocevia di agganci, presupposti e conseguenze, nel tema della peste (con l’implemento di certificate, e nuovamente provate dalle carte autografe, suggestioni da Camus, come già mostrato nella citata postfazione): punto cardinale del romanzo e motivo scatenante del pamphlet, essa incarna e sostanzia (non soltanto simboleggia) la presenza del male nella storia e si fa tragico volano delle “passioni pervertitrici della volontà”.
Tema senz’altro morale, questo, ma che si attesta di necessità accanto a quello artistico, poetico, cioè, come detto, della possibilità della rappresentazione, del rapporto tra verità e immaginazione (o meglio, manzonianamente, invenzione). Nel romanzo di Pomilio vediamo dunque in atto, e sottotraccia ma in fondo ben visibile, la volontà (frutto forse di letture particolarmente attente in quei mesi, sul finire degli anni Cinquanta) di far coesistere i due fondamentali filoni manzoniani che verranno invece squadernati e attraversati senza pudori o reticenze nell’ultima opera pomiliana, dove è addirittura lo stesso Manzoni l’oggetto della finzione, di quel misto di storia e invenzione che don Lisander aveva poi finito per riprovare.
Parafrasando in termini manzoniani le plausibili sintesi dei due romanzi pomiliani, potremmo dire che nel Nuovo corso protagonista è l’assurdo della Storia che si accanisce sulla “gente meccanica”; mentre nel Natale si afferma il tema del mistero del male e del dolore nel mondo, nonostante Dio.
Si può allora immaginare una parabola che leghi questi due testi collocati agli estremi nella cronologia dei romanzi pomiliani (e che, ripeto, sono strettamente legati da una comunanza manzoniana non scontata). Al netto della questione sulla possibilità o meno, o sull’opportunità, di fare un’opera che unisca verità e immaginazione, a un capo della parabola abbiamo una riflessione sui destini generali dell’umanità, un’umanità sì inserita in un contesto favolistico e distopico, ma quanto mai realistica (e storicamente individuabile in un preciso e pressante contesto politico) nella sua frustrata aspirazione alla libertà e vittima di un perverso occultamento della verità; all’altro capo troviamo invece il restringimento di questa dimensione generale in un orizzonte personale, nell’esperienza del dolore – di una sofferenza che sembra incrinare addirittura la presenza e l’esistenza di Dio – di un singolo uomo. Quell’uomo è Manzoni: e il cerchio si chiude senza sforzo, senza la necessità di affidarsi ad altro che non siano le semplici parole di Pomilio stesso: “Così come ho iniziato nel nome di Manzoni così desidero finire nel nome di Manzoni”.
Che dunque la vita, non solo artistica, di Mario Pomilio termini nel segno di Alessandro Manzoni è un sigillo che non sorprende, e per il nostro Novecento letterario la grazia di un autore che ha saputo rimettere al centro, sotto i non velati auspici del più grande degli scrittori italiani, il ruolo della Provvidenza, del suo misterioso operare.
Mirko Volpi, ricercatore di Linguistica italiana presso l’Università di Pavia, si occupa prevalentemente di Dante (sue lecturae sono apparse nella Rivista di Studi Danteschi) e dell’antica esegesi dantesca. Per l’Edizione Nazionale dei Commenti Danteschi ha curato l’edizione critica del trecentesco Commento alla Commedia di Iacomo della Lana (Salerno Editrice, 2009), seguita dalla monografia linguistica, uscita sempre per la Salerno, Per manifestare polida parladura. La lingua del Commento lanèo alla Commedia nel ms. Riccardiano-Braidense (2010). I suoi studi vertono inoltre sulla filologia e la storia della lingua tra Otto e Novecento (Manzoni, Giovanni Maria Bussedi – di cui ha pubblicato nel 2013 per la Cisalpino l’edizione del Diario 1864-1869 –, Salgari) e, in particolare, sulla lingua della politica, oggetto del suo ultimo volume: “Sua maestà è una pornografia!”. Italiano popolare, giornalismo e lingua della politica tra la Grande Guerra e il referendum del 1946 (Libreriauniversitaria.it, 2014). Di Pomilio, cui ha dedicato un saggio (apparso in Autografo, 48, 2012; su Il testimone), ha curato la riedizione del Nuovo corso (Hacca, Matelica, 2014). Ha da poco pubblicato Oceano Padano (Contromano Laterza, 2015).
Tag: Albert Camus, Alessandro Manzoni, Georges Bernanos, Mario Pomilio, Mirko Volpi
26 ottobre 2015 alle 18:31
uno dei temi trasversali a tutti i contributi qui presenti sarà quello della “verisimiglianza” , che ovviamente è un tema prettamente manzoniano e “strettamente” romanzesco.
26 ottobre 2015 alle 23:24
A conclusione di questa, interessantissima, prima giornata pomiliana: ringrazio gli addetti ai lavori, anzitutto.
Puntello, poi, la summa degli articoli con una suggestione: nel 1978 Mondadori pubblica ‘La gloria’ di Giuseppe Berto, una revisione fedele ma audace dei vangeli raccontati dalla prospettiva stereotipata del traditore in una chiave di lettura alternativa. Una sorta di apocrifo ultramondano retrospettivo. Sarebbe interessante valutare le due opere in stadera.