di giuliomozzi
[Considerata la pericolosità della rubrica, ho ritenuto opportuno fare io la prima puntata. In magazzino ho già gli articoli di Livio Romano e di Enrico Ernst. Il giorno fissato è il giovedì, ma temo che sarà difficile tenere il ritmo settimanale. Chi volesse proporsi mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo di questa rubrica. gm]
Il 30 aprile del 1993 pubblicai il mio primo libro di racconti. Non era il mio primo libro: negli anni Ottanta, quando lavoravo nell’ufficio stampa della Confartigianato veneta, mi era capitato di scrivere – oltre a innumerevoli comunicati stampa, discorsi, articoli – anche opuscoli e veri propri libri; di altri opuscoli e libri, non scritti da me, avevo curata l’edizione e la revisione. Mi fa piacere ricordare due persone che in quegli anni mi insegnarono molte cose: Guido Lorenzon e Maurizio Pescarolo.Nel giugno del 1993 mi telefonò Roberto De Gaspari, che non conoscevo. Mi raccontò di aver fondato a Padova un nuovo circolo Arci, “Lanterna magica”, e mi chiese se ero disponibile a tenerci dei corsi di “scrittura creativa”.
Non lo so, risposi. Devo pensarci. Non so che cosa è che s’intende, con le parole “scrittura creativa”.
Restammo d’accordo di sentirci a settembre.
Durante l’estate (un’estate bizzarra: lavoravo allora nella Libreria internazionale Cortina, come fattorino-magazziniere; stavo facendo i miei primi passi come “giovane scrittore” – benché non fossi più giovane da un pezzo, avendo trentatré anni e dodici anni di lavoro alle spalle –; cominciavo a vivere due vite: una da persona qualsiasi, l’altra da persona non del tutto qualsiasi) cercai di capire che diavolo fosse la “scrittura creativa”. Non c’era, allora, tutta la pubblicistica che c’è adesso. Di che cosa fosse la creative writing che si insegnava negli Stati Uniti d’America, non si aveva un’idea chiarissima. Non esisteva la Scuola Holden (nacque subito dopo, nel 1994). Esistevano i libri di Gianni Rodari; dal 1982 Giampaolo Dossena teneva in Tuttolibri una rubrica di scritture giocose; non c’era ancora (mi pare) la mania degli Esercizi di stile di Raymond Queneau; nel 1986 Ersilia Zamponi pubblicò I draghi locopei: e l’eco formidabile che questo libretto ebbe allora la dice lunga sul vuoto che lo circondava. Esistevano pochi manuali di sceneggiatura cinematografica, molta manualistica di basso livello sullo scrivere lettere, e così via. In compenso, grazie a mia sorella avevo letto o leggiucchiato Auerbach, Genette, Barthes, e perfino un po’ di de Saussure e di Benveniste.
Arrivai a settembre senza avere un’idea precisa sul da farsi. Roberto mi chiamò. Gli dissi di sì.
Il primo corso fu alla sera, il lunedì. Due ore, dieci appuntamenti. Si trovarono, con mio grande stupore, gli iscritti. “Descrivete la strada che percorrete per andare da casa al lavoro o allo studio”, dissi loro la prima sera. Diligenti, gli iscritti scrissero. Lessi e commentai i loro scritti. Non ho ricordi precisissimi su quello che facevo: la dimenticanza è un mio talento spontaneo. Mi ricordo che su quelle poche righe, su quelle smilze paginette, trovavo un sacco di cose da dire. Non so bene da dove mi venivano, quelle cose da dire: fattostà che quegli esercizi mi sembravano, di solito, sorprendentemente insufficienti. Mancavano di precisione: le cose erano spesso nominate con approssimazione, raramente descritte. Mancavano di ordine, o si organizzavano con ordini elementari. Difettavano nella sintassi. Soffrivano di un’indistinzione permanente tra osservatore e cose osservate.
Facevo quello che potevo. Non avevo un grande linguaggio tecnico (ancora oggi non ce l’ho). Agivo d’istinto. Presupponevo nelle persone che avevo davanti un intenso desiderio di comunicare, e mi regolavo di conseguenza: cercavo di aiutarli a incrementare il tasso di comunicazione nei loro testi. Cercavo di far passare l’idea che “comunicare” significa “mettere in comune”; che l’opera letteraria è una cosa che viene creata per avere un luogo comune, per stare insieme; che ogni sforzo per “migliorare” un testo è uno sforzo per raggiungere, quasi toccare l’altra persona – oppure è tempo perso.
Mi scontravo con una quantità di pregiudizi: i soliti. Il pregiudizio del bello scrivere, il pregiudizio dei paroloni, il pregiudizio dell’espressione, e così via. Mi stupivo della solidità dei pregiudizi. A volte mi stupivo che esistessero. Ero molto ingenuo. Che una persona potesse “voler scrivere” senza avere un’idea almeno vaga di ciò che voleva mettere nello scritto, di ciò che voleva mettere in comune con gli altri, era cosa che stentavo a capire. Che il desiderio, la volontà di “scrivere” non derivassero dall’urgenza di dire determinate cose a determinati – anche se sconosciuti – destinatari: questo mi risultava, come mi risulta ancora oggi, incomprensibile.
Una volta, qualche anno dopo, a Napoli, nel laboratorio di Antonella Cilento, nella discussione che seguì una mia lezione, una signora descrisse – non era una novità – la propria pratica dello scrivere come una pratica “liberatoria”. A un certo punto disse: “Per me scrivere è come vomitare”. Le risposi che non avevo nessuna voglia di avere che fare con il suo vomito: poteva tenerselo.
Tante volte mi sono sentito rappresentare lo scrivere come una sorta di attività terapeutica, autoterapeutica. Altrettante volte, devo dire, la mia sensazione è stata che la scrittura servisse a cristallizzare, a incistare, a rendere inamovibile il male. La simulazione di un gesto espressivo.
I corsi alla “Lanterna magica” ebbero un qualche successo. Cominciai a farne uno il lunedì e uno il giovedì. Incontrai persone molto belle. Ci furono dei gruppi fallimentari. Me ne ricordo uno in cui c’erano, tra gli altri: una coppia, marito e moglie, psichiatri; una signora psicoterapeuta; e un tale che, ma lo capii solo dopo, era cognato della o dello psichiatra, ed era stato trascinato al corso per recitare la parte del cognato scemo. In quel corso imparai quanto male può fare l’attività interpretante se viene agita fuori luogo e per scopi impropri.
Non che io non abbia fatto, di tanto, in tanto, delle interpretazioni. È inevitabile (anche nella vita di tutti i giorni, mica solo nei corsi di scrittura). Ma ci vuole molta, molta cautela. Quando lo faccio, mi tremano le vene e i polsi. E cerco di fare in modo che la cosa non accada nel gruppo. Può succedere che io prenda a parte una persona e dica: “Secondo me, la vera cosa che tu stai cercando di raccontare non è questa, ma quest’altra: questa che stai cercando di non raccontare”. Qualche volta ho sbagliato.
Mi inventai, nei corsi dei primi anni, degli esercizi. Alcuni produttivi, altri no. Ho il ricordo di una sera nella quale dissi: “Scrivete tutto ciò che vi viene in mente a proposito dei vostri piedi”; e non smettevano mai di scrivere. Imparare a scrivere tutto era secondo me, e per me, in quegli anni, una cosa importante. Imparare a non considerare mai esaurita l’investigazione del proprio immaginario. Imparare a tornare sempre sulle stesse cose.
Offrivo agli iscritti la mia esperienza. Non avevo mai avuta la “vocazione” dello scrittore – come ho già raccontato – e questo, credo, mi facilitava. A un certo punto della mia vita avevo scoperto che raccontare storie inventate poteva essere un potente modo di comunicazione: di messa in comune della vita, dell’esperienza, dei sentimenti, di un’idea del mondo.
Non avevo idea di come si fa a gestire un gruppo. Sbagliavo spesso. Avevo uno scarsissimo controllo su di me: mi prendevano in giro, gli iscritti, perché mentre parlavo giravo qua e là per la stanza, salivo sulla sedia, gesticolavo, mi rotolavo per terra, mi arrampicavo su per i muri. (Oggi questa cosa è un po’, ma solo un po’, sotto controllo: Simonetta, della terza Bottega di narrazione, ha provato a fare qualche fotografia in aula – lei è brava – e mi ha detto: con te è impossibile, non stai mai fermo).
Il primo cambiamento venne da quattro incontri: con Monica Benucci, con Fabio Fracas, con Stefano Brugnolo, con il Laboratorio di scrittura creativa del circolo “Walter Tobagi” di Mestre.
Monica, laureata in lingue, portava con sé una buona competenza narratologica e una certa esperienza nella gestione dei gruppi. Fabio, personalità poliedrica, era competente in ambiti narrativi a me allora pressoché sconosciuti (dai giochi di ruolo all’horror). Entrambi parteciparono a un mio corso, e li cooptai tra gli insegnanti. Stefano, che conoscevo già vagamente (era stato compagno di classe al liceo di mio fratello Aldo, maggiore di me di tre anni), mi fermò un giorno in Feltrinelli e mi parlò di uno “scartafaccio” al quale stava lavorando da un po’: l’embrione di quello che poi diventerà il Ricettario di scrittura creativa. Cooptai anche Stefano, che ha due qualità delle quali io difetto sommamente: un sapere organico e un amore folle per la tassonomia.
Nel Laboratorio di scrittura creativa del circolo “Walter Tobagi” (nato più o meno contemporaneamente all’attività del circolo “Lanterna magica”; o forse un anno prima) conobbi Annalisa Bruni e Tiziana Agostini, che mi invitarono a tenere qualche lezione. Cominciai così a misurarmi con esperienze molto diverse dalla mia.
Qui siamo, più o meno, all’altezza del 1996/1997. Con Annalisa e Tiziana, e poi con altri, concepii l’idea di formare una sorta di “consorzio” di persone e circoli interessati alla cosiddetta scrittura creativa. Perché, in quegli anni, persone e circoli interessanti alla cosiddetta scrittura creativa spuntavano come i funghi. Trovammo il nome del “consorzio”: Scritture Creative Riunite. Poi alla fin fine non facemmo tantissime cose insieme, e il nome rimase quasi un puro nome: però ci procurammo qualche occasione di confronto e scambio.
Non furono questi i soli incontri. Per esempio, al gruppetto di Padova si aggiunse presto anche Angelo Ferrarini: una lunga esperienza di lavoro soprattutto con bambini e con maestre e maestri. Ma lo stile di lavoro di Angelo, per quanto mi incuriosisse, mi restava estraneo. (Oggi lo capisco un po’ meglio, ma mi è sempre estraneo).
Il 1997-2000 fu il mio periodo horribilis. Nel 1996 erano successe due cose: ero finito in cinquina allo Strega con il mio secondo libro; avevo lasciato il lavoro in libreria nella speranza di riuscire a campare di conferenze, corsi, libri, articoli e così via. Mi ritrovai in breve a correre come un matto da una parte d’Italia, a insegnare nei contesti più improbabili (ma anche in contesti molto belli: Antonella Cilento mi invitò al suo laboratorio, a Napoli, e fu molto bello e istruttivo), a fare formazione a insegnanti che non ne volevano sapere (ci fu qualche anno di “aggiornamenti obbligatori”) o che ne volevano sapere tantissimo (più di quanto ne sapessi io); finii addirittura a fare un lavoro a Sarajevo, con l’ArciNova, e probabilmente mai contesto fu più confuso.
Poi cambiò qualcosa. Nel 1997 pubblicai Parole private dette in pubblico, ma prima di pubblicarlo lo scrissi: ovvero, prima di pubblicarlo riflettei molto su quello che stavo facendo. Nel 1998 pubblicai Il male naturale, e la bizzarra sorte editoriale di quel libro fu istruttiva. Sempre nel 1998 cominciai a fare un po’ di lavoro editoriale, con Theoria: dove c’erano pochi soldi da prendere (anzi, ce ne misi dentro) ma parecchie cose da imparare. Theoria pubblicò la prima edizione del Ricettario; nel 2000, dopo lo sprofondamento di Theoria, me ne ripresi i diritti (come compensazione per il lavoro fatto e i soldi messi dentro) e ne facemmo una nuova edizione presso Zanichelli, che fu molto più visibile (a tutt’oggi, credo ne siano state vendute quasi diciottomila copie: dico circa, perché i rendiconti Zanichelli sono precisissimi ma quasi indecifrabili).
E, nel 2000, in agosto, mi inventai questa cosa qui che avete davanti. Mi inventai vibrisse. All’inizio era una cosa spedita via posta elettronica a chiunque la richiedesse. L’idea era questa: ormai, tra un corso e un laboratorio, un gruppo e una conferenza, mi trovavo a incontrare una quantità di persone. Le vedevo per un po’, e poi più. Non mi piaceva. Volevo tenere un contatto, un filo. E così mi inventai questo “bollettino”, in forma di lettera circolare. Al quale contribuirono molte persone con articoli e recensioni; nel quale pubblicavo annunci di corsi e laboratori (non solo i miei) che si svolgevano in giro per l’Italia. Nel 2004 vibrisse diventò un blog.
Devo dire che se ho avuto lavoro dal 2000 a oggi, in gran parte dipende da vibrisse. Che ha fatto circolare il mio nome, che mi ha permesso di raccontare quello che combinavo, che mi ha messo in contatto con una quantità di altre persone, eccetera.
Un passo indietro. Nel mio primo libro, lì dove normalmente si mette la biografia dell’autore, avevo fatto scrivere: “Giulio Mozzi è nato nel 1960. Abita a Padova in via Michele Sanmicheli 5 bis” (adesso abito sempre a Padova, ma in via Giuseppe Comino 16 b). Ricevetti molte lettere. Sospetto che più o meno metà delle persone che lessero il libro mi abbiano poi scritto. Lettere spesso amabili, talvolta interessantissime, talvolta deliranti. Cominciai a ricevere anche dei dattiloscritti: di racconti, raccolte di racconti, romanzi. Tra questi, anche qualcosa di interessante e bello. Feci delle proposte alle case editrici con le quali avevo che fare: Theoria, Einaudi. Theoria alla svelta, Einaudi con somma calma, accettarono delle proposte.
Un altro passo indietro (portate pazienza, ma mettere insieme tutto in un fascio coerente di avvenimenti, come nei romanzi, non è mica possibile; mi tocca saltabeccare): nel 1995 Massimo Canalini, allora a capo di Transeuropa (ossia a capo di sé stesso), mi telefonò e mi propose di fare, insieme a Silvia Ballestra, un’antologia di giovani inediti. Qualcosa di ispirato – con il dovuto rispetto – alla serie dei volumi Under 25 curata da Pier Vittorio Tondelli. Accettai. Il libro, intitolato Coda uscì nel 1997.
Metto insieme tutte queste cose perché – e spero si veda – convergono. Gradualmente, più cogliendo occasioni che prendendo iniziative, mi trovai a passare le mie giornate a occuparmi di scritture altrui. E, tutto sommato, tra il lavoro di editing (che io preferirei chiamare di edizione, ma non ci sta nessuno) e il lavoro nei corsi, c’erano più somiglianze che differenze.
Comunque; stiamo al 2000-2002. Quelli sono gli anni nei quali il mio lavoro d’insegnamento si stabilizza. Dài e dài, mi sono fatto una scorta di strumenti didattici. Mi sono fatto una scorta di unità didattiche. Mi sono anche chiarito sugli scopi di tutta la faccenda: più esattamente, mi sono fatto idee più precise su ciò che mi viene richiesto; e così riesco con più sicurezza ad accettare e fare proposte, riesco a evitare i contesti che non mi convincono, e così via. E comincio a lavorare continuativamente nell’editoria, con il neonato editore Sironi.
Quasi nessuna (mi riferisco a quegli anni), tra le persone che si iscrivono ai miei corsi, ha come scopo quello di scrivere un’opera letteraria finita e rifinita. Le poche persone che dichiarano cose del tipo “Mi sono iscritto a questo corso perché voglio diventare uno scrittore” sono, abbastanza palesemente, persone con problemi. Quasi tutte le persone che si iscrivono ai miei corsi hanno una generica “curiosità” (uso le loro parole) verso la “scrittura” (ma quasi mai, noto, mi parlano di “narrazione”); quasi tutte scribacchiano; alcune, non molte, hanno dei progetti (una raccolta di favole per i nipoti, la storia del paese com’era una volta: cose così, molto memoriali). Quasi tutte leggono molto, anche se spesso leggono un po’ casualmente o secondo le mode del momento. Quasi tutte hanno un pessimo ricordo della lettura scolastica dei Promessi sposi. Quasi tutte immaginano la scrittura innanzitutto come espressione e pochissimo come messa in comune. Quasi tutte parlano dei “trucchi del mestiere”, e io faccio fatica a nascondere la ripugnanza per questa espressione. Quasi tutte si aspettano di imparare a leggere con più profondità. Non poche, richieste delle loro aspettative rispetto al corso, sostanzialmente non rispondono.
E io mi domandavo: “Ma queste richieste qua, sono proprio ciò a cui desidero rispondere? Per carità: finché ho da camparci, posso scusarmi. Ma non è questo che voglio”.
In quegli anni definii un po’ di cose:
– decisi che per insegnare qualcosa su ciò che concerne la messa in opera di una narrazione, è necessario che gli allievi non abbiano il problema di inventare una storia. Devono avercela già. Fu così che cominciai a far lavorare i gruppi su storie già date: fornivo documentazione su casi di cronaca (molti laboratori li feci sul “caso Carmichael”), oppure fornivo una fabula da me inventata, talvolta addirittura un puro e semplice “dispositivo drammatico” (“Mentre puliva il coltello si rese conto che l’amava ancora”, o simili).
– al contrario, per ragionare sull’invenzione, bisogna lavorare su materiali forniti dagli allievi: racconti, abbozzi di racconti, abbozzi di romanzi (e qui mi sono scontrato, per anni, con chi si presenta con un racconto scritto sette anni prima, del quale non ricorda più nulla, e del quale nemmeno gli importa più che tanto).
– gli esercizi non servono a collaudare l’apprendimento di nozioni o regole insegnate (anche perché non si insegnano né nozioni né regole, ma “casi di studio” e “opportunità di scelta”); servono invece a far scontrare gli allievi con le difficoltà, in modo da renderle ben visibili e da farne risaltare l’importanza.
– in aula non si scrive; oppure, in aula si scrive e basta. Nessuno è in grado di scrivere un buon testo in mezz’ora, in un’aula magari non tanto comoda, circondato dai compagni di corso. Quindi la scrittura in aula ha senso solo se l’intero corso è centrato sul fare esperienza dello scrivere (come ad esempio il mio laboratorio standard sull’autobiografia – inventato insieme a Morena Tartari –, durante il quale mi limito in sostanza a dare una consegna di scrittura ogni dieci minuti, e a proclamare ogni due ore la pausa caffè).
– non si forniscono nozioni o regole, ma “casi di studio” e “opportunità di scelta”. Imparare che Henry James o Ippolito Nievo hanno fatto una certa cosa in un certo modo, serve in sé a poco; serve imparare a leggere le opere letterarie come “cose fatte da qualcuno che, per farle, ha agito in un certo modo”. Non serve insegnare che una descrizione si fa così e cosà; serve mostrare molti modi nei quali si può descrivere, e far capire che ogni volta che si vuole descrivere bisogna fare una scelta consapevole tra i molti modi nei quali si può descrivere (idem per: narrare, comporre un dialogo ecc.).
– si possono fornire dei “principii”, a scopo suggestivo. Per esempio: “I personaggi non esistono: esistono le relazioni tra i personaggi”; “Non si produce tensione celando le informazioni al lettore, ma lasciandolo nell’incertezza circa il significato delle informazioni stesse”; “Organizzare una narrazione significa decidere in quale ordine vogliamo che il lettore riceva le informazioni”; “Quando un personaggio fa una scelta, è necessario che egli abbia una motivazione di sfondo, una motivazione specifica, e un’opportunità”; e così via.
– bisogna insegnare alcune domande: “Che cosa è necessario che accada prima, se vogliamo che dopo accada ciò che vogliamo che accada?”; “Quali condizioni sono necessarie perché possa accadere ciò che vogliamo che accada?”; “Posto che accada ciò che vogliamo che accada, quali saranno – in ordine di probabilità – le possibili conseguenze?”; e così via. Se vi sembrano domande banali, credetemi: imparare a porsele continuamente richiede un certo impegno.
Nel 2001, come ho detto, comincio a lavorare per l’editore Sironi. Facciamo una collana di narrativa italiana. Il lavoro di scelta, discussione con gli autori, edizione, eccetera eccetera, diventa un vero lavoro: con uno stipendio (da parasubordinato, ma uno stipendio). I primi libri escono nel 2002. La collaborazione, assai felice fino al 2005, durerà fino al 2008. Nel 2008 comincio a lavorare per Einaudi Stile libero: partita con molti entusiasmi, la faccenda si trascina poi stancamente (l’editore è grande; è lontano; è come tutti in difficoltà; sta subendo una mutazione; eccetera). Nel marzo del 2014 comincio a lavorare con Marsilio.
Tra il 2002 e il 2010 riduco l’attività di insegnamento (grazie anche allo stipendio). La riprendo con forza nel 2010, quando a Milano diamo vita alla Bottega di narrazione. Qui è tutto diverso: i partecipanti sono selezionati; sono persone che vogliono (più o meno fortemente) scrivere, finire e pubblicare un’opera, e che si sono candidate alla Bottega presentandone un progetto, un abbozzo, una prima stesura, una scaletta, o qualsiasi altra cosa; le ore in aula sono tantissime (quasi duecento); c’è in più tutto il lavoro faccia a faccia; l’ormai definitiva popolarizzazione di quelle che anni fa erano le “nuove tecnologie” fa sì che molto lavoro si faccia a distanza. Nella Bottega il lavoro di insegnamento e il lavoro di edizione tornano a sovrapporsi largamente. L’impresa è tutt’ora in corso; vedremo come andrà.
Ma gli anni dal 2002 a oggi sono stati anni di grande studio. Disordinato, com’è sempre per me; ma grande. Mi sono studiato per bene la retorica antica (Aristotele, Cicerone, Quintiliano). Ho letto dozzine e dozzine di manuali. Ho cominciato a collezionare opere didattiche sullo scrivere (dal Gravina al Puoti, dal Muratori al Panzini: per dire gli alti e i bassi). Attorno al 2005 mi sono immerso nella letteratura cosiddetta postmoderna; attorno al 2011 nella letteratura cosiddetta combinatoria. Attualmente, come mi succede ogni qualche anno (è una mia patologia ciclica) mi nutro di poeti barocchi e – peggio! – cinquecentisti.
Stefano Brugnolo mi è venuto un’altra volta in soccorso, presentandosi con un altro “scartafaccio”: quello che, dopo lungo lavoro, è stato appena pubblicato con il titolo L’officina della parola. Un manuale organico sullo scrivere in prosa, nel quale c’è quasi tutto: inventio, dispositio, elocutio. Se non l’avete mai fatto, sappiate che niente aiuta a mettere in ordine le idee quanto scrivere un manuale. (Se poi il manuale lo fate insieme a una persona che ha una cultura organica e un amore folle per la tassonomia, è il massimo).
Ho dei rimpianti. Molti laboratori, in tanti anni, sono andati bene o accettabilmente; alcuni, troppi per i miei gusti, sono andati male. Sono andati male perché c’erano degli obiettivi e non li abbiamo raggiunti; perché non ho saputo gestire il gruppo; perché le mie vicende familiari e personali (piuttosto impegnative negli ultimi quattro anni) hanno troppo spesso distratta la mia attenzione; perché le condizioni di lavoro non erano buone. Vorrei poter risarcire, ma non saprei bene da che parte cominciare.
Oggi come oggi, confesso, sono un po’ stanco di passare tutti i miei sabati e tutte le mie domeniche in aula. La quantità di allievi da seguire in contemporanea ha probabilmente raggiunto il limite massimo. L’età e gli acciacchi cominciano a farsi sentire seriamente. Devo ripensare il tutto, ristrutturare il tutto, decidere che cos’è che so fare veramente bene (se c’è qualcosa che so fare veramente bene) e cercar di fare solo quello.
Ho imparato che in un contesto come quello della Bottega di narrazione io sono coinvolto totalmente. Non sono solo un insegnante. Sono un esempio, sono un modello, sono oggetto delle proiezioni più disparate. L’importanza della performance, in ogni momento, è grandissima. Si tratta di essere all’altezza, anche moralmente, in ogni momento. Mica facile.
Sento la mancanza di alcune cose. Di un luogo nel quale confrontarmi con persone che fanno il mio stesso mestiere: un’associazione professionale, un convegno annuale, cose così. Purtroppo molti si sentono in concorrenza, molti sentono il bisogno di farsi continuamente pubblicità. Nel momento in cui un pubblico dibattito sulla didattica (mi è successo qualche mese fa) viene usato solo e soltanto per promuovere la propria ditta – il mio interesse cade.
Vorrei lavorare con gli insegnanti delle scuole medie superiori. Ho avuta l’occasione (grazie ad Amedeo Savoia) di lavorare per tre anni con l’Iprase, l’istituto della Provincia di Trento per la sperimentazione didattica: ho imparato molto (e spero anche di essermi reso utile). Devo dire che, negli ultimi dieci anni, ho provato a più riprese a proporre attività formative specificamente rivolte agli insegnanti: la risposta è stata quasi sempre zero. Evidentemente la proposta è concepita o proposta male: devo capire dove sbaglio.
Credo di essere ormai, tra gli insegnanti di scrittura e narrazione in attività, quello con alle spalle il maggior numero di ore d’aula e di ore faccia a faccia (se non mi batte Antonella Cilento; ma sospetto che no). Vorrei riuscire a tradurre tutta questa esperienza, non tutta positiva, in un testo più organico di questo. Vorrei riuscire a scrivere un Manuale per l’insegnante di scrittura e narrazione. Ma so che da solo non lo farò mai. Si accettano candidature.Vorrei che qualcuno facesse un serio lavoro di ricerca per descrivere e capire ciò che avviene nei corsi e nelle scuole di scrittura. Ci vorrebbe un bel dottorato di ricerca: con un dottorando bravo che passa tre anni a infiltrarsi di qua e di là. Magari, appena vinco al lotto, lo finanzio.
La foto del 1994 è di Elisabetta Canevarolo. La foto del 2014 è di ATM.
Tag: Amedeo Savoia, Annalisa Bruni, Antonella Cilento, Fabio Fracas, Massimo Canalini, Monica Benucci, Morena Tartari, Roberto De Gaspari, Stefano Brugnolo, Tiziana Agostini
4 dicembre 2014 alle 09:48
Grazie. Ricordo un fine settimana con te, a Perugia, e quello che ne seguì. Ricordo la tua competenza, la tua professionalità e la tua correttezza. TI seguo adesso co passione. Spero altri tanti giovedì di questo tipo.
4 dicembre 2014 alle 10:45
“ Domenica 19 maggio 1996 – Come dice Ricoeur, senza racconto il tempo non ha senso, praticamente non esiste (« Le temps devient temps humaine dans la mesure où il est articulé de manière narrative », Temps et récit, 1983). Ma c’è anche il rischio opposto, che diventi troppo umano, spiacevolemente antropomorfo. Come certi animali domestici stravolti, assurdamente coinvolti. Come la cronaca di un giornale. Come un film di Walt Disney. E poi, cher maître: chi racconta a chi? (Certe volte penso che mi piacerebbe un tempo vuoto, un tempo senza storie, una pausa, almeno, nella tormenta dell’affabulazione) “ [*] [**]
[*] La s-formazione dello scrittore / 140
[**] Comunque, Giulio è bravo. Bravo Giulio!
4 dicembre 2014 alle 10:45
Accetti una dottoranda già dottorata e anche datata?
4 dicembre 2014 alle 11:13
La seguo da quando insegnavo a Bergamo e lei ha partecipato al Festival di Montanari. Ho letto i suoi racconti. Ho acquistato il suo Ricettario e lo uso anche a scuola. Ho seguito le sue lezioni su Iprase, piattaforma scoperta durante il mio ‘anno di prova’. Ho appena acquistato L’officina della parola (ancora devo spulciarla). Purtroppo mi lascia molto perplessa la sua affermazione in merito al voler “lavorare con insegnanti di scuola superiore”. Con la mia associazione, qualche mese fa, le abbiamo proposto di farlo a Messina… ma forse le abbiamo formulato male la proposta perché, dopo una risposta lapidaria, non abbiamo avuto più sue notizie e onestamente ciò mi ha un po’ stupito e in qualche modo deluso… nonostante ciò continuo e continuerò a seguirla, in quanto per me motivo di arricchimento personale e professionale.
4 dicembre 2014 alle 11:17
Caro Giulio. Lo sai bene. Anch’io sento questo bisogno di contatti e contaminazioni e confronti; per me l’insegnamento è anche una “rete” tra i docenti. Ho apprezzato molto, di questo tuo intervento, l’ammissione dei “rimpianti” e di ciò che non ha funzionato… e anche della stanchezza… rendono bene a parer mio lo spessore umano di una esperienza, e quello penso sia fondamentale: non diventare dei travet, dei “funzionari” della formazione, farlo per soldi… quando cercavo un dialogo sulle tematiche della scrittura creativa ti ho incontrato: ed è stata una fortuna!
Volevo dire anche qualche cosa sul “vomito”. A volte si dice “vomito” ma si intende altro, non so (a me non è mai capitata un’ammissione di un allievo nei termini nei quali ne parli). A volte in aula ho sentito, sì, delle grida, di aiuto di rabbia di amore di disperazione di gioia (se non proprio dei “vomiti”), e tendenzialmente sono stati dei momenti di grande “comunicazione”, necessari per così dire. Anzi a volte, vedo che c’è un grido, o un pianto, “sotto”, e senza sollecitarlo, diciamo così: lo ascolto, cerco di accoglierlo… mi piace molto l’idea di Natalie Goldberg: attraversare le lacrime per portarsi al di là…
4 dicembre 2014 alle 11:36
Deborah: se è disponibile a girare l’Italia e a dedicarsi a tempo pieno alla cosa, sì. Però prima devo vincere al Lotto.
Francesca: vero; ho mancato. Ti ho scritto in privato.
Enrico: io non faccio psicoterapia. Non ho i titoli.
4 dicembre 2014 alle 11:58
Sì, Giulio, anch’io non faccio psicoterapia, e anche io non ho i titoli. Ma bene se “manipolo” scritti d’arte con le emozioni c’ho (il mio bel) da fare… e il minimo che posso fare è accoglierle, o se vuoi ascoltarle: perché esse “sono lì”… “curarle” poi, comprenderle nel profondo, appunto: per quello esistono altri professionisti… Anche se a volte vedo che esprimere emozioni fa bene, non solo alla persona ma anche alla sua “opera”…
4 dicembre 2014 alle 12:37
Giulio è dotato anche di una grande disponibilità. Per fare un esempio, è capace di incontrare una persona mai vista prima e parlarci due ore. È capace anche di invitare questa persona a casa, farle il caffè e regalarle due libri suoi.
4 dicembre 2014 alle 13:20
“qualcosa deve accadere in ogni frase” : sì, credo di sì, deve essere così, ma come può accadere qc in ogni frase? Credo solo con il linguaggio con l’uso del linguaggio, come scrivi quella frase, deve essere questo l’ avvenimento …
4 dicembre 2014 alle 15:46
Ho comunque l’idea che per molti l’espressione artistica sia una forma di psicoterapia spicciola. Per me, almeno, lo è. Io non ho, o non penso di avere, grandi traumi psichici, niente di drammatico quindi, ma suonare – la mia forma di espressione artistica è la musica, la musica che riesco a tirar fuori dal mio pianoforte – mi fa stare meglio, meglio con me stessa.
Per la maggior parte delle ferite da taglio non c’è bisogno dell’intervento di un medico che metta i punti, basta disinfettare e bendare. Sono pratiche igieniche semplici, che non richiedono una laurea in medicina, ma sono comunque importanti e la loro omissione può dar luogo a problemi ben più seri. Ma sono pratiche che vanno comunque imparate ed applicate, e non tutti lo sanno o lo fanno – uno studio di qualche anno fa [1] ha rivelato come il 45% di chi adopera lenti a contatto non si lavi le mani prima di maneggiarle.
Ora, quello che mi aspetto dal mio maestro è che mi insegni ad adoperare al meglio, consapevolmente, gli strumenti e le tecniche di cui io mi servo per esprimermi, non che mi faccia da psicoterapeuta. Però mi sembra anche normale che non si tiri indietro una volta che realizzi che la mia opera sia frutto anche del mio stato d’animo o che abbia per me un effetto terapeutico. Non gli sto chiedendo di suturare una ferita, però magari che mi dica di lavarmi le mani prima di mettere il cerotto, senza che egli svenga alla vista di una goccia di sangue.
(Mah, spero di non aver stirato troppo l’analogia…)
[1] S. Hickson-Curran, R. Chalmers, C. Riley “Patient attitudes and behaviour regarding hygiene and replacement of soft contact lenses and storage cases”. Contact Lens & Anterior Eye, vol. 34 (2011), pp. 207-215.
4 dicembre 2014 alle 16:04
Scorbutico e ammirevole Giulio Mozzi, bravo bravissimo. 😀
4 dicembre 2014 alle 16:05
Tra le cose che sai fare veramente bene, Giulio, io credo ci sia l’adattarti al testo e alle potenzialità dello scrivente. Credo tu sia un insegnante adattivo, esente da tutte le rigidità che uno si immagina possa avere l’insegnante di scrittura creativa. Questa qualità non risalta dagli articoli, dai post e decaloghi che scrivi, dalle interviste tue che ho letto. È possibile che pesi il pregiudizio “scolastico”, che cioè il luogo comune dell’insegnamento come una trasmissione di saperi uniformata e dall’alto faccia sì che s’interpreti quello che scrivi sulla materia in una chiave normativa che, ora so bene, non ti appartiene.
Be’, io almeno mi ero fatto un’idea diversa dei corsi di scrittura, prima di vederti in azione. E non avrei mai pensato di risultare comunicabile o di poter essere compreso con le mie modalità creative così anomale da un docente di scrittura con tutti i crismi.
4 dicembre 2014 alle 17:16
Perchè non hai scritto nulla del diario di Giulio Mozzi? Eppure precede vibrisse online e, se ben ricordo, era anche parecchio seguito.
4 dicembre 2014 alle 17:33
Daniele (dm), scrivi:
E io vorrei sapere perché mai uno si immagina che un insegnante di scrittura creativa abbia tante rigidità. Vorrei riuscire a capire perché tanta diffidenza circonda questa professione: al punto che la si immagina come l’esatto contrario di ciò che è.
C’è forse in giro una quantità esagerata di insegnanti ingenui o cialtroni? Di persone che spacciano quattro regolette in croce per creatività?
Uno dei problemi, secondo me, è che si fa spesso di tante erbe un fascio.
Pensieri Oziosi scrive:
Formulazione quasi ineccepibile (quasi: aggiungerei: “…e che mi insegni qualche strumento e tecnica che non conoscevo prima”; ma questo forse, P. O., lo sottintendevi) per un certo tipo di formazione: quello che punta alla trasmissione di ciò che è per sua natura insegnabile: la tecnica. Da questo punto di vista (lo dico per fare un esempio, non per fare pubblicità), il volumotto compilato da Stefano Brugnolo e da me, L’officina della parola, è esemplare. (Tra l’altro, secondo me, le tecniche spesso si apprendono meglio sui manuali che in aula).
Buona parte della formazione alla scrittura fa questo. E’ una parte importantissima. E’ la parte, diciamo di apprendimento.
Si possono fare però altre due cose.
– Si può fare l’addestramento. Con questa parola intendo qualcosa che si può fare solo in aula. Quando io prendo in mano un racconto scritto da un allievo; lo esamino a fondo; lo rivolto come un calzino; cerco di mostrare le eventuali insufficienze narrative; cerco di mostrare le eventuali insufficienze stilistiche; propongo sviluppi della storia (parziali o totali) che sono potenzialmente contenuti nella storia stessa, ma ai quali l’allievo evidentemente non ha pensato; propongo una strutturazione della narrazione (dispositio) più o meno differente; eccetera; quando faccio tutte queste cose, cercando mentre le faccio di esibire e illustrare i procedimenti mentali che mi permettono di farle; e quando invito il gruppo a fare esattamente le stesse cose, e cerco di guidarlo come posso; allora, secondo me, faccio dell’addestramento. Nel corso del quale conta sì la mia competenza, ma anche la mia capacità fisica di realizzare una performance esemplare.
(Forse, P. O., includevi anche questo nella tua definizione).
– Si può fare una pedagogia. Qui sono meno sicuro del termine; non ne ho trovato ancora uno che sia immediato. Non con tutti gli allievi, ma con parecchi, nasce una certa complicità; che di caso in caso ha una forma diversa; e si concretizza in grandi chiacchierate, in consigli di lettura, in scambi di libri, in iniezioni (su richiesta o no) di fiducia. Tutto questo va al di là della tecnica (che sta nel manuale) e dell’addestramento (che si fa in aula); e secondo me non è neanche qualcosa che sia dovuto agli allievi: se càpita, bene; se non càpita, si cerca di farlo capitare; ma non è detto che si produca l’affinità sufficiente.
Mi è capitato di trovarmi davanti, in aula o in altri contesti, persone capaci di creare opere letterarie molto più complesse e interessanti e belle di quelle che so fare io. Però magari queste persone erano insicure; avevano poche risorse; stavano nell’incertezza e nell’esitazione; avevano bisogno di un qualcuno che gli stesse a fianco; avevano bisogno di un amico più anziano: cose del genere.
Naturalmente, è difficile, anzi impossibile, essere sempre e continuativamente al meglio di sé stessi.
4 dicembre 2014 alle 17:48
Trame, di Peter Brooks, l’hai letto Giulio? Dopo un’estate trascorsa con Segre e Barthes è un balsamo.
4 dicembre 2014 alle 17:50
Ah, e scoperta recente, anche “Mitografia del personaggio” di Battaglia.
4 dicembre 2014 alle 18:05
Questo e quello, Livio. In vent’anni sospetto di aver fatta fuori tutta la bibliografia esistente.
4 dicembre 2014 alle 18:38
Giulio, posso risponderti per quel che riguarda me. Ho frequentato la scuola materna (di cui non ho ricordo), poi la scuola elementare (di cui ricordo i dettati, poco altro). Poi la media (e della media ricordo che imparai a dare agli insegnanti esattamente ciò che si aspettavano). Il liceo (nel ricordo è il luogo in cui mi hanno formato, non direi però che mi sono formato). L’università, che ho poi abbandonato (e nel ricordo è prevalente un senso come di disagio per il, diciamo, rimpicciolimento di fronte alla forma dell’insegnamento che cala dall’alto). È chiaro che quando leggo da qualche parte “insegnamento” o “insegnante”, richiamo all’immaginazione ciò che per me insegnamento e insegnanti sono stati. Mi faccio cioè un’idea dell’insegnante di scrittura creativa, a priori, a scapito dell’aggettivo “creativa”. E poiché la scrittura è lo spazio in cui mi sono guadagnato un’autonomia, una libertà creativa appunto, se un minimo ciò che leggo sulla scrittura creativa mi rievoca l’atmosfera normativa dell’istruzione che mi è stata inflitta fuggo, o mi formo un solido baluardo di pregiudizi. Forse ho esagerato gli argomenti, ma la sostanza è questa.
Per gli altri, proprio non so.
4 dicembre 2014 alle 19:04
“ Sabato 2 dicembre 2001 – Leggo il titolo: « Ottimista, riccreativa / così cresce la nuova Italia ». È evidente che ho letto male – la versione giusta era: « Ottimista, ricca e creativa / così cresce la nuova Italia ». Che sta succedendo: non so più leggere? Oppure: è la volta che imparo a leggere davvero? “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 141
4 dicembre 2014 alle 19:08
Se fosse come dici, Daniele, lo stesso varrebbe per l’insegnamento della musica, della pittura, dell’atletica, del punto a croce, eccetera. Ovvero: un discredito generale dovrebbe circondare ogni tipo di insegnamento.
Invece non è così. A nessuno viene in mente di dire che il Conservatorio è un’istituzione è inutile, e che se uno vuole fare buona musica deve evitarlo come la peste.
Mah.
4 dicembre 2014 alle 19:45
Nel 2001 Antonio Spadaro provò a mettere in rete, come si dice, tutte le esperienze di insegnamento di “scrittura creativa” da Roma in giù. Si chiamava Sudcreativo, c’era un forum molto animato sul quale si faceva notte su tutto tranne che sull’insegnare scrittura. Poi ci fu un convegno a Napoli e in seguito la cosa scemò del tutto.
4 dicembre 2014 alle 20:12
Be’, Giulio. A scuola si impara a scrivere. A scuola non si impara a suonare uno strumento (per quanto eroici possano essere gli insegnanti di musica). A scuola non si impara quasi nulla dell’atletica (per quanto eroici gli insegnanti di educazione fisica). Oltretutto saper scrivere è un’abilità fondamentale e vuol dire, in qualche modo, saper essere nel mondo; mentre suonare uno strumento, fare l’atletica etc non fanno parte delle abilità fondamentali; e tornare in classe per studiare ed esercitarsi per un’abilità fondamentale, in età adulta, fa un effetto diverso rispetto a tutto il resto. …Certo, in un corso di scrittura non si impara propriamente a scrivere, ma si lavora su questa abilità fondamentale che è per molti un automatismo radicato dai tempi – per l’appunto – dell’istruzione obbligatoria. Non dico che la questione sia tutta qui. Sollevo il dubbio che accostare, in questo ragionamento, la scrittura la musica l’atletica e il cucito possa portare lontani dalla specificità, dal focus del problema.
Queste sono comunque tutte argomentazioni non sistematiche e molto personali.
4 dicembre 2014 alle 21:27
‘Il ricettario di scrittura creativa’ non mi era congeniale, forse, per il tipo di impostazione scelta: l’ho preso in prestito in biblioteca due volte, a distanza di tempo, e l’impressione iniziale non è mutata.
Per ‘L’officina della parola’ mi son fidata dell’indice e l’ho acquistato.
Ammetto di aver letto, finora, solo la parte scritta da Giulio Mozzi.
Mi stupivo che in Italia non ci fosse un libro assimilabile al ‘Revision and self-editing for publication’ di Bell, che ho trovato davvero utile, ricco di suggerimenti e spunti di riflessione. ‘L’officina della parola’ l’ho trovato altrettanto utile e ricco, con un’ambizione di completezza (considerando anche la parte di Stefano Brugnolo) che al libro di Bell manca.
Ci tenevo davvero a scrivere queste mie impressioni a ‘casa’ di uno degli autori.
5 dicembre 2014 alle 02:20
mi piace quando giulio racconta di sé, della sua vita e dei suoi progetti, lo leggo sempre con attenzione.
5 dicembre 2014 alle 06:03
Va detto, Stefania, che la divisione tra parti scritte da me e parti scritte da Stefano è un po’ un’invenzione. In realtà L’officina è stata inventata da Stefano; strutturata e in gran parte scritta da lui; io sono intervenuto in un secondo tempo facendo una piccola ristrutturazione (l’estrazione da punti vari del testo dei materiali che sono diventati il primo, introduttivo capitolo); ho riveduto e in buona parte riscritto il tutto, lavorando con più libertà nel secondo e nel terzo capitolo dedicati all’argomentazione e alla narrazione; insieme abbiamo discusso un’infinità di punti specifici; abbiamo scelto o scritto una quantità di esempi; eccetera. Su tutto, con grande professionalità e grandissima pazienza, è intervenuta Paola Borgonovo.
Poi, visto che se uno fa un concorso per titoli è bene poter dire “Io ho fatto questo, lui ha fatto quello”, le diverse parti sono state attribuite all’uno o all’altro.
5 dicembre 2014 alle 10:39
Si cita qualche manuale insolito per vedere se Giulio se lo sia perso. Allora ci provo anch’io… “Scrivere zen” di Natalie Goldberg (Astrolabio Ubaldini).
5 dicembre 2014 alle 10:53
“ Domenica 29 agosto 1999 – « La Toscana affascina gli Stati Uniti. Bella Tuscany, diario di viaggio di Frances Mayes, docente di scrittura creativa dell’università di San Francisco, è uno dei best sellers Usa di quest’estate, al decimo posto nella classifica dei libri più venduti. » (Dai giornali) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 142
5 dicembre 2014 alle 11:00
Io a Giulio Mozzi voglio bene, molto.
Gli voglio bene perché per me è un maestro e io credo che insegnare bene, trasmettere un sapere e una passione, sia la punta massima di realizzazione personale. Per questo e mille altri motivi gli sono grata, perché mi ha insegnato molto e mi ha fatto amare ciò che stavo imparando, un valore aggiunto inestimabile.
Giulio Mozzi a volte è scorbutico, molto, ma più spesso è di una disponibilità da non credersi.
Spesso è lapidario: per chi è logorroico come me è traumatizzante, ma tanto utile.
Per suo tramite, ho conosciuto o conosciuto meglio persone splendide, anche del suo mettere in relazione le persone gli sono molto grata.
Se a qualcuno dà fastidio (capita!) la definizione “insegnante di scrittura creativa”, identifichi pure in Giulio Mozzi un perfetto “insegnante creativo di scrittura”, magari si riconcilia con l’insegnamento della materia.
Mi sta molto a cuore quello che scrive più sopra:
“Vorrei lavorare con gli insegnanti delle scuole medie superiori. Ho avuta l’occasione (grazie ad Amedeo Savoia) di lavorare per tre anni con l’Iprase, l’istituto della Provincia di Trento per la sperimentazione didattica: ho imparato molto (e spero anche di essermi reso utile). Devo dire che, negli ultimi dieci anni, ho provato a più riprese a proporre attività formative specificamente rivolte agli insegnanti: la risposta è stata quasi sempre zero. Evidentemente la proposta è concepita o proposta male: devo capire dove sbaglio.”.
A me questa proposta sembra ottima: mi piacerebbe tanto che Giulio Mozzi potesse lavorare con gli insegnanti del distretto di Fiorano, Maranello, Sassuolo, Formigine e cercherò di renderlo possibile, per quel po’ che mi compete.
5 dicembre 2014 alle 15:12
Molto interessante, questo articolo. Leggendolo, mi tornano in mente le esperienze che ho accumulato negli anni in cui ho insegnato alle scuole medie e al biennio delle superiori (so che non si dice più “scuole medie” e “superiori”, ma è lo stesso). Allora, ispirandomi a Ersilia Zamponi, a Raymond Queneau, a Umberto Eco… non ricordo a chi altro… ho fatto un po’ di laboratorio di scrittura creativa con le mie classi. È stato bello e divertente, sia per me che per i ragazzi, credo. Ora che sono al triennio mi dedico soprattutto alla scrittura argomentativa, all’analisi del testo, e non ho più tempo per quel tipo di esperimenti, se non in modo molto occasionale. Ma mi dispiace un po’…
5 dicembre 2014 alle 17:25
Se ricordo bene, “Scrivere zen” è citato nella bibliografia del Ricettario. Non penso, dunque, che Giulio “se lo sia perso” (e ho l’impressione che Giulio “si sia perso” ben poco sull’argomento…)
5 dicembre 2014 alle 18:23
Se avessi il cappello, me lo toglierei
5 dicembre 2014 alle 18:24
(“Insegnante creativo di scrittura” è una definizione che neutralizza gli echi scolastici e alcuni tipi di pregiudizio, secondo me. Ma suona proprio male. (Precisazione: non ho in antipatia la categoria degli insegnanti di scrittura creativa. Mi ero formato un’idea degli insegnanti di scrittura creativa – a partire da articoli post e manuali di svariati autori, e anche sul calco di altri insegnamenti accomunabili ricevuti -; che ho completamente rivisto dopo aver avuto la fortuna di vedere Giulio all’opera)).
5 dicembre 2014 alle 19:06
Eh già. Arriverà forse il tempo in cui saremo “semplicemente” degli insegnanti, come altri insegnanti di altre discipline: e peraltro, dm, fare l’insegnante non può non essere creativo, pens’io… a volte sembra che quel tempo possa essere ancora lontano. A volte invece si sente il cambiamento – lavoriamo anche per questo, credo. E intanto, si continua a sperimentare, senza vincoli “esterni”. E mi sembra una delle belle possibilità di questo lavoro, ricco di continue scoperte, appassionante.
5 dicembre 2014 alle 20:24
Enrico, se ampliamo a tal punto il dominio della creatività, anche scrivere una cosa qualsiasi – la lista della spesa o un poema – non può che essere creativo. Ma allora che senso ha definirsi “insegnante di scrittura creativa”? Se ampliamo a tal punto il dominio della creatività, meglio togliere l’aggettivo alla definizione. No?
5 dicembre 2014 alle 20:46
Nei vent’anni da dilettante dentro queste robe, come poeta, traduttore, commentatore web e generico scrivente, ho imparato che nessuno è sicuro di nulla e che le autorevolezze si costruiscono in misura grossomodo simmetrica attraverso talento naturale, riconoscimento dei pari e riscontro di pubblico. Per indole e formazione, tuttavia, sono sempre stato attratto dagli estremi: dai grandi talenti, dai generalizzati riscontri critici, dagli inattesi successi di pubblico. L’equivoco del creative writing anglosassone e’ la sua aspirazione a trovare la formula mediana a scapito della cura degli estremi. Qui in Italia vinsi tramite un concorsino per racconto breve un modulo online della Scuola Holden nel 1997 o 1998 dal quale scappai a gambe levate, lasciando la tutor piuttosto sconcertata.
5 dicembre 2014 alle 22:56
ciao daniele (dm): come dico qui, altrove, scrittura creativa è per me uguale a scrittura letteraria, né più né meno: prosa d’arte, poesia, scrittura teatrale, o cinematografica… se vuoi allora: si desidera (si prefigura) un insegnante creativo di scrittura creativa… e questo insegnante “creativo” ha da imparare da tutti gli altri insegnanti “creativi” delle materie più diverse: musica, pittura (ho trovato insegnamenti interessanti per il mio lavoro in Arno Stern), storia della letteratura o italiano, latino, tango ecc. Come definire un insegnante “creativo”? Qualcuno che sperimenta, che testa nuove soluzioni, nuovi metodi, che si interroga con passione su chi ha davanti, sulla realtà dei suoi allievi, che ascolta, che intende il lavoro del docente come arbitrario gioco, in cui le regole non sono scritte una volta per tutte, ma sempre in discussione, e rinnovate, in un lavoro che docente e discente fanno (anche) insieme. Un docente dedito, al “servizio di”, che non si sottrae alle teorizzazioni nel suo campo, e all’approfondimento della sua cultura. Che non è insomma un funzionario, o un passacarte, un annoiato esecutore di programmi decisi altrove da altri. Dunque vivano i creativi insegnanti di scrittura creativa (letteraria). Giulio mi pare uno di questi.
5 dicembre 2014 alle 23:24
Enrico, non fatico a immaginare che nel tuo lavoro metti cura, attenzione, slancio. Contesto solo che l’insegnamento, per definizione, sia un’attività creativa. È possibile trasmettere nozioni di una materia senza lasciarsi scalfire dal dubbio, senza creare alcunché ma rovistando nel già dato. Mentre scrivo mi viene in mente dell’insegnante di matematica, ultimi due anni di liceo: non dimostrava niente di quel che enunciava. A casa, i meno pigri ricostruivano la lezione e dimostravano da sé ciò che era stato solo detto, come un’informazione riportata. Ma forse non c’entra. Sì, non è pertinente.
Smetto di distogliere l’attenzione dal quadro alla cornice. Ciao.
6 dicembre 2014 alle 05:49
Pierluigi, il libro della Goldberg è un classico.
Morena: Fiorano, Maranello, Sassuolo, Formigine. Ho preso nota. Sono pronto (come già sai).
Enrico, Daniele. Volete che giochiamo al gioco dei nomi?
– insegnante di scrittura creativa (e vabbè),
– insegnante creativo di scrittura (orrore!),
– insegnante di retorica (tutti scappano),
– rètore (peggio che andar di notte),
– insegnante di letteratura pratica (è il mio preferito),
– docente di Teoria e tecnica dell’ideazione, progettazione, realizzazione e rifinitura di testi narrativi, argomentativi, informativi, drammatici e poetici (il giorno che s’insegnerà all’università, sarà questo il nome del corso – anzi, dell’esame: come dicono gli studenti),
– insegnante di scrittura e narrazione (è il nome che adopero da un po’ di anni in qua, e mi pare regga).
Altro?
6 dicembre 2014 alle 06:01
“ 22 giugno 1990 – « I più funesti demagoghi del mondo contemporaneo, come si sa, sono stati anche i più eloquenti. E del resto chi ha detto che l’eloquenza politica ai giorni nostri costituisca ancora un valore? La retorica della parola è ormai enormemente meno importante della retorica delle immagini. » (Dice Forcella) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 144
6 dicembre 2014 alle 10:34
… sì Giulio, bello insegnante di letteratura pratica! molto! e… dm, sì, non siamo d’accordo: secondo me l’insegnamento anche del “già dato” dovrebbe essere creativo – si tratta di un ideale, va da sé, ma come si sa gli ideali contano…
6 dicembre 2014 alle 11:50
Ti chiederei un chiarimento, Giulio, se possibile: la tua affermazione “in aula non si scrive; oppure, in aula si scrive e basta”, la pensi in riferimento solo ai cosiddetti corsi di scrittura creativa (con adulti, dunque) oppure, a tuo parere, è una massima che vale anche in un’aula scolastica (con studenti, diciamo, di circa 15 anni)? E ancora: a tuo parere, in un’aula scolastica occorre usare anche strategie e strumenti dell’insegnante di scrittura creativa, o pensi che il lavoro da fare in un’aula scolastica sia radicalmente diverso?
Grazie.
6 dicembre 2014 alle 11:56
Poi, se posso, un altro chiarimento: quando parli di “letteratura postmoderna”, cosa hai in mente? I vari John Barth, Thomas Pynchon eccetera (quindi, di massima, statunitensi), oppure hai in mente una categoria più ampia di quella? E potresti, per cortesia, fare dei nomi di opere a tuo parere significative della letteratura postmoderna? E ancora: esiste anche un postmoderno italiano (o europeo)?
Spero di non avere ecceduto in richieste. Grazie.
6 dicembre 2014 alle 13:53
Be’, la definizione fa il monaco (voglio vedere il monaco a fare il monaco, senza il lemma “monaco”). Così a scatola chiusa, accetterei suggerimenti e consigli da un insegnante di letteratura pratica, non da un docente di Teoria e tecnica dell’ideazione, progettazione, realizzazione e rifinitura di testi narrativi, argomentativi, informativi, drammatici e poetici.
Ma è sensibilità individuale… …
Enrico, invece siamo d’accordo: dovrebbe.
Oppure non sei d’accordo che siamo d’accordo?…
6 dicembre 2014 alle 14:23
“ Mercoledì 14 febbraio 1996 – Guardare gli annunci mortuari per Barbato (Andrea) serve a scoprire che Folena (Gianfranco) è morto nel ‘92. Il fatto di non aver mai conosciuto neppure lui non mi impedisce di commemorarlo citandolo: « Diversamente dalla lettera, il diario può giungere ad abolire l’io e può del tutto trascurare il dato spaziale, il qui: non può, se è diario, abolire il nunc, il punto del tempo in cui ciascuno di noi vive in certo modo l’ultimo momento del mondo, in solitudine o in sincronia con gli altri, e fissa la sua ultima esperienza. Nel diario è essenziale la dipendenza dal tempo della scrittura, la segmentazione progressiva, la discontinuità. Il diario è in correlazione necessaria, anche se nascosta, col sentimento del tempo: del tempo dei gesta Dei per homines, come nelle notizie del mondo registrate dal monaco nell’isolamento della sua cella; del tempo-denaro, come nei diari dei mercanti; del tempo-spazio, misurato in parasanghe da Senofonte o in giorni di marcia da Marco Polo o in leghe marine dal capitano Cook, come nelle note dei viaggiatori e nei diari di bordo; del tempo-coscienza, come nelle meditazioni di filosofi e di poeti; del tempo-resistenza, come nei diari di prigionia. » (Le forme del diario – Premessa, in «Quaderni di retorica e poetica», 2, 1985) [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 145
6 dicembre 2014 alle 21:32
Se sarà un corso ci saranno più esami. Se la materia sarà scrittura creativa, ci sarà un esame di teoria (fondamenti di scrittura creativa) e uno di pratica (scrittura creativa applicata), come minimo. E non si possono escludere alcuni complementari: complementi di scrittura creativa, scrittura creativa analitica, identificazione sistematica di qualcosa, istituzioni di scrittura creativa etc.
7 dicembre 2014 alle 06:55
“docente di Teoria e tecnica dell’ideazione, progettazione, realizzazione e rifinitura di testi narrativi, argomentativi, informativi, drammatici e poetici” ce la farai a scrivere tutto nel libretto, prima del voto?
Io aggiungerei anche “precettore”.
7 dicembre 2014 alle 10:58
Gatto: la dichiarazione sul “non scrivere in aula” è ristretta al lavoro che faccio io, cioè l’insegnamento ad adulti consenzienti. A scuola è tutto diverso: perché i ragazzi non sono sempre consenzienti, perché i tempi sono completamente diversi, perché un conto è fare una formazione di base (nella secondaria superiore è sempre formazione di base) e un conto è fare della formazione “aggiuntiva”, eccetera. Dopodiché, credo che qualche strumento didattico usato di qua possa funzionare anche di là (es.: il Diario e il Reportage che ben conosci sono nati di qua e hanno funzionato assai bene di là).
La letteratura postmoderna è generalmente identificata, dai più, con Thomas Pynchon; John Barth è ancora assai poco noto in Italia (le sue opere maggiori, tradotte quarant’anni fa, non sono mai state ristampate: dico il Il coltivatore del Maryland, Giles ragazzo capra). Pienamente postmoderno in Italia a me pare Alessandro Baricco, che qualche opera davvero bella secondo me l’ha fatta (Oceano mare, City). Ma splendido era anche il romanzo d’esordio di Gaia Servadio, Tanto gentile e tanto onesta, che se va tutto bene sarà ripubblicato l’anno prossimo. Posso citare Leonardo Colombati per Perceber e anche per il recente, splendido secondo me (e molto più accessibile), 1960. Poi c’è La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec. Non metterei nell’elenco Calvino, che secondo me quando ha cercato di “postmodernizzarsi” ha fallito (il suo libro più internazionale, Se una notte d’inverno un viaggiatore, secondo me è un fallimento).
7 dicembre 2014 alle 11:01
Andy: il percorso accademico comprenderà un esame di Elementi, uno di Fondamenti (o Istituzioni) e uno di Complementi. Poi ci sarà da presentare una Tesina. Per gli interessati, si potrà prevedere un esame di Storia della s.c. (il cui contenuto sarà identico a quello di una Storia della letteratura, ma non ditelo a nessuno), uno di S.c. comparata, e così via.
Per ogni esame, un libro di testo (più uno di Esercizi) e un’adozione. E’ così che si fanno i soldi.
7 dicembre 2014 alle 11:23
Grazie dei chiarimenti, Giulio. In effetti, sembra anche a me (e tu mi confermi) che il lavoro di apprendimento della scrittura sia diverso se rivolto a adulti consenzienti o minori (spesso non consenzienti, purtroppo; o, comunque, un po’ disinteressati). Il segreto starebbe nel riuscire a motivare talmente tanto i minori da avvicinarli ai tuoi potenziali utenti. E in effetti, il lavoro del Diario e del Reportage da te citato ci riuscivano, almeno in una parte numericamente consistente. Però poi, mi sembra, a scuola si è costretti a “dare esempi”, trattare l’esercizio come mezzo di apprendimento di una procedura: è inevitabile, siamo, come appunto dici tu, nella scuola di base.
Grazie anche dei chiarimenti sul postmodernismo. Intanto, qualche ora fa, ho anche letto la pagina 472 dell’Officina della parola; dove ho trovato altri chiarimenti sulla tua idea del termine. Non ho mai letto nulla né di Barth né di Pynchon, lo farò. Non conoscevo nemmeno il nome di Gaia Servadio, e attendo la ristampa che tu annunci. Un po’ meno chiara mi sembra l’annessione di Perec (almeno della Vita) al “canone” postmodernista.
7 dicembre 2014 alle 12:14
“ 1 aprile 1994 – Ecco la lettrice giovanetta che si chiama « Isolina ». Come la nonna del babbo. Voilà il postmoderno. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 146
7 dicembre 2014 alle 12:37
“ Lunedì 2 dicembre 1996 – Leggendo in Ferroni il capitolo Postumo contro postmoderno mi sembra di ricordare che più di vent’anni fa, cominciando quello che poi è divenuto il mio farraginoso mostruoso diario, ho scritto: « La cultura è finita, giochiamo con i pezzi », all’incirca così. Postmoderno ante litteram, non sono poi riuscito a tenere fede all’assunto. Questo diario, che, anche se è fatto di pezzi, non è assolutamente postmoderno, ne è la prova evidente. [*] [**] [***]
[*] È più facile che sia postumo.
[**] Se proprio è necessario “ periodizzare “, direi che in Italia – in Italia? – il postmoderno comincia con Il nome della rosa (1980)
[***] La s-formazione dello scrittore / 147
7 dicembre 2014 alle 12:42
“ Mercoledì 15 maggio 2002 – Ho davanti un libro di Jameson: Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, 1989 [1984]. Non so cosa fare, dico se leggerlo o no. Ho scoperto che il solo pensarci mi rende ansioso. Ho capito che quello che mi innervosisce in questo genere di libri è che non so che cosa pensa veramente l’autore dell’oggetto del suo scrivere. Per esempio: ‘sto postmoderno, a Jameson, gli piace o no? In altri termini: il nostro professore, il nostro marxista, il nostro americano, da che parte sta, veramente (idem quando ci parla della « geopolitical aesthetic », cioè del cinema)? Così decido di fare la cosa più semplice: non leggerlo. Nell’incertezza – sui professori, sui marxisti, sugli americani, sulle parti – io preferisco stare dalla parte mia – la parte di uno che, quando legge, legge, e quando va al cinema, va al cinema. (Senza litigare con nessuno) “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 148
7 dicembre 2014 alle 14:00
Scrittura creativa comparata mi diverte molto. In tal senso, secondo me non si può escludere nemmeno qualcosa come “creatività scritta”, sulla falsa riga della chimica fisica, o della economia politica alternativa alla politica economica. E l’orientamento internazionale? Scrittura creativa americana, francese, svedese, greca e slovacca? Metodi organici in scrittura creativa rischia di essere un mattone, così come igiene della scrittura creativa sarebbe l’esame per non partire militare (quando la leva era ancora un obbligo). Non escluderei due esami come scrittura creativa qualitativa e scrittura creativa quantitativa.
8 dicembre 2014 alle 19:00
ciao dm. Allora siamo d’accordo (un po’ in ritardo). Per me è interessante far scrivere in aula e far leggere anche. Spesso una teoria non viene quasi per nulla assorbita se non faccio un esercizio.
10 dicembre 2014 alle 13:08
“ Mercoledì 10 dicembre 2014 – Poi sono andato alla libreria – quella piccola – e ho chiesto: « Che c’avete di Giulio Mozzi? » « Eh… », ha detto la commessa. « Eh… », ha detto quell’altro, dall’altra stanza. Insomma, l’avevano finito. Così l’ho ordinato. Poi abbiamo parlato del libraio scomparso a Sasso Marconi, che ne ha parlato anche Chi l’ha visto? Poi lui ha detto che Giulio Mozzi l’ha conosciuto, « abbiamo camminato insieme… », pare che alla fine il Mozzi avesse un gran mal di pancia, « poveraccio… ». Comunque mi faranno sapere quando arriva, dico il libro, basta che arrivi in tempo per Natale… “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 150
11 dicembre 2014 alle 14:27
Giusto, mi sono espressa male.
Non lo so, non è che avessi chiaramente in mente la distinzione che tu operi tra apprendimento ed addestramento. Se posso però permettermi un’osservazione, io metterei dentro alla categoria dell’apprendimento due attività che richiedono l’interazione tra maestro ed allievo e che perciò vengono a mancare quando si studia soltanto sui libri.
1. La prima è l’aiuto alla comprensione, insomma, chiedere ed avere chiarimenti. Non sempre si riesce a capire tutto di quello che uno cerca di apprendere, e magari si è consapevoli del fatto che non si capisce. Senza la disponibilità di una persona cui puoi chiedere aiuto e delucidazioni, punti di incomprensione possono diventare ostacoli insormontabili.
2. La seconda è la verifica della comprensione, cioè riconoscere ed evitare il rischio che concetti ed idee vengano compresi male (il converso inconsapevole del punto 1: non si capisce, ma non ce se ne accorge). Certamente, nella tua divisione tra apprendimento ed addestramento, quest’ultimo prevede tra l’altro l’analisi degli scritti degli allievi, attività questa che può mettere in luce questo genere di errore. Tuttavia, quando si pensa all’addestramento si pensa di più all’applicazione pratica della teoria piuttosto che allo verificare che la teoria la si sia capita bene. A mio avviso, una attività pratica di verifica della comprensione, più limitata rispetto all’esame di elaborati, dovrebbe far parte delle attività di apprendimento più che quelle di addestramento. Chi si limita, per scelta o circostanze, allo studio sui libri, non ha questa possibilità, e rischia di incorrere nella “maledizione dell’autodidatta”, far mostra cioè di errori che sarebbe stato facile correggere da parte di un insegnante.
15 gennaio 2015 alle 07:54
[…] anche per questo mio percorso di vita che quando ho letto l’intervento di Giulio, ho subito capito la sua volontà di lavorare con gli insegnanti delle scuole e con l’Iprase, […]