di Rossella Monaco
[Chi volesse proporsi per la rubrica dedicata alla formazione dell’insegnante di scrittura creativa – che esce il giovedì – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Rossella per la disponibilità. gm]
Ho ventotto anni appena compiuti e sono un “insegnante di scrittura creativa” da due. Ogni volta che salgo in cattedra non mi sento in grado di insegnare nulla. Mi ci ritrovo sempre un po’ per caso, spinta da tre tipi di necessità: far quadrare i conti, continuare un percorso che da un certo momento in poi è sembrato inevitabile, cercare di non disinammorarmi. All’inizio della mia strada ero piena di concetti ingenui sulla scrittura e il mondo editoriale.
Chi scrive si vergogna quasi sempre di ciò che ha creato e oggi guardando indietro alle mie prime prove, a dieci anni fa, mi chiedo cosa avrei prodotto se allora mi fossi trovata davanti me stessa, in un’aula o in una chat. Non sempre la risposta è confortante. Guardo i volti delle persone che partecipano ai miei corsi: le prime lezioni, ci vedo sconforto, sogni infranti, voglia di mettersi in gioco e di impressionarmi; alla fine, ci vedo consapevolezza. E questo mi dà energia. Paragono l’esperienza dei corsi, con ingenuità e anche un po’ di divertimento, ai miei nove anni, a quando la maestra ci salutò prima delle feste di Natale dicendoci che Babbo Natale non esisteva. Quello che seguì fu un misto di ammirazione e odio. Credo che gli iscritti provino questo nei miei confronti. L’ho capito guardandoli ma anche e soprattutto dai questionari di valutazione anonimi che sottopongo loro alla fine di ogni percorso didattico. Se c’è una cosa che ho imparato dai corsi di scrittura creativa, dai miei alunni, e da questo metodo di valutazione del mio lavoro, è che anche l’ultimo arrivato può insegnare molte cose. È per questo che ho preso coraggio e nonostante la scarsa esperienza, sono qui a raccontare il mio percorso. Funziona come in un circolo di alcolisti anonimi, credo: condividere aiuta me a focalizzare il percorso e spero possa servire ad altri, anche solo a intrattenere o a scatenare insulti o indifferenza, a piacere.
Siccome non ho molto da raccontare, la storia partirà dal periodo scolastico, dalla doccia ghiacciata della frottola di Babbo Natale. Fu allora, mi dico, che mi resi conto della potenza delle storie. Che iniziai a preferire italiano a matematica. Che smisi di recitare le poesie in maniera presuntuosa sulla sedia a Natale, circondata dai miei familiari. Intuii che le parole erano una cosa seria, anche pericolosa. Alle scuole medie ne ebbi la conferma, diventò sempre più difficile capire gli altri e farsi capire. Vorrei ricordare la professoressa d’italiano, Messina, che ci aiutò a rafforzare la nostra capacità d’analisi, a comprendere i testi e a studiarne il linguaggio senza affossare il nostro amore per la lettura. In terza media la salutammo al suo funerale. Ci propose in classe la lettura di testi come I cavalieri della tavola rotonda di Mino Milani (Mursia), una narrazione riveduta e personale delle avventure di Re Artù, con qualche episodio riscritto, nuove caratterizzazioni dei personaggi, invenzione di particolari per rendere la storia più vicina a dei ragazzi. Conservo questo libro ancora oggi e mentre vi scrivo lo sto sfogliando. Con le penne colorate vedo disegnate sequenze, esplicitate a lato le promesse drammaturgiche, sottolineati i passaggi relativi alla caratterizzazione dei personaggi. In matita, sopra ogni riga, capitolo per capitolo, l’analisi grammaticale, l’analisi logica e nelle ultime pagine l’analisi del periodo.
Accanto a questo testo, nella mia libreria ce n’è un altro: Io, tu, tutti. Adolescenza e sentimenti di Elena Rosci e Simona Rivolta (Archimede). Messina adottò lo stesso metodo su questo testo, facendoci analizzare brani letterari e testi di musica leggera: Vasco, Lucio Dalla, Gino Paoli. Oggi mi viene da sorridere a vedere Thomas Mann accostato a Gianni Morandi o Jovanotti a Natalia Ginzburg ma, con il senno di poi, questo lavoro mi aiutò a essere meno schizzinosa. Al di là dell’utilità del libro per la didattica e il lavoro sui testi, mi colpisce una frase che all’epoca sottolineai con la penna rossa: “Spesso gli adulti lamentano il fatto che i giovani di oggi leggono meno rispetto alle generazioni precedenti. Viene espressa da più parti una certa preoccupazione per i ragazzi dell’era dei videogiochi e dei computer”.
Credo che anche ragioni di tipo generazionale abbiano influito nella mia formazione. Eravamo e siamo completamente immersi nelle storie. Durante l’infanzia, la tecnologia diventò per me e per molti dei miei coetanei il rifugio in cui ritrovare le cose più importanti, registrare la propria voce, i ricordi, calcolare le affinità con le persone, confidarsi i segreti intimi in una sorta di diario virtuale, prendersi cura di cuccioli fatti di chip, infinitamente ricreabili, costruirsi l’illusione di una vita perenne e modificabile a comando. Eravamo abituati a guardare i cartoni fin dalla tenera età, a emozionarci con le storie di “Mille e una fiaba” e della Disney. La morte ci era stata presentata sotto gli occhi fin da piccolissimi: la bella addormentata nel bosco, la mela di Biancaneve, la scomparsa di Mufasa ne Il re leone, le storie di fantasmi ritornati dall’aldilà per redimere gli abitanti della Terra, il non senso crudele di Alice nel paese delle meraviglie, le vite ricreabili nei videogiochi. (Lo so, adesso mi prenderete in giro per Mufasa.) Il meccanismo narrativo faceva parte della nostra quotidianità. Nei film, nei cartoni e nei giochi vedevo un po’ di realtà – erano verosimili – e la realtà diventava fantascientifica. C’era qualcosa di magico nel fatto che potessi scrivere in tempo reale a un amico distante chilometri, che potessi sentirmi dall’altra parte del mondo rimanendo in camera mia. Se ci penso oggi, pare tutto normale. Posso paragonare l’esperienza a Una storia infinita, film del 1984 tratto dal romanzo di Michael Ende, con i sequel che continuavano a dare in televisione e che ogni anno guardavamo. Sono cresciuta nelle storie e a un certo punto le storie hanno iniziato a fare parte di me. Era come abitare un mondo di fantascienza; noi eravamo i primissimi residenti. Prima avevano solo costruito le fondamenta, preparato i giardini, abbellito le case e le colline, allagato i mari, avevano creato un mondo virtuale a misura d’uomo e ci avevano catapultati dentro senza che ne fossimo coscienti. I miei genitori non l’avevano vissuta allo stesso modo, perché avevano visto i lavori in corso, sapevano cosa ci fosse dietro. Quando penso a questa cosa, mi viene sempre in mente il bellissimo film di Peter Weir, The Truman show, e la commovente sensazione di vivere nel migliore dei mondi possibili. Noi eravamo candidi in quel mondo. Potrei passare giorni a citare film e opere letterarie che influenzarono la mia crescita negli anni Novanta, per non parlare dei cartoni animati e dei giochi didattici su pc. La cosa interessante è che i dispositivi che creavano questi immaginari ci hanno seguito nella vita di tutti i giorni, diventando più piccoli, “pocket” e sono entrati nella nostra pelle. Ma questo è un altro discorso. Di certo un buon materiale per un romanzo.
Vi ho annoiato con il racconto della mia infanzia perché la formazione nelle storie è partita per me, e credo anche per altri, molto presto, ma è solo grazie al mio percorso scolastico che ho iniziato a farmi delle domande. Dove iniziava la realtà? E dove finiva la fantasia? Mi risvegliai dal sonno o almeno credetti di farlo. Perché la strada è ancora oggi molto lunga.
È anche per questo mio percorso di vita che quando ho letto l’intervento di Giulio, ho subito capito la sua volontà di lavorare con gli insegnanti delle scuole e con l’Iprase, nonostante io non abbia avuto mai a che fare con simili iniziative. Dentro di me ho pensato che la didattica della scrittura e della lettura partono proprio dalla creazione di una consapevolezza e che la mia è scaturita grazie alla sfilza di insegnanti che ho avuto nella mia carriera da studente, dalle scuole elementari all’università. Sono stata molto fortunata a incontrare docenti di italiano e di lingue che si sono concentrati sull’aspetto pratico della scrittura, che hanno affrontato le lezioni di letteratura con passione, insegnandoci l’analisi del testo, a riconoscere gli obiettivi, le strutture complesse, a farci intuire il duro lavoro che si nasconde dietro ogni opera letteraria, a collocarla in maniera chiara all’interno di un periodo definito ma non rigido, a farci capire che il talento e l’innovazione si mostrano per quello che sono e hanno senso solo se passano dall’osservazione di regole comuni. Non per tutti è stato così.
Ricordo con gratitudine il professor Luigi Cavagnaro. Era il più giovane dei nostri professori alle superiori e conduceva la lezione in maniera informale, densa e mai banale. È grazie a lui che ho capito che i grandi scrittori sono definiti tali non solo perché sono stati in grado di portare una loro voce personale, un loro mondo, ma anche perché hanno lavorato, hanno provato a inserirsi in un percorso già iniziato da altri portando qualcosa di sé.
Fu allora che mi innamorai della letteratura e fu un po’ come innamorarsi della vita. Studiai Manzoni come mai avevo fatto prima (ha ragione Giulio quando scrive che quasi tutti hanno un pessimo ricordo scolastico de I promessi sposi); lavorai sulle analisi del testo di Eugenio Montale e Italo Calvino. Spronata dai 6 risicati che prendevo nei temi in classe a fare di più (solo dopo capii che quei voti servivano proprio a questo).
Nel nostro Paese, la scrittura creativa non è materia di studio istituzionale come invece accade oltreoceano. Si riflette su certi concetti inerenti il campo della scrittura creativa nell’ambito delle lezioni di italiano, a scuola, ma il tutto è ancora molto arbitrario e dipende dalle scelte personali dell’insegnante. Per questo è importante parlarne. Ho sentito anch’io il bisogno di un serio lavoro di ricerca per descrivere e capire ciò che avviene nei corsi e nelle scuole di scrittura quando mi sono approcciata per la prima volta alla materia. Ho letto molto, ho frequentato professionisti del mondo dell’editoria, ho lavorato quotidianamente sui testi.
Il primo banco di prova in un ambiente extrascolastico fu la collaborazione per alcune riviste freepress a partire dal 2004. Scrivevo articoli e recensioni su libri e film. Al secondo anno di università iniziai a scrivere articoli per la cronaca locale del quotidiano “L’Eco di Bergamo”. Fu una buona palestra. Molto presto iniziai a lavorare anche per alcune aziende. Imparai moltissimo sulla scrittura e i testi preparando comunicati stampa, presentazioni aziendali, newsletter, facendo traduzioni dal francese e dall’inglese, scrivendo post per alcuni business blog. Ero ancora un po’ confusa all’epoca sulla strada da prendere, senza contare che gli studi umanistici mi offrivano un’ampia gamma di possibilità per il futuro (cosa che all’epoca vedevo in maniera negativa e oggi non posso fare a meno di lodare). Iniziai a scrivere schede di valutazione per Il rifugio degli esordienti, un’associazione online di scrittori. Alcuni corsi universitari e le mie letture personali mi permisero di conoscere la pratica dell’editing e iniziai a farne diversi per privati. Feci uno stage per una società di consulenze editoriali, continuando a leggere inediti e preparando le mie schede di valutazione. Acquistai l’intera collezione di “Scrivere” della De Agostini in collaborazione con la scuola Holden e iniziai a seguire il blog di Luisa Carrada, Il mestiere di scrivere. Mi laureai a Bergamo con una tesi di Semiotica del testo con la professoressa Valentina Pisanty e mi iscrissi subito all’Università degli studi di Milano per frequentare la specialistica. Avevo buone basi di narratologia, letteratura, linguistica e semiotica e gli esami si fecero più specifici: Cultura editoriale con Alberto Cadioli, Teorie e tecniche della rappresentazione e dell’immagine con Elio Franzini, Filosofia del linguaggio, Editoria multimediale, Storia della cultura contemporanea, Teoria e tecnica della traduzione. Frequentai diversi laboratori per me importanti: il laboratorio La realtà romanzesca. Un ciclo di incontri su veleni e antidoti dell’industria culturale con il regista Davide Ferrario, il laboratorio di scrittura La storia e la memoria con lo storico e giornalista Roberto Coaloa e il laboratorio La pratica dell’editing con l’editor Benedetta Centovalli. Ma fu il mio periodo di stage presso Laurana e Melampo a farmi capire davvero la direzione da prendere. Ricordo il colloquio iniziale con Gabriele Dadati e Calogero Garlisi come un momento didattico vero e proprio. Con loro, iniziai a conoscere il mondo editoriale in maniera più profonda, capii come poter riunire tutte le esperienze fatte e quale direzione prendere per il futuro. Da Paola Murru, editor di Melampo ho imparato la precisione nella correzione di bozze e l’importanza dell’aver qualcosa da dire. Da Calogero Garlisi, l’amara felicità di chi fa questo mestiere prima di tutto per passione e convinzione, la sua ironia profonda. Da Gabriele Dadati, editor di Laurana, la necessità delle scelte da compiere e il saper essere editor e al tempo stesso scrittore, con tutto ciò che questa doppia identità comporta. Capii davvero cosa si intendesse per “letterato editore”. Attendevo i nostri momenti di condivisione, di corsa per prendere il treno in tempo, quasi più che le intere giornate lavorative passate fianco a fianco. Imparai tantissimo anche da quei pochi minuti giornalieri.
Leggevo vibrisse e seguivo altri blog e riviste, come Nazione Indiana, Carmilla, Il primo amore, già prima del mio periodo in Laurana e Melampo. Perciò quando appresi che Giulio Mozzi era dispensatore “di utili consigli” per la neonata Laurana me ne sorpresi piacevolmente. Incontrai per la prima volta Giulio durante uno di quei giorni di lavoro. Veniva per organizzare gli incontri della Bottega di narrazione. Io avevo già letto i suoi libri riguardanti la scrittura creativa ma non lo conoscevo ancora come autore. Avevo solo un’idea di cosa si facesse alla Bottega durante i weekend e la cosa mi affascinava tanto quanto la pratica dell’editing a contatto con gli autori. Iniziai a leggere prima di tutto i testi che Giulio consigliava sui suoi libri, anche se in redazione non parlavamo. Fu un insegnante tacito, è il caso di dirlo. Era davvero, come lui ha scritto nel suo articolo, un esempio, un modello, un oggetto delle proiezioni più disparate.
Finito lo stage, feci un’esperienza nell’ufficio risorse umane di una nota multinazionale. Mi resi subito conto che non faceva per me, anche perché la sera mi ritrovavo puntualmente con i libri in mano e continuavo a fare editing e valutazioni e a scrivere per le aziende. Lasciai quello che per molti era considerato il lavoro della vita (dopo lo stage era prevista l’assunzione) per fare quello che volevo: lavorare con i testi. In un periodo in cui scegliere il lavoro da fare era considerato un lusso. Lo dico perché il lavoro dell’insegnante di scrittura creativa è anche improvvisazione, a volte.
Visto che il lavoro cresceva, anche grazie al fatto che avevo potenziato la mia presenza in rete e aperto un blog, decisi di aprire partita iva. Nacque di fatto un vero e proprio service editoriale e decisi di creare anche un marchio, all’inizio per gioco e per ragioni di tipo personale. Oggi è diventata anche una piccola agenzia letteraria – grazie all’aiuto e alla consulenza di diversi professionisti – per la quale mi occupo dello scouting dei testi.
Potenziai le mie conoscenze lavorando per un piccolo editore romano. Imparai molto anche sulla gestione economica dell’oggetto libro, oltre a continuare a lavorare sulla comunicazione e sull’editing e la selezione dei testi. Spesso ero in contrasto con le scelte editoriali personali dell’editore ma i nostri dibattiti mi servirono per capire cosa volevo essere e cosa no, a distinguere ciò che reputavo sbagliato e ciò che invece era per me giusto, anche a livello morale.
Nel frattempo, avevo proposto corsi di scrittura alle amministrazioni comunali dei paesi vicini alla mia residenza e iniziato a maturare l’idea di alcuni corsi online. Per preparami, lessi ancora più intensamente del solito, di tutto un po’ sulla scrittura, manuali con diversi approcci, trattati, romanzi e racconti. Su richiesta di alcuni autori, iniziai a fare qualche presentazione in libreria di testi altrui. E oltre a tradurre testi tecnici e di comunicazione per le aziende, iniziai a tradurre e a pubblicare letteratura. Mi fu affidata anche la scelta dei titoli per una piccola collana di classici inediti della letteratura straniera che già leggevo e traducevo per interessi personali.
Il timore inizialmente era di occuparmi di un po’ troppe cose per poterle fare nella maniera giusta. Ma più passava il tempo, più capivo che questa eterogeneità mi permetteva di avere un approccio multidisciplinare e ampio alla scrittura, ognuno influenzava l’altro e mi aiutava a procedere senza preconcetti. Già nella stesura della mia prima tesi di laurea in Semiotica avevo mostrato dubbi riguardo alla rigidità della materia e ne avevo fatto tesoro per la scelta della materia per la mia seconda tesi, in Cultura visuale con il professor Gianpiero Piretto, nella quale ho potuto spaziare senza fossilizzarmi in un unico punto di vista, in maniera anche un po’ casuale e creativa.
Iniziai a scrivere una sorta di manuale di supporto alle lezioni dei corsi con lo stesso spirito, dopo aver messo insieme le mie esperienze e aver studiato i diversi approcci metodologici (drammaturgico, stilistico, creativo in senso puro, psicologico, pragmatico, americano, ecc…). Inutile dire che non si tratta di un manuale vero e proprio e per questo motivo non avrà mai una sua collocazione editoriale: è semplice materiale di aiuto alle lezioni che trovo pratico per fissare concetti e che ho notato essere utile per i corsisti, sia in aula che online.
I corsi online funzionarono e funzionano anche oggi, nel loro piccolo, perché l’approccio one to one permette all’iscritto di lavorare in autonomia a casa, nei momenti che reputa più opportuni, per poi ritrovarsi a discuterne con il tutor in chat, passaggio per passaggio, in maniera aperta e diretta. Il momento di tutorato diventa a sua volta uno strumento di riflessione e di scambio da poter archiviare e poter ritornare a discuterne in seguito. Certamente comodo dal punto di vista della fruizione e in qualche modo più intimo. Le impressioni degli studenti mi hanno aiutato a migliorare edizione dopo edizione il lavoro. Siamo ancora in fase embrionale ma mattone per mattone qualcosa si sta costruendo, anche con la collaborazione di professionisti del settore. Vedremo come finirà.
Intanto il successo dei corsi online, almeno in termini numerici, è stato confermato e aiutato anche dalla ideazione di corsi di traduzione editoriale dall’inglese, in collaborazione con la traduttrice Thais Siciliano. Lavorare sulle traduzioni e discuterne in chat vuol dire riflettere in maniera approfondita sui testi e sulla trasposizione da una lingua lontana dalla nostra. Questo è finito in qualche modo anche all’interno della didattica dei corsi di scrittura.
Gli ultimi dieci sono stati e sono tutt’ora anni di studio, un po’ caotico, ma intenso. Ho collezionato successi e altrettanti fallimenti. I primi corsi presso le amministrazioni comunali, paragonati a ciò che sto facendo oggi, sono stati una delusione e mi preoccupa il fatto che in futuro anche quello che sto facendo e creando in questo momento possa esserlo. Mi sono sempre buttata a capofitto in progetti e in letture e credo che continuerò. Perché grazie a questo lavoro, l’innamoramento non è svanito, se si può, si è alimentato, nella consapevolezza di portare avanti qualcosa di personale e di non sentirmi sola in questo. F. Scott Fitzgerald scrisse che una fra le cose più belle della letteratura è che “scopri che i tuoi desideri sono universali, che non sei solo, che non sei isolato da nessuno. Sei parte di”. E questo mi sento di sottoscriverlo anche se spesso per ragioni lavorative mi ritrovo a passare giorni dietro una scrivania, senza colleghi in carne e ossa di fianco a me; anche se a volte genera in me l’idea dell’inutilità di mostrarmi in pubblico, perché ciò che conta sono le parole che si scrivono e non il contorno, perché mostrarsi vuol dire influenzare le opinioni altrui – per il mio essere giovane, per il mio aspetto che stride in parte con quello che faccio e penso. Quando tengo le lezioni in aula, mi si ripropone ogni volta l’antico rispetto nei confronti delle parole: parlare di fronte agli altri e agli altri è per me sempre un po’ tradire la fiducia che le parole ripongono in me; mi preparo intensamente e in maniera un po’ impacciata per dire cose che conosco già e con cui lavoro tutti i giorni. D’altro canto nel momento in cui arrivo in aula prendo coscienza di essere “parte di”. (Questo mi fa pensare a quanto la mia formazione sia legata alle parole scritte e alle immagini più che all’oralità.)
Riflessioni personali a parte, la citazione di Fitzgerald mi dà la possibilità di collegarmi a uno degli ultimi progetti che hanno fatto parte della mia formazione. All’inizio di quest’anno eFFe e Edoardo Brugnatelli mi hanno accolto nella squadra di scrivo.me di Mondadori e ho iniziato a tenere la rubrica Sulle spalle dei giganti, accennando ad alcuni temi fondamentali del lavoro dello scrittore sulla base di ricerche aneddotiche che sono state un buono spunto da cui partire anche per i miei corsi e un modo per riflettere in maniera più generale sull’aiuto che le biografie dei grandi scrittori possono dare in termini di metodo e approccio alla scrittura.
Qualche mese fa ho poi ricevuto la telefonata di Stefano Calafiore, libraio all’Articolo 21 – Legami di Bergamo che mi chiedeva di tenere i miei corsi presso la libreria. Ho accettato con grande entusiasmo e ho proseguito la mia formazione in città, conoscendo persone con esperienze molto diverse che si accostavano alla scrittura in maniera curiosa e divertita, dalla casalinga disperata, alla quarantenne che lavora in un ufficio marketing, passando per ragazzi freschi di studio e imprenditori in settori diametralmente opposti al mio. Non è stato diverso dalle altre volte e anche questa volta ho imparato tanto. Come sempre è accaduto alla fine di ogni corso, mi è stato chiesto se potevano leggere qualcosa di mio, un romanzo. Nonostante scriva da un po’, non ho pubblicato nulla di narrativa. Mi dispiace sempre doverli deludere ma sono convinta del fatto che non necessariamente chi insegna scrittura creativa debba essere uno scrittore. Ai più insistenti, propongo alla fine alcune mie traduzioni e qualche racconto. Forse il fatto che io sia sempre in aggiornamento e nel fiore degli anni mi porta a vergognarmi di ciò che ho scritto fino a quel momento, perché non riesco a non essere critica, e mi rivedo in loro, nelle loro domande. Ci sarà il momento giusto per lasciar andare le mie creazioni e, come insegno ai miei ragazzi, potrebbe anche essere che il momento giusto non arriverà mai, l’importante è viverla con consapevolezza e serenità d’animo.
In progetto, intanto, ci sono un corso di lettura consapevole e un corso di grammatica e ortografia online perché ho notato negli anni che quasi il 90% di chi scrive e traduce ha forti carenze nell’analisi del testo e per quanto riguarda l’ortografia e la grammatica italiana. Vedremo come andrà.
Ora, grazie a Giulio, mi ritrovo a fare il punto. Quello che posso dire sul mio metodo didattico durante i corsi di scrittura creativa, dopo diversi tentativi riusciti ed errori, è questo:
– ragionare sulle regole sintattiche e sulle tecniche narrative non vuol dire stravolgere il contributo spontaneo di ogni iscritto, ma far capire agli interessati come metterlo in forma in maniera potente, così, prima di ogni lezione, provo a far scrivere a casa un qualcosa di istintivo, per poi discuterne nella lezione successiva e capire come migliorare;
– la finzione si nutre di realtà e dalla realtà è possibile partire per esercitarsi nella scrittura, utilizzo talvolta fatti realmente accaduti come basi per gli esercizi. Inoltre cerco durante le lezioni di far trovare a chi scrive il giusto equilibrio tra realtà e finzione, servendomi soprattutto dei commenti reciproci dei corsisti e aiutandoli a selezionare alcuni dettagli per poi lavorarci in maniera più intensa;
– i testi altrui sono il luogo in cui potersi riconoscere e poter analizzare ciò che convince oppure no, così prevedo sempre l’analisi in gruppo di diversi testi, noti o meno noti, per poter parlare di alcuni argomenti;
– come giustamente scriveva Giulio, in aula non si scrive oppure in aula si scrive e basta. Mezz’ora non è sufficiente per scrivere un buon testo. Perciò o le lezioni in aula durano diverse ore, altrimenti cerco di focalizzarmi su un unico obiettivo;
– ho notato che la curiosità e la partecipazione degli iscritti si fa più viva quando cito autori noti e li riconduco alla loro esperienza: spiegare che un grande scrittore si è comportato in un certo modo, accende l’entusiasmo oltre a fissare in maniera più efficace alcuni concetti;
– personalmente fornisco qualche nozione di narratologia, qualche regola, sottolineando spesso che le regole e le tecniche sono fatte per essere infrante e che si può farlo soltanto se si conoscono davvero. Nel tempo questo concetto ha funzionato, perché la strada della messa in forma di un testo passa anche attraverso uno sforzo di astrazione, a mio parere.
È un metodo ibrido per via di tutto quello che, se avete resistito, ho raccontato finora. Mi piacerebbe molto poter entrare a far parte di una rete di docenti e appoggerò ogni proposta che segua questa direzione, così come ho fatto con questa mia condivisione.
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15 gennaio 2015 alle 08:42
Rossella, è un piacere leggerti.
15 gennaio 2015 alle 09:25
Grazie, Deborah.
15 gennaio 2015 alle 11:52
E’ sempre bello sapere di aver lasciato strada facendo qualche pezzettino di pane … la tua è la bella scrittura di una bella persona
15 gennaio 2015 alle 12:03
Grazie mille
15 gennaio 2015 alle 13:12
Un aggettivo, a volte basta solo un aggettivo per illuminare uno scritto. Leggevo senza la dovuta applicazione ( e me ne scuso con la brava Rossella), ma è bastato quel “potente” per farmi drizzare le antenne. Ecco, senza accorgersene l’autrice ha tenuto una piccola lezione di scrittura.
Sono d’accordo, ma aggiungo che il talento quelle regole le infrange (con mirabile riuscita) fregandosene se esistano o meno.
Un esempio grossolano. Prima di Caravaggio un certo uso della luce non fa parte dei comandamenti pittorici dei predecessori, e se ne fa parte è guardato con scetticismo. Ma lui se ne frega, il buio in contrasto con l’illuminazione del soggetto gli servono per descrivere un’esigenza interiore, insieme, direi, all’avvento di un periodo diverso.
15 gennaio 2015 alle 13:21
Ti ringrazio, Carlo. Per quanto riguarda l’eterna discussione tra talento e tecnica è sempre difficile rispondere e prendere una parte. Nel caso di Caravaggio, sono d’accordo con te in parte e in parte no, e forse questo chiarirà la mia modesta opinione in merito. Caravaggio non stravolge la tecnica pittorica, si rifà ad artisti del passato, in quanto a temi e tecniche, segue comunque un certo percorso figurativo, utilizza il pennello e i colori alla maniera del suo tempo, rielabora le tecniche acquisite dai suoi maestri, in certe cose appare rivoluzionario, pur rimanendo nel solco della tradizione; è questo che intendevo dire. Se Caravaggio non fosse andato a bottega non avrebbe potuto esprimere il suo talento.
15 gennaio 2015 alle 14:08
Rossella, non posso negare l’influenza delle tecniche acquisite da Caravaggio dai suoi predecessori e il suo essere andato a bottega. Ma la luce, la luce con i suoi effetti laceranti nessuno gliel’aveva insegnata. E se l’aveva appresa l’ha reinventata.
Associare amore a rose è facile. Ma proviamo ad associare amore, che so, a semaforo.
D’altra parte il famoso, e nelle scuole di scrittura abusato, “Chiamatemi Ismaele” è un incipit impensabile per la tecnica narrativa ottocentesca. Così come, per restare nell’esempio, “Entrò Carla”, di Moravia, negli anni venti del Novecento.
Insomma, senza la tecnica la pianta non cresce, ma di quella pianta il talento è il concime iniziale.
15 gennaio 2015 alle 14:18
Sono d’accordo. La tecnica non solo serve a far crescere la pianta, credo, ma anche a renderla bella e forte. Il talento è il concime, anche la tecnica lo è. Individuare poi cosa sia il talento è questione di opinione, credo.
15 gennaio 2015 alle 16:41
Rossella, ciao, mi incuriosiva tanto lo strumento dei questionari valutativi anonimi che “somministri” alla fine di un percorso didattico. Posso chiederti in cosa consistono? Grazie!
15 gennaio 2015 alle 17:03
Ciao, Enrico. I questionari mi permettono di capire prima di tutto come l’iscritto è venuto a conoscenza del corso per migliorare il mio modo di arrivare agli interessati. Ottengo inoltre una valutazione sulla congruenza dei contenuti rispetto agli obiettivi preannunciati e alle aspettative iniziali dell’iscritto; sul coinvolgimento personale di ogni iscritto; sul materiale fornito (utilità, quantità, ecc…); sul mio modo di fare lezione (chiarezza espositiva, capacità di stimolare riflessioni, ecc…). Tramite i questionari raccolgo anche proposte di miglioramento e mi viene data spiegazione delle valutazioni espresse. Li trovo molto utili per la crescita personale e credo che siano anche un buono strumento per coinvolgere gli iscritti e sentire la loro opinione finale paragonandola con quella iniziale. La compilazione del questionario non è mai obbligatoria.
15 gennaio 2015 alle 17:30
Interessante Rossella… tu lo dici in parte anche nel tuo post – ma che sensazioni hai rispetto alle aspettative degli allievi, e poi alle loro riflessioni “post”? quali i punti critici, quali distanze, quali sintonie o discrepanze? (Anche se capisco che forse è difficile fare un discorso generale). Che riflessione si può fare in merito alla “domanda” educativa (al bisogno formativo) presente nelle pieghe della società e poi all'”offerta fromativa”?
15 gennaio 2015 alle 18:03
Le aspettative sono sempre quasi disattese ma ciò sembra essere accolto dagli iscritti in maniera positiva, alla fine. Nel mio caso i punti critici sono perlopiù attintenti all’adattarsi a un metodo che presuppone che si pensi alla scrittura come atto comunicativo, seppur con grandi differenze rispetto ai prevalenti modelli.
Il bisogno educativo è di volta in volta differente nella mia esperienza, ma credo che la riuscita del corso molto dipenda dal rapporto che poi si instaura con gli iscritti e dalla volontà di rispondere ai loro bisogni personalizzando l’offerta formativa a seconda della classe che si ha di fronte, pur non snaturando l’impianto di base. Poi potrebbe anche essere che chi compila i questionari dica una marea di fandonie, che sia influenzato dal fatto che sa che li leggerò (anche se sono anonimi spesso può non bastare) perciò questo non può essere giudicato un infallibile metodo di valutazione, ma certamente, all’atto pratico mi è utile ad autovalutarmi. Ciò che ho notato è che la concretezza, la sensazione di star seguendo un corso professionalizzante siano accolte positivamente sia da chi inizialmente già si aspettava un simile percorso, sia da chi invece si era iscritto per far passare qualche ora coltivando un hobby. Anche chi rinuncia, lo fa consapevolmente e serenamente, per ora. Quali le tue impressioni invece?
15 gennaio 2015 alle 21:21
C’è chi vuole scrivere: un romanzo, una silloge di racconti (di meno), poesie… e questa “richiesta” mi ha portato a differenziare il mio lavoro: sono nati i “laboratori avanzati”. Per persone che vogliono diventari “autori” e che a un certo punto “chiedono di più”. Poi ci sono “tutti” gli altri che: assaggiano, vogliono “sbloccarsi”, vogliono “ritornare alla scrittura” dopo che hanno smesso di frequentarla. Una signora – poliomelitica a due anni – ha riscoperto la narrrazione, che l’ha “salvata” nelle lunghe sere dell’ospedale, uno studente, giovane ma non “così giovane”, ha lasciato il laboratorio perché “non c’erano fanciulle”, e poi chi “integra” percorsi artistici “altri”: in teatro, nella musica, persino nella psicologia, nella pittura… o formativi: l’università…
15 gennaio 2015 alle 22:08
… e quello che succede, molto spesso, è che nuovi bisogni e nuove messe a fuoco “nascono” durante il percorso, anzi direi che questa modificazione “in corso d’opera” è auspicata, perché le persone “si sperimentano” e quindi poi, insieme, vediamo “quello che si può fare”, e quello anche che si deve fare… un esempio: mi è capitato che persone attratte solo dal livello “culturale” delle lezioni (parlare affabilmente e con una certa competenza di letteratura) abbiano scoperto il loro lato espressivo, la voglia di fare, di “giocare” con la scrittura, perdendo la distanza dell’osservatore per “pasticciare” con i colori… sono casi decisamente interessanti… scusa la scarsa sistematicità con cui ti rispondo, Rossella…
16 gennaio 2015 alle 09:20
Difficile essere sistematici con dei commenti. Capisco la divisione che però personalmente non riuscirei ad affrontare, visto il mio metodo didattico. Il mio corso “avanzato” (questo per ora solo online) consiste nella creazione di un progetto (romanzo o raccolta di racconti) in affiancamento a dei tutor. Il corso base (in aula e online) prevede già un’ottica di tipo professionalizzante come dicevo. In ogni caso mi sembra per ora che anche chi si iscrive per coltivare un hobby si trovi soddisfatto dal percorso anche se sorpreso. Poi c’è chi rinuncia e chi procede, ovviamente. Grazie mille per lo scambio, Enrico.
17 gennaio 2015 alle 16:40
L’ha ribloggato su Rossella Monacoe ha commentato:
Su vibrisse, la formazione dell’insegnante di scrittura creativa
18 gennaio 2015 alle 11:00
“disinammorarmi” -> scrittura creativa ?
19 gennaio 2015 alle 08:29
Chiedo perdono per il refuso, era “disinnamorare” ovviamente
19 gennaio 2015 alle 08:33
In ogni caso accostare la scrittura creativa a un refuso non aiuta il dialogo sull’argomento perché si considera la materia in opposizione alla scrittura “seria”.