Posts Tagged ‘Antonella Cilento’

Un libro, un luogo: Mario Pomilio e Santa Restituta

4 novembre 2015
Duomo di Napoli, Cappella di Santa Restituta

Duomo di Napoli, Cappella di Santa Restituta

di Antonella Cilento

[Il “convegno online” dedicato a Mario Pomilio si è concluso. Nel corso del convegno abbiamo tuttavia ricevuto ulteriori contributi, che volentieri pubblichiamo. Questo articolo di Antonella Cilento apparve nel quotidiano di Napoli Il Mattino il 7 dicembre 2014].

Di Mario Pomilio, in Italia, pochi si ricordano, e fanno male. Peggio ancora, pochi hanno letto oggi Il quinto evangelio, che, uscito nel 1975, si stagliava allora, come adesso e anche di più, fra i capolavori assoluti della seconda metà del secolo e come un anticipazione di narrazioni che si sarebbero tradotte in fenomeno, che avrebbero fatto gridare alla rinascita del romanzo dopo la stagione del saggismo, gli anni Settanta, e che in realtà erano più centoni di ottima fattura che autentiche avventure letterarie, ovvero Il nome della rosa di Umberto Eco. Ma forse era di questa grande stagione di fini autori, come Pomilio era, anticipare in silenzio, come in fondo accadeva – e ne parleremo – al Giuseppe Patroni Griffi di Scende giù per Toledo, diretto antesignano dell’opera innovativa e amata di Pier Vittorio Tondelli. Sarà che a Napoli persone, cose e scrittori si nascondono e si dimenticano benissimo, come sapeva Gustaw Herling, il solo che fra i contemporanei penso vicino all’opera di Pomilio sia pur su basi del tutto diverse, che, come Pomilio, a Napoli venne a vivere e a morire, quasi in silenzio. Ma Pomilio scelse anche un’altra condizione, molto rara: da napoletano d’adozione, era nato in Abruzzo e a Teramo avrebbe dedicato lo sfondo di altri suoi romanzi, della città non parlò mai e non la fece mai protagonista di alcun suo scritto. Dunque, oggi, dovendo scegliere un luogo da connettere a questo romanzo lo farò in totale arbitrio, non pensando alle scuole pubbliche dove pure insegnò, da via Foria a via Andrea D’Isernia, ma al senso del nascosto, del cancellato, di quella menzogna che in fondo è verità manipolata, come si legge in questo romanzo, e cioè da Santa Restituta, ovvero da quel che resta della grande chiesa bizantina, la più antica della città e ai tempi la più grande, da oltre un millennio nascosta e divorata dal Duomo.

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La formazione dell’insegnante di scrittura creativa, 5 / Antonella Cilento

22 gennaio 2015

di Antonella Cilento

[Chi volesse proporsi per la rubrica dedicata alla formazione dell’insegnante di scrittura creativa – che esce il giovedì – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Antonella per la disponibilità. gm]

antonella_cilentoSono ormai trascorsi ventidue anni dalla prima lezione di scrittura che tenni nell’asilo di Esperimento 20, a Napoli, come attività sperimentale parallela alla formazione che facevamo, una ventina di persone di varia età, da ormai sei anni nel sottoscala dell’asilo reichiano.
Avevo iniziato quando ne avevo grosso modo diciannove, l’associazione si chiamava La Bottega del Liocorno, il progetto Teatro dell’Anima. Alla prima lezione, per coincidenza il giorno del mio compleanno, eravamo in sei. Una delle allieve di allora, Laura, sarebbe rimasta un’amica per tutti gli anni a venire e, a un certo punto, avrebbe fatto anche da ufficio stampa alle mie iniziative.
E fra le allieve, per paradosso, c’era anche la mia prima insegnante di scrittura creativa (e l’unica, essendo nel 1993 la questione letteralmente agli albori e avendo io mancato, ahimè, alcune lezioni, pochissime prima di morire, tenute a Napoli da Domenico Rea), ovvero Gabriella Ventrella, con cui avevamo seguito, anche lì in pochissimi, un corso durato alcuni incontri.
Nel 1993 l’unica scuola di scrittura già esistente in Italia era Omero a Roma – e a anche lì, un giorno, andai con un mio allievo di allora a seguire una lezione. E prima ancora c’erano state, purtroppo lontanissime per le mie finanze ai tempi, le magnifiche e indimenticabili lezioni di Giuseppe Pontiggia, che si trovano in parte registrate per Radio Tre e che ancor oggi mi sembrano il non plus ultra dell’insegnamento della scrittura e vado a riascoltare quando devo imparare qualcosa di nuovo.

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La formazione dell’insegnante di scrittura creativa, 1 / Giulio Mozzi

4 dicembre 2014

di giuliomozzi

[Considerata la pericolosità della rubrica, ho ritenuto opportuno fare io la prima puntata. In magazzino ho già gli articoli di Livio Romano e di Enrico Ernst. Il giorno fissato è il giovedì, ma temo che sarà difficile tenere il ritmo settimanale. Chi volesse proporsi mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo di questa rubrica. gm]

1994

1994

Il 30 aprile del 1993 pubblicai il mio primo libro di racconti. Non era il mio primo libro: negli anni Ottanta, quando lavoravo nell’ufficio stampa della Confartigianato veneta, mi era capitato di scrivere – oltre a innumerevoli comunicati stampa, discorsi, articoli – anche opuscoli e veri propri libri; di altri opuscoli e libri, non scritti da me, avevo curata l’edizione e la revisione. Mi fa piacere ricordare due persone che in quegli anni mi insegnarono molte cose: Guido Lorenzon e Maurizio Pescarolo.

Nel giugno del 1993 mi telefonò Roberto De Gaspari, che non conoscevo. Mi raccontò di aver fondato a Padova un nuovo circolo Arci, “Lanterna magica”, e mi chiese se ero disponibile a tenerci dei corsi di “scrittura creativa”.
Non lo so, risposi. Devo pensarci. Non so che cosa è che s’intende, con le parole “scrittura creativa”.
Restammo d’accordo di sentirci a settembre.

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La formazione dell’insegnante di lettere, 5 / Giovanni Accardo

3 dicembre 2014

di Giovanni Accardo

[Questo è il quinto articolo della rubrica La formazione dell’insegnante di Lettere, che si pubblica in vibrisse il mercoledì. Gli insegnanti che volessero partecipare possono scrivere al mio indirizzo, scrivendo nella riga dell’oggetto: “La formazione dell’insegnante di lettere”. Ringrazio Giovanni per la disponibilità. gm]

Giovanni_AccardoSono cresciuto in un minuscolo paesino della provincia di Agrigento, Villafranca Sicula, dove non c’era né una libreria né una biblioteca. Nonostante i miei genitori fossero entrambi maestri elementari, per casa non giravano molti libri. Mia madre è stata per tanti anni insegnante di scuola materna, impegnata soprattutto a crescere me e mia sorella. Mio padre divideva il suo tempo libero tra il calcio e il poker, però aveva anche una grande passione per la politica, perciò non perdeva un telegiornale, sia a pranzo che a cena, e leggeva i giornali. Così, a tredici anni (nel frattempo in paese avevano aperto un’edicola), incominciai a leggere i giornali e ad interessarmi di politica: ricordo perfettamente i comizi per le elezioni regionali del 1975. Il mio futuro era stato già deciso: avrei fatto il medico, per diventare ricco ed essere rispettato in paese. Avrei studiato a Roma o in una città del Nord. Così aveva stabilito mio padre. Ho frequentato il liceo classico, ma di cultura classica ne ho respirata davvero poca, parte per colpa mia, parte per colpa degli insegnanti: freddi, distanti e autoritari. Della maggior parte di loro non ricordo neppure il nome. Della scuola, a dire il vero, non me ne importava molto, in testa avevo soprattutto le ragazze, la musica rock e la politica. In quarta ginnasio faticavo a parlare e scrivere in lingua italiana, la mia lingua madre era il dialetto siciliano, i miei compagni di gioco erano per lo più figli di pastori e di contadini. Al ginnasio, la gran parte dei miei compagni di classe, alcune ragazze in particolare, parlavano un buon italiano e mi mettevano soggezione. Avevo quattro nello scritto, ma mi tiravo su con l’orale, grazie all’ottima memoria e alla voglia di non sfigurare, nonostante la mia paralizzante timidezza. Di studiare, però, non m’importava nulla. Guardavo le ragazze e sognavo la mia prima esperienza sessuale. Alla fine dell’anno scolastico, la professoressa di lettere disse che non mi rimandava perché andavo bene nell’orale ed ero molto educato, però durante l’estate dovevo leggere e prenderla come abitudine, perché avevo pochissimo lessico e una fantasia limitata. Non mi disse né cosa leggere né dove prendere i libri. In paese l’unico che leggeva e che possedeva una biblioteca era il prete, andai a chiedere consiglio a lui. Mi fece abbonare al Club degli Editori, che ogni mese mi spediva un libro a casa. Ma l’unica cosa che continuava ad appassionarmi erano i giornali, leggevo “Paese Sera”, “La Repubblica”, “L’Espresso”, “Ciao 2001”. Al prete rubai due libri di Marcuse: L’uomo a una dimensione e L’autorità e la famiglia, che lessi l’ultimo anno di liceo e che mi furono utilissimi per il tema della maturità, soprattutto il primo, citato a piene mani. Ogni tanto mio padre portava un libro a casa, prestato da chissà chi, fu così che lessi Padre padrone di Gavino Ledda, Giovanni Leone: la carriera di un presidente di Camilla Cederna, Arcipelago Gulag di Solženicyn, Il giorno della civetta, Dalle parti degli infedeli e L’affaire Moro di Sciascia; di quest’ultimo ci capii davvero poco, nonostante avessi seguito il sequestro Moro sui giornali e alla televisione. Cosa cercavo in quei libri non saprei dirlo, forse la voglia di crescere. Invece so benissimo cosa cercavo nei libri della beat generation, la vera scoperta letteraria che segnò la mia adolescenza, grazie all’amicizia con un giovane del paese di dieci anni più grande di me e che era andato a vivere a Londra: la voglia di scappare. Quando lessi Sulla strada di Jack Kerouac, nell’estate del 1978 o del 1979, capii che da quel paese e dalla Sicilia dovevo andar via. Ci sarà poi un tragico avvenimento personale che nel 1980 confermerà e aumenterà questo desiderio di fuga.

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Otto anni non sono pochi / 13

13 giugno 2009

[Ci affascinarono subito, del romanzo di Giovanni Accardo Un anno di corsa, due caratteristiche: la velocità della scrittura – davvero un romanzo che si leggeva di corsa – e il continuo andare e venire della narrazione tra realismo, grottesco, e fantastico puro. La copertina, che piaceva molto in redazione, a me sembra una delle più infelici: ma cosa fatta capo ha. Questo articolo di Antonella Cilento apparve nel quotidiano Il Mattinodel 24 gennaio 2006].

Mentre, proprio in questi giorni, la politica italiana discute invano delle problematiche lavorative delle ultime generazioni, la letteratura, che ha sempre l’occhio più lungo, ha cominciato a esaminare l’argomento già da un po’: «Indicativo Presente», la collana di Sironi diretta da Giulio Mozzi, che ha già prodotto i racconti di Giorgio Falco, Pausa caffè, dedicati al lavoro-non lavoro, a precari, interinali, lavoratori a contratto, porta ora in libreria, il giorno 26, Un anno di corsa (euro 14.50), esordio narrativo di Giovanni Accardo, siciliano trapiantato a Bolzano, che al tema della ricerca del lavoro dedica pagine tragicomiche e dolenti. In Un anno di corsa si corre con le gambe e con la testa, dietro a lavori sempre più improbabili e incerti, ostentando efficienza e competenze che quasi mai corrispondono a pagamenti rispettosi o sicuri.

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Carlo Coccioli / Presenza dello scrittore assente

16 gennaio 2009

a cura di giuliomozzi

Parla una composita pattuglia di lettori di Carlo Coccioli: Franco Buffoni, Antonella Cilento, Giancarlo De Cataldo, Mario Fortunato, Bruno Gambarotta, Massimiliano Governi, Giuseppe Lupo, Marino Magliani, Sergio Pent, Alcide Pierantozzi, Giacomo Sartori, Giorgio Vasta.

[Questo articolo è stato ripreso il 2 febbraio 2009 in Nazione indiana, qui].

Carlo Coccioli

Carlo Coccioli

“Quello con Carlo Coccioli è stato un esemplare incontro mancato. Non siamo mai riusciti a stringerci la mano, eppure non potrei dire di non averlo conosciuto”. Comincia con queste parole il capitolo che dedica a Coccioli, nel suo bel libro Quelli che ami non muoiono mai, Mario Fortunato (Bompiani 2008). Mi ha colpito sentirmi ripetere più volte queste o simili parole – quasi un ritornello – quando ho provato a domandare a un po’ di scrittrici e scrittori d’Italia chi sia per loro Carlo Coccioli. E, in effetti, non l’ho mai conosciuto, ma è come se l’avessi conosciuto, lo dico anch’io.

Per molti più o meno della mia generazione, la via verso Carlo Coccioli è stata Pier Vittorio Tondelli. Che recensì con entusiasmo, nel 1987, Piccolo Karma; e inserì poi la recensione, ampliandola, in quel formidabile racconto degli anni Ottanta che è il volume Un week-end postmoderno (Bompiani 1987). “In nessun autore italiano contemporaneo”, scriveva Tondelli, “è presente una così grande tensione interiore, un’irrequietezza spirituale che poi si traduce in un nomadismo culturale e metafisico assolutamente originale, per non dire eccentrico”. Tuttavia “quello che si ama nell’opera di Carlo Coccioli non è solo, a ben guardare, l’incessante tormento teologico che lo ha spinto ora verso il cristianesimo ultraortodosso, poi verso l’ebraismo, quindi, fra gli Stati Uniti e il Messico, verso gli Hare Krishna della Casa di Tacubaya (1982), i riti indigeni, lo spiritismo, la psichedelia e gli Alcolisti Anonimi di Uomini in fuga (1973) e, finalmente, verso le filosofie e le religioni orientali, l’induismo e il buddhismo Zen […] ma anche lo stile di vita appartato, l’amore per gli umili e i reietti, l’assoluta fedeltà alle ragioni della propria ispirazione e della propria scrittura che altro non sono, poi, che la ricerca ossessiva di una risposta, mai definitiva, alle ragioni del Bene e, più ancora, del Male. E poi, finalmente, la sensualità di molte sue pagine, l’erotismo, la predilezione omosessuale”.

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