Tentativo di descrizione di una tendenza in atto nella narrativa italiana (ovvero: come liberarsi dell’inutile categoria dell’autofiction)

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di giuliomozzi

Tanti anni fa il signor René Descartes decise di mettere tutto in dubbio. Dopo aver dubitato e dubitato, gli restò qualcosa, un resto, del quale non riuscì nonostante tutti gli sforzi a dubitare. “Poffarbacco”, pensò: “Sto pensando. E se sto pensando, esisto. Della mia esistenza, quantomeno della mia esistenza come essere pensante, non posso dubitare”.

Nel 2006 le acque di quel bicchiere che sono le pagine culturali dei giornali furono agitate da un breve saggio di Antonio Scurati: La letteratura dell’inesperienza. Due anni prima furono agitate da un articolo di Mauro Covacich apparso in L’Espresso con il titolo Ho le vertigini da fiction. Scriveva Covacich: “Ogni cosa per essere reale dev’essere trasmessa, ma non solo – questa ormai è roba vecchia – anche ogni esperienza di vita è reale solo se pensata da chi la vive coi ritmi, le sequenze e le inquadrature di una fiction. Il concetto la vita come un romanzo ha cambiato più volte faccia fino ad arrivare a la vita come un reality show“. Scurati non diceva cose tanto diverse: “La distinzione tra il finzionale (fictional) e il fattuale (factual) non è più rilevante, prima ancora di non essere possibile”, “Oggi il problema si riformula così: come trasformare in opera letteraria quel mondo che è per noi l’assenza di un mondo. Il mondo non c’è, e per questo diventa urgente raccontarlo”.

Né Covacich né Scurati dicono cose particolarmente originali: sull’idea che noi oggi viviamo nel mondo senza farne esperienza, perché tutta l’esperienza che abbiamo del mondo è mediata e mediatica, c’è una bibliografia più che ventennale. Ma quando certe questioni di grande rilevanza filosofica, come questa, arrivano nelle pagine culturali dei giornali e nei pamphlet di cui si discute, vuol dire che qualcosa è successo. E quando – più esplicitamente nell’articolo di Covacich, meno nel breve saggio di Scurati – vengono poste come questioni che interessano la nostra vita, vuol dire che sono questioni mature e urgenti.

Questa era la premessa.

Il protagonista e narratore del mio libro Fantasmi e fughe, del 1999, si chiama Giulio Mozzi. Il protagonista e narratore del mio diario in rete (qui e qui) si chiama Giulio Mozzi. La Nota alla fine di Fantasmi e fughe avverte: “Questo è un libro di fiction“. Molte storie del mio diario varcano tranquillamente, senza cambiare passo, il confine tra il possibile e l’impossibile (ovvero: pur essendo quello, formalmente, un “diario”, il “patto autobiografico” è messo in dubbio). Il romanzo Discorso attorno a un sentimento nascente, al quale sto lavorando da anni, ha un protagonista e narratore che si chiama Giulio Mozzi.

Questa era la parte autobiografica.

Il romanzo di Demetrio Paolin Il mio nome è Legione, scritto in terza persona, ha un protagonista che si chiama Demetrio. Confrontando la biografia dell’autore in quarta di copertina e la vita del personaggio Demetrio, si notano somiglianze significative. Il romanzo di Walter Siti Troppi paradisi comincia con le parole: “Mi chiamo Walter Siti, come tutti” (e una Nota avverte: “Anche in questo romanzo, il personaggio Walter Siti è da considerarsi un personaggio fittizio: la sua è una autobiografia di fatti non accaduti, un facsimile di vita. Gli avvenimenti veri sono immersi in un flusso che li falsifica; la realtà è un progetto, e il realismo una tecnica di potere. Come nell’universo mediatico, anche qui più un fatto sembra vero, più si può stare sicuri che non è accaduto in quel modo”). Il romanzo nuovo di Gabriele Dadati Il libro nero del mondo, che leggerete in settembre, ha un protagonista che si chiama Gabriele (e non fa Dadati di cognome), e nell’epilogo vi compare un qualcuno che è l’autore di Il libro nero del mondo, non viene nominato, ma è perfettamente riconoscibile dalle fotografie inserite nel testo. In alcuni racconti di Cosa voglio da te di Tiziano Scarpa compare un personaggio secondario, di solito nel ruolo della “cattiva compagnia”, che si chiama Scarpa. Davide Bregola ha scritto La cultura enciclopedica dell’autodidatta, nel quale non c’è un personaggio che si chiami Davide Bregola, ma che fu presentato e recepito come un esempio di autofiction (vedi la lettera-recensione di Rossano Astremo).

Questa era una veloce campionatura.

Adesso viene il tentativo di descrizione, vero e proprio.

Nell’era dell’inesperienza, ci sono dei narratori che decidono di dubitare di tutto ciò di cui hanno esperienza. Dopo aver dubitato e dubitato, scoprono che forse resta loro qualcosa, un resto, del quale non riescono nonostante tutti gli sforzi a dubitare. “Accidempoli”, pensano: “Sono un corpo dolente. E se sono un corpo dolente, ho esperienza. Di un’esperienza almeno, della esperienza di me come corpo dolente, non posso dubitare”.

Se c’è un corpo dolente, c’è chi introduce il dolere nel corpo; e costui lo chiamiamo: il Male. Se c’è un corpo dolente, e c’è il gesto con il quale cerchiamo di ripararci dal Male, questo gesto lo chiamiamo: il Bene.

E del Male e del Bene come esperienze del corpo (esperienza del Male che viene da fuori, esperienza del Bene che è un gesto, cioè viene da dentro) parlano, ciascuno a modo suo, le opere letterarie che ho citate. E a questo punto, uscendo dalla categoria “Libri il cui protagonista porta lo stesso nome dell’autore”, e cercando di saltare oltre la dubbia e dubitata categoria dell’autofiction, vedo che altri libri parlano del Male e del Bene come esperienze del corpo. L’ubicazione del bene di Giorgio Falco, ad esempio, dove i corpi dolenti non sono solo quelli umani, ma anche – e non per allegoria, ma per vera compassione – quelli animali; Italia de profundis di Giuseppe Genna, romanzo veramente anatomico; Il tempo materiale di Giorgio Vasta, dove il Male e il Bene sono esperienze del linguaggio, e il linguaggio è indistinguibile dal corpo; Gli ultimi occhi di mia madre di Patrizia Patelli. Per non parlare dell’opera intera di Antonio Moresco, che è anche un’epica di un corpo dolente che resiste all’aggressione di un Male che si presenta come Bene.

La mia sensazione, dunque, è che da dentro questo resto che è il corpo dolente, al quale ci si riduce dubitando e dubitando di ogni esperienza, si possa parlare e raccontare. Tutti i libri che ho citati mi sembrano libri assai belli. C’è una nuova tendenza in atto nella narrativa italiana (non è l’unica, non pretendo che sia quella giusta; sto descrivendo, non sto prescrivendo); mi sembra sana e utile; etichettarla con la categoria dell’autofiction mi pare sviante e svilente; io la chiamerò per il momento, finché, qualcuno non troverà di meglio, “la narrativa del resto“.

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109 Risposte to “Tentativo di descrizione di una tendenza in atto nella narrativa italiana (ovvero: come liberarsi dell’inutile categoria dell’autofiction)”

  1. Ivano Porpora Says:

    Io la chiamerei Recinzione, Giulio.
    Sono diversi giorni che accampo scuse per scrivere una recensione, e diversi giorni che – circondato da fusti di pomodoro di 200 chili – mi dico Non è il momento.
    Me la sto passando in testa, quella recensione, perché mi pare che sia una Recinzione, ossia il tentativo non di classificare un’opera ma un territorio, un momento.
    La recensione è su uno dei libri citati – contestualmente, quello di Demetrio Paolin.

  2. Tito Sartori Says:

    Il dubbio è metodico, ovvero descrive non soltanto un “movimento da” (allontanamento) ma anche un “movimento per” (ricerca). Se ho ben capito, distillando i diversi romanzi e racconti citati, individui nel “corpo dolente” l’approdo di questo dubitare letterario. Curioso, e a tratti inquietante, che l’autore necessiti di se stesso per arrivare a tale conclusione o che si serva di sé per sentire/sentirsi e raccontare.
    Trovo particolarmente interessante questo “resto” o residuo: il corpo dolente. Perché nella stessa direzione pare muoversi anche parte della psicologia contemporanea (dimenticavo: sono uno psicologo). Dopo una critica partita in sordina che negli anni ha corso il rischio di trasformarsi in disintegrazione dei vari apparati concettuali (tutto ciò che va sotto il nome di postmodernità), c’è una controtendenza: la ricerca di un appiglio e di un residuo, che a volte viene individuato proprio nel corpo. Dopo tanto muoversi “da”, un leggero movimento “per”. Secondo il pensiero tradizionale cinese, anche all’interno della più soverchiante entità vi è un “infimo inizio”, qualcosa che si oppone ad essa in maniera quasi intangibile e invisibile. Ecco: questa opposizione nasce – credo – dal corpo. Lo stesso corpo che chiede dimora mentre scrivo qui parole digitali. Ma qui si apre un’altra discussione.

  3. Francesco Terzago Says:

    Forse la questione è che, perché un lavoro ci sembri autentico, alla fine siamo costretti ad attingere dal nostro vissuto, spesso quando si cerca di inventare un personaggio ci pare di avere a che fare con un oggetto di plastica (spesso solo perché lo vediamo a tutto tondo, nelle sue debolezze, quelle che poi, un eventuale lettore, non avrà davanti), e allora per dargli ‘la vita’, versiamo in lui parte della nostra vita, così da ottenere, come per noi stessi – uomini limitati, trascinati via dalla corrente -, dei risultati ‘quasi imprevisti’. E così, bene o male, quel personaggio diviene uno specchio della nostra esperienza, del nostro vissuto, sicuramente almeno di una parte di noi stessi ed è questo che ci convince della sua validità, una empatia totale; in quella che forse è una elaborazione psicologica del ricordo – facciamo il contrario di Septimus della Signora Dalloway, tanto per intenderci.
    E questo, qualsiasi sia il genere che scriviamo. E se la nostra vita cresce ormai più influenzata dal cinema e dalla televisione, se il nostro processo di crescita si scontra non a caso con la pellicola più che con la pagina e con le persone – in carne ed ossa -, be’, credo sia ovvio che il nostro immaginario ne risenta e così le nostre ‘narrazioni’ sia quelle che produciamo, sia quelle che partecipiamo (come nella psicologia narrativista). Poi forse parlo in questo modo solo per un vizio d’anagrafe.

    A presto, Francesco.

  4. marco Says:

    splendido.

  5. girolamo Says:

    quindi dopo la New Italian Epic adesso avremo una riflessione collettiva su “la narrativa del resto” ?

  6. Federico Miozzi Says:

    Bellissimo articolo, Giulio. Un po’ malignamente però mi chiedo alcune cose:
    – Non sarà forse questa autoficiton un racconto autobiografico (con qualche spunto fantasioso) che si autodescrive come “finzione” per proteggere la vita reale dello scrittore? Penso ad esempio alla precisazione che fa Covacich nel suo ultimo libro e cioè che le persone citate nel suo libro gli hanno detto, leggendolo, che le cose non erano andate così come erano scritte. Preferisco uno scrittore che non precisa se si tratti di -fiction o di auto-, che corra il rischio di essere giudicato come reale.
    – Non ci sarà forse sotto un discorso esistenziale, e cioè finché non rendiamo la nostra vita un romanzo, finché non ci facciamo spiare nella nostra parte più intima (e spesso turpe e deforme) non esistiamo veramente? Non stiamo forse assimilando la sindrome del Grande Fratello televisivo (con risultati, talvolta, di vomitorium esistenziale autoreferenziale)?

    Federico

  7. aitan Says:

    L’autofiction, l’inclusione dell’autore col suo nome e cognome nella trama del romanzo, mi pare un genere antico e senza frontiere (solo a partire dall’età moderna mi vengono in mente precedenti – illustri – in Cervantes, Goethe, Sterne, de Unamuno, Goytisolo, Auster…), sulla novità della “narrativa del resto” per il momento non so. Penseròci.

  8. Enrico Macioci Says:

    Credo anch’io che questa gabbia dell’autofiction non abbia ragione d’esistere. UNA STAGIONE ALL’INFERNO di Rimbaud non è già, allora, inarrivabile autofiction? Mi domando invece se, a volte, la “scusa” autobiografica non faccia da stampella, nel momento in cui l’immaginazione langue. Verissimo poi quanto affermi riguardo ai libri di Vasta e Falco: là mi sembra che il discorso riesca ad essere intimamente universale, se riesco a spiegarmi. Il discorso teorico di Scurati in effetti non è originale: è perlomeno da Orwell che, su vari livelli, se ne discute, no? Invece faccio un esempio riuscito di narratività che, partendo dall’autobiografia, trae spunto per parlare esattamente del Bene e del Male: la serie televisiva americana LOST.

  9. Luca Says:

    Vorrei aggiungere che esiste anche una letteratura dove l’incontro tra il Male (che provocando il dolore identifica il ‘resto’) ed il Bene (inteso come difesa-comprensione) è centrale. penso a Gianfranco Nerozzi, Danilo Arona e Alan D. Altieri. Solo a titolo indicativo. Certo non vi è la vertigine dei testi che tu hai indicato, ma scarnificato il testo, ritrovi le stesse ossa.

  10. federica sgaggio Says:

    Non posso escludere che in qualche caso si sia verificata e si verifichi una specie di sindrome da esposizione di sé sul modello del Grande Fratello; né posso o voglio sostenere che la finzione assoluta, quella che (apparentemente) non coinvolge su un piano strettamente autobiografico la persona che scrive, non sia una forma di letteratura.

    Però sono sicura di una cosa: che senza partire da sé non si può «dire» alcunché.
    Partire da sé non è necessariamente autobiografia, o secernere parole di carne.
    È – forse, per azzardare una formuletta idiota – mestiere più vita uguale storia.

    E non so se c’entri col dubbio intorno a ciò di cui si fa esperienza, Giulio.

  11. Paolo Marasca Says:

    molto interessante. il mondo della critica, della storia, dell’analisi, della conoscenza ha invaso il mondo della letteratura e della poesia: non è un male di per sé, ma temo per i narratori che sono costretti a teorizzare la narrazione, perché orfani di qualcuno che lo faccia.
    autofiction è un termine terribile per definire qualcosa che è sempre stato. non credo meriti di essere così al centro dell’attenzione.
    non mi preoccupa il fatto che uno scrittore parli di sé: non siamo tutti uguali.
    mi preoccupa che gli scrittori debbano sempre più parlare del loro essere scrittori, edificare teorie e definire tecniche, colmare la lacuna.
    Mi piacerebbe che uno scrittore, considerato attendibile in virtù dei suoi meriti letterari, si esprima a proposito di politica, di ecologia, di sport, di passeggiate, di vacanze.
    E il resto viva nei suoi romanzi, nei racconti e nelle poesie.

  12. Monica Says:

    So che sto riducendo tutto all’osso, magari anche in modo che parrà superficiale, però per me quando uno scrive, scrive comunque di sè, è inevitabile, ed è così da quando esiste la letteratura e credo che sarà sempre così e… e che male c’è?

  13. gero Says:

    E’ un rimpiattino. Prima era la letteratura che raccontava, evocava, trasferiva esperienze.
    Poi vennero i Lumiere. Le storie viaggiano sempre più sull’altro canale, che non solo rincorre, riproduce, ma suggerisce, anticipa le cose, gli eventi, la vita nella comune vulgata. C’è quindi una diacronia tra fiction filmica e flusso di crononi di ciascuno, in qualche caso il gregario supera la lepre, in altri è una convoluzione.
    La letteratura d’esperienza è compressa, alla corda, deve dubitare per sopravvivere.
    L’avvento della fotografia non scalzò l’arte figurativa ma la costrinse al cambiamento, ad un’osmosi dentro-fuori (espressionismo).
    E’ vero che raccontare storie con le ombre non è cosa che parte da oggi, ma quelle ombre dalle origini ad oggi son sempre più pervasive (oggi si chiamano per lo più pixel), e quello che noi chiamiamo realtà raccontata passa quasi solo da loro (chi vive di facebook m’intende), le parole sono rimasticate, copypastate, ed hanno la stessa valenza semantica dei graffiti del cretaceo.
    Non si dà letteratura d’esperienza se non fa a pezzi la parola e se ne usano i frammenti per lacerare le ombre, il canovaccio (che cela le cose), i cristalli liquidi.
    Altrimenti c’è la letteratura d’invenzione, caduta in disgrazia in tempi recenti per lo stolido rimpiattino dell’altra con le ombre, e del conseguente rinculo nel diarismo e nella speleologia dei “sentimenti” (indagine, macerazione, vacue decodifiche).
    Rimane un iperuranio da esplorare, lo fecero in tempi recenti Borges, Perec, Calvino, Schwob, Savinio, Queneau, Charms, e in tempi remoti l’Alighieri. S’immagini, suvvia.
    S’immagini.
    Ma si figuri.

  14. Gabriele Dadati Says:

    Forse hanno a che fare con tutto questo anche “La separazione del maschio” (Einaudi, 2008) di Francesco Piccolo e “La futura classe dirigente” (minimumfax,2009) di Peppe Fiore. Anche se il nome viene obliterato, mi pare che per il resto siano romanzi in linea con l’orizzonte di ricerca che dice Giulio.

  15. mauro mirci Says:

    Domanda 1: ma l’autofiction è quella narrativa dove il nome del protagonista coincide con quello dell’autore (o comunque dove l’autore può, in certa misura, confondersi col personaggio) e le biografie sono “accostabili”. E’ questo il succo?
    Domanda 2: “La coscienza di Zeno”, secondo te, è autofiction? (secondo me sì)

  16. vibrisse Says:

    Qualche appunto al volo sulla discussione. Francesco Terzago dice: “Forse la questione è che, perché un lavoro ci sembri autentico, alla fine siamo costretti ad attingere dal nostro vissuto”. Monica dice: “per me quando uno scrive, scrive comunque di sè”. Ma il “vissuto” è una cosa, il “sé” è una cosa: il “corpo” è un’altra cosa. Federica Sgaggio dice che “partire da sé non è necessariamente autobiografia, o secernere parole di carne”. Sono d’accordo: ma io parlavo appunto di testi che – se ho capita bene la metafora – “secernono parole di carne”.

    (E manca infatti nell’articolo un passaggio: nel quale si spieghi che i libri nei quali il nome di un personaggio, magari del protagonista, coincide con quello dell’autore, hanno una serie di caratteristiche comuni: sono libri molto corporali, molto materiali. L’ho dato per scontato, visto che di alcuni di questi libri in vibrisse si è parlato molto; ma non dovevo dralo per scontato).

    Tito Sartori: secondo me la “ricerca di un appiglio e di un residuo, che a volte viene individuato proprio nel corpo” non è in “controtendenza” rispetto alla “disintegrazione dei vari apparati concettuali (tutto ciò che va sotto il nome di postmodernità)”. Sospetto che le due cose vadano di pari passo, piuttosto. Anche su questo dovrò scrivere un appunto.

    Girolamo: no.

    Federico Miozzi: alla prima domanda rispondo che sì, ci sarà anche questo, ma la categoria dell’autofiction non mi interessa; e che per buone (credo) ragioni non ho citato Covacich, in questo articolo, tra gli esempi (ricordare che il protagonista di “Fiona”, il precedente romanzo di Covacich, è l’autore di un reality show). Alla seconda domanda rispondo: mah, boh, sono cose che si dicono, ma non mi sembrano tanto credibili.

    Ad Aitan dico che gli esempi da lui portati (se ho identificato bene i testi) mi sembrano tutt’altra cosa dall’autofiction: categoria della quale, peraltro, farei volentieri a meno.

    A Enrico Macioci rispondo che, sì, se si vuole, nella categoria dell’autofiction può starci tutto, anche la Saison en Enfer. Il che mi pare un’ulteriore buona ragione per fare a meno di questa categoria. Che poi si ricorra alla quotidianità in mancanza di ispirazioni migliori mi pare curioso: forse inventare mirabolanti avventure è più semplice che far diventare interessante una giornata qualunque o una vita qualunque?

    A Luca devo dire che, per quello che li conosco (e li conosco poco perché, sinceramente, mi sembrano molto brutti), i romanzi di Nerozzi e Arona mi pare facciano tutt’altro: ad esempio, che collochino sempre il Male al di fuori del corpo, non dentro. Se la memoria non mi fa scherzi, non ho mai letto Altieri.

    Paolo Marasca teme “per i narratori che sono costretti a teorizzare la narrazione, perché orfani di qualcuno che lo faccia”. Vedi Orazio, costretto a scriversi da solo l’ “Ars poetica”. Poi dice: “autofiction è un termine terribile per definire qualcosa che è sempre stato. non credo meriti di essere così al centro dell’attenzione”. Infatti il mio articoletto aveva anche l’obiettivo di espellerlo. Ma qualcosa, evidentemente, non ha funzionato. Infine dice: “Mi piacerebbe che uno scrittore, considerato attendibile in virtù dei suoi meriti letterari, si esprima a proposito di politica, di ecologia, di sport, di passeggiate, di vacanze”. Non so, ma non mi pare il caso di pontificare da dilettanti.

    Gero: non ho capito niente.

    Gabriele Dadati: sono quasi d’accordo per Fiore, non sono d’accordo per Piccolo.

    Mauro Mirci: 1. è il senso della parola autofiction, ma non è il succo del mio discorso. 2. mi rifiuto di rispondere, non trovo utile usare una categoria sviante e svilente.

    giulio mozzi

  17. demetrio Says:

    Sinceramente non ho mai trovato attraente la categoria dell’autofiction. Quindi sono ben contento che giulio in questo articolo abbia provato a farne piazza pulita.

    Se usassimo questa categoria cosa dovremmo scrivere della Vita Nova?

    se guardiamo a quelle che possono essere le caratteristiche comuni del genere autofiction, l’opera giovanile di Dante ci starebbe dentro in tutto e per tutto.

    A nessuno viene, però, in mente di dire che la Vita Nova è autofiction, perché sarebbe riduttivo nei confronti di quest’opera complessa.

    Il nocciolo del discorso di Giulio sta da un’altra parte secondo me. Sta nell’individuazione del tema del corpo e del tema del male.

    Mi pare che nessuno dei commenti apparsi fino a qui dicano qualcosa su questa novità.

    Il male è sempre stato visto come una malattia dell’anima, come di qualcosa di esterno dai protagonisti, come qualcosa di brutto. Questi romanzi (sono curioso di leggere quello di Gabriele Dadati) fanno del male qualcosa di seducente, qualcosa che è nel corpo.

    Il male è qualcosa che definisce la nostra esistenza. Non è la nostra esistenza, ma la definisce come il margine del foglio che non è il foglio, ma lo delimita.

    d.

  18. chi Says:

    tre cose.

    la prima. una innocua piaggeria vera.
    La riflessione è bellissima da leggere. così bella e ritmata da leggere che se pure parlasse di caccole si arriverebbe in fondo e si condividerebbe la tesi. la postilla alla innocua piaggeria vera è che qui non si riflette sulle caccole ma sulle etichette. e io odio le etichette.

    la seconda. un momento di schizofrenico autobiografismo.
    nonostante io odi le etichette, narrativa del resto mi piace molto.
    tuttavia, proprio perchè le malsopporto mi aggrappo a Striano e dico che mi tengo l’etichetta solo perchè il resto è sempre Il resto di niente.

    la terza. il vieto brocardo.
    nomina sunt cosequentia rerum. e viceversa. meglio che nella narrativa italiana si armeggi con i propri che con quelli di sapore oltremanica John Jacky e Ive o Francoise e Wilhelm. armeggiare con i nomi però non può definire il tipo di narrativa e nemmeno le categorie narrative. i nomi hanno la stessa valenza degli aggettivi o degli avverbi o dei due punti per chi li usa o dei corsivi. o no?
    forse lo dico perchè io per nome ho un aggettivo.

    la quarta. fuori menù.
    ho sempre parafrasato Cartesio. prima da matematico e poi dal resto (di niente). e credo che la mia summa sia in Credo dunque sono. Perchè quello che per me deve fare la letteratura è aggiungere potenzialità ipotesi alla vita. facsimili facsimili facsimili. Mi chiamo Chiara Valerio come tutti pure io. Me se mi fossi chiamate Zenone come Marguerite Yourcenar non avrei neppure avuto bisogno di scriverlo.

    [grazie giuliomozzi, veramente un respiro di critica e di italiano.]

  19. Federico Platania Says:

    @Demetrio:
    sono d’accordo con te quando dici che “Il nocciolo del discorso di Giulio sta (…) nell’individuazione del tema del corpo”.
    Sono un po’ meno d’accordo sulla prosecuzione del tuo ragionamento. Tu dici “il male è sempre stato visto come (…) qualcosa di esterno dai protagonisti”. Ma questa è anche la tesi di Mozzi che nel post scrive: “c’è chi introduce il dolere nel corpo; e costui lo chiamiamo: il Male.”. E ancora: “esperienza del Male che viene da fuori, esperienza del Bene che è un gesto, cioè viene da dentro”. Una visione mazdeista che mi sembra altrettanto cruciale dell’intuizione sul corpo.

    P.S.: a furia di leggere vibrisse sto diventando pedante anch’io 🙂

  20. Ivano Porpora Says:

    (A me continua a sembrare che il titolo Letteratura della Recinzione sia più esatto. E credo si tocchino altri temi, essenziali come quelli citati. La carne, appunto, e il Male; la contaminazione – nel senso di male contaminante ma anche di contaminazione tra varie arti, che si fa anche avvaloramento delle tesi del curatore di questo posto. Poi la malattia. Poi il Giusto e l’Ingiusto. Poi l’invenzione).

  21. mauro mirci Says:

    Be’, mettiamola così: ritengo difficile discutere di categorie tassonomiche (attribuire un romanzo a un genere è esercizio di tassonomia, mi pare) senza introdurre nel discorso le categorie tassonomiche.
    Il succo del discorso, allora, potrebbe essere che tu, ritenendo sviante e svilente attribuire una certa produzione letteraria alla categoria “autofiction”, preferisci definirla “narrativa del resto”. Definizione bella, molto più di autofiction senz’altro, ma che ci dice poco di sé, in realtà. In altre parole, autofiction è più brutto, ma più “esatto”, più adatto a incasellare categorie. Certo, non necessariamente adeguato al tipo di narrativa di cui parli. Se, in qualche maniera, si vuole categorizzare.
    (Ma La coscienza di Zeno è “narrativa dell’altro”?)
    Ora, se la conclusione è: preferisco chiamarla narrativa del resto, be’, è pur sempre una categorizzazione.
    Diverso sarebbe se la conclusione fosse stata: preferisco chiamarla narrativa e basta.
    Insomma, o si accettano la categorizzazione e si cerca di ficcarci dentro gli oggetti da classificare (e magari si creano categorie nuove, alla bisogna, o si sopprimono categorie che paiono svianti e svilenti e si sostituiscono con altre, diciamo così, migliori), oppure no.

  22. caliceti giuseppe Says:

    caro giulio, come si la questione tra fiction e no-fiction, che considero un sottogenere di quella esterna tra scritto autobiografico o scritto non autobiografico, non mi appassiona e la trovo estremamente provinciale e inutile. tutto quello che si scrive è, al tempo stesso, autobiografico e non autobiografico. che dire altrimenti dell Divina commedia o di Alla ricerca del tepo perduto? un caro saluto.

  23. Enrico Macioci Says:

    Giulio, ti spiego il perchè della mi affermazione sulla “stampella autobiografica”. Alcuni mesi fa ebbi modo di assistere a una conferenza di Walter Siti, gli posi il medesimo quesito (lo scrittore si può appoggiare all’autobiografia se non riesce a inventare?) e lui ribatté che sì, per lui l’autobiografia rappresenta un porto sicuro entro il quale rifugiarsi nel mare magno narrativo. Disse pure che oggi la Storia (con la esse maiuscola) è difficile da affrontare, e citò come esempio l’11 settembre. Disse, in sostanza: se gli eventi sono così grandi e schiaccianti, preferisco ripiegare il racconto su di me. Nel mio precedente post ho citato forse impropriamente il concetto d’immaginazione (Siti ha parlato di Storia); ed è vero, come tu affermi, che ci vuole moltissima immaginazione per rendere interessante la quotidianità; ma il dubbio che ho espresso mi resta, dacché Siti me lo ha in qualche modo confermato – e non m’aspettavo lo facesse.
    ps: Siti parlò per sé, ma il tema generale era proprio l’autofiction (era la lezione finale di un corso universitario interamente centrato sull’autofiction!), e c’erano in ballo autori diversi come Saviano, Piccolo, Nove, Scurati, Pascale, e altri.

  24. marino magliani Says:

    Giulio,

    ho sempre pensato che per certi autori come me, legati sempre allo stesso paesaggio, per me la stessa valle che inizia da una spalliera di cui conosco a memoria la linea nella sera, e termina con dell’acqua sotto un ponte e il mare che viene a bersela, o per me ancora l’Olanda che mi ospita sabbiosa e dunesca, sia una questione di autobiografia del paesaggio. Se ragiono in questo modo , mi muovo, sembra a me, scientificamente, se ci metto pezzi di quell’io che ha guardato, invento.

  25. vibrisse Says:

    Per Federico Platania. E’ vero, oscillo tra un pensare il Male come una cosa che è dentro e il pensare il Male come una cosa che si introduce. Magari mangiando, per esempio, una mela. Forse è più utile la distinzione tra il Male come “una cosa che c’è” (è “naturale”), mentre il Bene si fa (con un gesto).

    Per Mauro Mirci: no, non mi interessa categorizzare. Mi interessa tentare (il titolo dell’appunto comincia con: “Tentativo di…”) di definire quanto basta per riuscire a vedere qualcosa che mi pare ci sia. Non mi interessa fare una tavola di Mendelejev delle narrative. Mi pare che la parola autofiction sia stata usata come se denotasse un genere letterario (quindi: i testi che sono autofiction sono distinguibili sulla base di tratti formali, come ad esempio l’identità dei nomi, la sovrapponibilità parziale di materia narrata e biografia nota dell’autore eccetera: tratti che non dicono nulla di che cosa è, in effetti, l’opera alla quale si applica l’etichetta). I passaggi che mi hanno portato a questo appunto sono:
    – una riflessione attorno all’idea di autofiction, che mi stava scomoda assai;
    – l’osservazione di una serie di opere etichettabili sì come autofiction, ma che a me parevano interessanti non per quei tratti formali ma per altre ragioni;
    – l’intuizione del paragone col dubitare cartesiano (intuizione avvenuta a Mantova, presso la Libreria Di Pellegrini, giovedì 30 luglio 2009 alle 22.15 circa) (e ci ho i testimoni).
    Sulla lunga distanza, c’è un giro di pensieri che legati all’impressione (molto violenta) che mi fece il libro di Mauro Covacich Prima di sparire, pensieri che a suo tempo si fermarono su un paragone, qui. E lì discutemmo, Mauro, sulla questione della “redenzione”.
    Potrebbe essere la stessa questione?

    Per Chiara Valerio: ho in mente – è una suggestione che non ha la pretesa di suggestionare altri che me – il “resto di Israele”, più che il Resto di niente. Quelli che dopo l’esilio babilonese tornarono in Palestina.

    Per Giuseppe Caliceti: nemmeno a me, appunto, interessa farne una questione di generi.

    Per Enrico Macioci. Il discorso di Siti da te riassunto è: “Se gli eventi sono così grandi e schiaccianti, preferisco ripiegare il racconto su di me”. Io direi: se l’esperienza del mondo mi risulta incomprensibile (e quindi inenarrabile), mi domando di che cosa è che posso avere un’esperienza comprensibile (e quindi narrabile). E’ una differenza di sfumatura? O è sostanziale?
    Un evento è “grande e schiacciante” – provo – quando è incomprensibile. L’effetto di “schiacciamento” ce lo dà l’evento difronte al quale non abbiamo risorse. Potrebbe essere qui un punto?

    Grazie.

    giulio mozzi

  26. Lucio Angelini Says:

    Credo che Girolamo De Michele sia uno dei pochi finto-allocchi ancora disposti a sostenere l’esistenza del New Italian Epic (il finto movimento nel quale fu inserito d’ufficio da Wu Ming 1 insieme a una manciata di altri buontemponi). Quanto al corpo dolente, sappiamo tutti che Giacomo Leopardi, dopo le poesie del “Ciclo di Aspasia”, tenne a definirsi “un tronco che sente e pena”.
    Propongo l’etichetta: New Italian Painful T[D]runks.

  27. vibrisse Says:

    Tanto per evitare confusioni, sia chiaro che il “Girolamo” intervenuto qui sopra – e che fa un accenno al New Italian Epic – non è Girolamo De Michele bensì Girolamo Grammatico (basta usare il link). (Ah, ma se tutti si firmassero con nome e cognome, come sarebbe tutto più semplice!…). gm

    Una bella intervista a Walter Siti, fatta da Peppe Fiore.

    Una bibliografia sull’ormai temibile autofiction.

  28. patrizia patelli Says:

    riconosco e mi riconosco (in) ciò che dici, giulio. grandiosa l’intuizione e la visuale di quanto scrivi. la narrativa del resto mi piace un sacco. la recinzione, ivano, sa un po’ di claustrofobia. il resto sta dentro e sta fuori, è aria, è narrativa, ma è anche vita.

  29. mauro mirci Says:

    La stessa questione? Sospetto di sì. O almeno, è uno degli aspetti della faccenda.

  30. aitan Says:

    (Rileggendo con maggior attenzione, capisco e condivido l’osservazione che mi fai. I testi che sottintendevo, più che alla categoria dell’autofiction, potevano ascriversi alla vasta casistica dell’autore come personaggio che entra più o meno occasionalmente nella trama del proprio romanzo. E a pensarci bene questa sarebbe una categoria molto vasta che gioca con l’ironia, l’autoironia, il vezzo metafisico e la strizzata d’occhio al lettore, più che con l’etica del Bene e del Male.)

  31. vibrisse Says:

    Quindi, Aitan, se la faccenda ti interessa, ti invito a dare un’occhiata a un mio appunto “trinitario” su Paul Auster, qui (è solo un appunto, per l’appunto; una versione più evoluta è nel libro Lezioni di scrittura, Fernandel). gm

  32. Morgana Says:

    Il termine “autofiction” non mi piace per nulla.
    “Chi l’ha coniato?”, mi sono chiesta.
    “Cerchiamo su google.com!”, mi sono detta.
    Come primo risultato ho trovato la voce sul sito Wikipedia inglese: “Autofiction is a term used in literary criticism. Coined by Serge Doubrovsky in 1977 with reference to his novel Fils, autofiction refers to form of fictionalized autobiography…”
    Poi ho pensato: “Vediamo sul sito Wikipedia italiano!”
    Risultato della ricerca: “Wikipedia non ha ancora una voce con questo nome.”
    Chiunque, in questo momento, potrebbe creare la voce in questa pagina: http://it.wikipedia.org/wiki/Autofiction
    Mi piace pensare che questa voce sarà creata il 20 agosto 2009 dal signor Giulio Mozzi 🙂
    Se la creassi io, ora, scriverei:
    “Autofiction
    Significato: Opera letteraria liberamente ispirata a esperienze realmente vissute.
    Perché fare economia di parole? Molto meglio usare otto belle parole piuttosto che una brutta.”

    Il Male c’è e ci sarà sempre. Non possiamo scrivere della nostra esperienza di nascita. Della nostra nascita non ricordiamo nulla.
    Della nostra morte non potremo mai scrivere nulla. Su ciò possiamo dubitare solo se crediamo realmente possibile la metempsicosi.
    Finché ci sarà vita, ci saranno malattie e violenze. Finché ci sarà vita, ci sarà male. Chi non ha mai avuto esperienza del male? Ritengo impossibile che qualcuno possa alzare la mano e rispondere: “Io!”
    L’esperienza del male ci accumuna. Accomuna tutti noi, nessuno escluso. Questa è una delle ragioni per cui il male è seducente. Leggendo il Male vissuto da un altro individuo, riconosciamo il nostro e ci sentiamo attratti dal romanzo. Leggendo l’esperienza del Male altrui, la nostra esperienza del Male sale in superficie col desiderio prepotente di narrare al mondo la propria storia. Dico ciò per esperienza. Questo è stato l’effetto che ha avuto su di me il romanzo di Demetrio Paolin.

    Morgana

  33. Francesco Terzago Says:

    Mi sto chiedendo tutto questo discorso di ‘teoria della letteratura’ dove possa portare – premettendo il fatto d’essere un ‘anti-filologo’: il mio timore è che si voglia a tutti i costi ragionare per insiemi che, forse, e dico forse, non hanno tutta questa necessità di essere definiti e per di più non sono dimostrabili empiricamente (ad ogni modo andrò a leggermi i testi dell’elenco che non fanno già parte della mia libreria, per poter dare un parere più corretto); forse, e continuo a dire forse, la tendenza di certi autori nostrani è quella che viene tracciata in questo interessante articolo, ma siamo poi sicuri che questa sia una novità?, o una cosa che di per sé sia così necessario sottolineare?, d’altra parte mano a mano che uno vive, volente o nolente, acquista una certa ‘esperienza’, (una realtà della non-esperienza non riesco a concepirla) subisce una didattica del mondo (in senso ampio, del luogo dove vive, del tessuto sociale in cui è legato, nella realtà storica in cui è immerso, e via discorrendo), e quello che noi viviamo e cerchiamo di definire non è altro che questo, il tratto comune (ai nostri occhi) quello che forse ora risulta essere ‘il modello vincente’, lo spirito del tempo – ma se devo rifarmi solo a questo passaggio: – Nell’era dell’inesperienza, ci sono dei narratori che decidono di dubitare di tutto ciò di cui hanno esperienza. Dopo aver dubitato e dubitato, scoprono che forse resta loro qualcosa, un resto, del quale non riescono nonostante tutti gli sforzi a dubitare. “Accidempoli”, pensano: “Sono un corpo dolente. E se sono un corpo dolente, ho esperienza. Di un’esperienza almeno, della esperienza di me come corpo dolente, non posso dubitare” – non è forse solo descrivere ogni percorso umano, che sia letterario e non? Alla fine le cose, più si va ad alto livello, più si assomigliano, come le lingue d’altra parte.

    A presto, complimentandomi con tutti per le interessanti riflessioni, Francesco T.

  34. girolamo grammatico Says:

    interessante discussione, ma credo che il succo sia nel vedere in un termine anglofono una non rappresentatività del nostro pensiero veteroumanistico. in poche parole la poesia delle nostre definizioni si annulla sempre più in tag di stampo americano che richiamano al tecnicismo del genere e non alla sua profonda introspezione artistica. poi che sia autofiction o no, basta solo mettersi d’accordo condividendo lignuaggi e strumenti.
    [io il cognome ce lo metto volentieri, ma pensavo che l’iprtesto, in quanto tale, fosse più esplicativo e identitario di una parola che può richiamare a tutto e niente]
    [prima che qualcuno lo chieda: sì, grammatico è il mio cognome, non è un nick]

  35. vibrisse Says:

    Francesco Terzago: dubito che ciò che ho scritto descriva “ogni percorso umano, che sia letterario e non”. Ne dubito perché, banalmente, incontro nella mia vita molte persone che hanno fatto o stanno facendo percorsi molto diversi. Incontro perfino persone che non dubitano di nulla, che in assoluta tranquillità assumono irriflessivamente sé stessi come misura del mondo. E questo mi pare un “percorso umano” del tutto diverso.

    Girolamo Grammatico: ma quale termine anglofono? La parola autofiction nasce in Francia. Vedi Wikipedia. Come si legge anche nel commento di Morgana (che propone una definizione di autofiction del tutto inadeguata per eccesso di genericità: sarebbe come dire che la pasta – quella cosa di cui vanno tanto ghiotti gli italiani – è “un cibo derivato da cereali macinati e cotti”. Vero, ma così non la si distingue dalla polenta, dal couscous, dal pane eccetera).

    No, non scriverò la voce autofiction della Wikipedia italiana. Mi pare di aver detto chiaramente che considero questa etichetta “sviante e svilente”, e comunque di nulla utilità analitica e critica.

    gm

  36. girolamo grammatico Says:

    Serge Doubrovsky ha coniato una parola in francia usando parole nate in altri luoghi, vorrei far notare che il neologismo nasce ad opra di un critico letterario formatosi in america [come dice il vostro amato wiki: Il a également été professeur à la New-York University] quindi la parola di cui evito di spiegare l’etimologia appartiena al ceppo anglofono.
    detto ciò io credo che siamo ancora troppo ancorati al pensiero dualistico in un’era in cui la logica fuzzy dovrebbe essere più pervasiva se desideriamo far fare una salto quantico alle arti di questo paese.

  37. Gianluca Todde Says:

    Ciao, io vorrei dire qualcosa di molto intelligente per essere preso in considerazione ma non saprei cosa dire… ora, certo, il bene il male, la sempiterna lotta è andata, non la posso reintrodurre. Cartesio è stato citato, i wuming sono stati criticati, Croce abbattuto. E se sostituissi una categoria con una categoria dicendo però che non è una categoria? Già fatto.
    Vabbè sarà per la prossima volta, speriamo di non aver fatto errori grammaticali, oh, ma quanto leggono questi, chi sarà poi sto Cartesio…

  38. demetrio Says:

    cosa mi convince molto è la parola “resto” proprio per i suoi indubbi riferimenti bibblici (mi pare che sia un brano del profeta Amos, che tra l’altro ha ispirato Dalla gola del leone di Sergio Quinzio).

    Nella recensione che Vasta fa al mio libro, parla di una tensione alla “ricapitolazione”. In un certo senso i libri che qui ha segnalato giulio sono testi che ricapitolano. Sono testi quindi che si pongono come se “si fosse prossimi alla fine delle cose”.

    sarebbero quindi testi apocalittici, ma siccome questo termine è svilito dall’uso, il riferimento al “resto”, che sarebbe il poco che dio riuscirà a salvare alla fine tempi, mi pare centrato.
    Questo per rispondere ad Ivano.

    “[…]la logica fuzzy dovrebbe essere più pervasiva se desideriamo far fare una salto quantico alle arti di questo paese.”
    che vuol dire?

    d.

  39. vibrisse Says:

    Nella foto: un giovanissimo artista spagnolo compie un salto quantico. Le antenne alle spalle servono a catturarne l’energia. Qui. gm

  40. girolamo grammatico Says:

    saltando il fatto che autofiction [oggetto della dissertazione di cui sopra, ma soggeto poco conosciuto a quanto pare] non è un termine fracofono, segnalo che in rete si trovano numerosi articoli su la logica fuzzy [molti approssimativi purtroppo, ma cmq utile a far passare il concetto], quindi piuttosto che copiare ed incollare posso dire quello che non è: non di sicuro il vecchio modo dualistico di pensare le cose. Bianco e nero, uomo e donna, bene e male. non è di sicuro la fossilizzazione del pensiero dietro la ricerca di etichette che soppiantino altre etichette. la logica fazzy è più una logica delle sfumature, non quella dei limiti [ne sensodi margine].
    un po’ come il salto quantico che quel bambino, da adulto, non farà se penserà che nel 2009 si può ancora ragionare in termini di bene e male, dentro e fuori. è una logica complessa perchè supera la filosofia analitica spicciola di cui è infarcila la nostra cultura che ancora cerca di spiegare la realta spiegando testi che la spiegano. Come dice Ferrarotti: non c’è niente di peggio per un libro, dopo averlo scritto, presentarlo con altre parole. E’ quello che siamo un po’ abituati a fare noi figlia dell’industria della cultura.
    girolamo grammatico

  41. Francesco Terzago Says:

    Quoto quanto detto da Grammatico nell’ultimo suo intervento, è una visione che non deve essere sottovalutata.

  42. vibrisse Says:

    In somma, Girolamo, il casino linguistico dei tuoi interventi sarebbe un esempio di logica fuzzy?

    “Serge Doubrovsky ha coniato una parola in francia usando parole nate in altri luoghi”. Sì, in Grecia e a Roma (autòs, greco; verbo latino fingere).

    Non mi risulta che “la nostra cultura” sia “infarcita di filosofia analitica spicciola”. Non mi risulta che “la nostra cultura” cerchi di “spiegare la realtà spiegando testi che la spiegano”.

    (All’incifca: quando una particella può acquisire o perdere solo certe quantità di energia, ovvero la quantità di energia che possiede cambia solo per “scalini” – ovvero per “quanti” – si parla di “salto quantico” ogni volta che una quantità finita di energia viene persa o acquisita. Ciò che i fisici chiamano “quantum”, nella lingua comune – e in tutt’altri contesti, beninteso – spesso si dice: “un tot.”. Le interpretazioni esoteriche del “salto quantico” abbondano, e si intensificano soprattutto in attesa della fine del mondo: prevista, come molti sanno, per il 2012).

    g.

  43. Francesco Terzago Says:

    Bah, che il contesto culturale in cui ci formiamo sia marcato da una certa sudditanza nei confronti di un sistema che si può definire quanto meno di impianto analitico penso sia comunque chiaro; basti pensare al fatto che si insegni ancora l’analisi logica nelle scuole, che poco o nulla ha a che fare con la linguistica contemporanea, stesso discorso vale per tutti quei comparti umanistici che, pur non avendone i mezzi, si auto-elevano a scienze, (e poi non sono niente di più che pseudo-scienze) senza poi portare l’esempio del sistema giuridico, che è, o dovrebbe essere una delle massime espressioni culturali di un paese, e lo troviamo tutt’ora basato sull’anteposizione tra accusa e difesa, dove a grandi linee il risultato ottenibile è: colpevole od innocente, in cui lo scopo ultimo è arrivare alla ‘verità’.
    Mi scuso per la divagazione.

  44. girolamo grammatico Says:

    quindi è una parola francofona? ma fiction non era inglese, dal latino fingere? e il sig. Serge Doubrovsky non insegnava in america?
    azz, che casino linguistico 😛
    cmq è ovvio che non tutta la nostra cultura è come cerchi di farmela definire [come è ovvio che non ho fatto uso di logica fuzzy in nessun commento], però qui il dualismo ha preso piede in una retorica anoacronistca forte. non voglio offendere nessuno, dico solo la mia in modo eSSoterico sperando che si faccia un salto in avanti grazie all’energia del pensare su più variabili. so che è difficile, ma basta tenere distinte: autoreferenzialità [di cui l’industria della cultura italiana è strapiena, dalla letteratura a molte altre arti] e narrazione, punto. che poi quest’ultima attinga al personale vissuto o meno, al dolore o no, al tutto o al resto è solo il tentativo di fare lobby fuori dai concetti, fuori dal raccontare. sono sicuro che se trovassimo un esperto di autofiction farebbe piazza pulita di metà delle nostre supposizioni e non dovrebbe neanche essere un genio: basterebbe un bel po’ di nozionismo e google!
    a bientot, je dois go!
    [perdonatemi, ma essendo a lavoro è dura tener testa a chi ha più tempo da passare in rete di me e nella fretta delirium incipientem]

  45. Flavia Piccioni Says:

    Fiction è una parola francese di radice latina, poi passata in inglese, con uno spostamento di accento, in seguito alla dominazione normanna.

  46. Marco Candida Says:

    Non capisco proprio che cosa c’entri Cartesio con il corpo. Cartesio dubitava nel fuoco che scoppiettava nel camino così come delle sue stesse mani che lo rinfocolavano. Quello che rimane in Cartesio è la pura cogitazione. Non il corpo. Anzi il corpo – il conoscere sensibile – è il primo a essere oggetto di dubbio. Non vedo proprio, Giulio, come la tua conclusione anche con un piccolo errore di battitura, sul corpo dolente, “al quale ci si riduce dubitanto e dubitando di ogni esperienza”, possa c’entrare con il riferimento iniziale a Cartesio.

  47. vbinaghi Says:

    @Giulio
    “Se c’è un corpo dolente, c’è chi introduce il dolere nel corpo; e costui lo chiamiamo: il Male. Se c’è un corpo dolente, e c’è il gesto con il quale cerchiamo di ripararci dal Male, questo gesto lo chiamiamo: il Bene.”

    Io questa frase l’accetterei più volentieri dal gestore di una beauty farm che da Giulio Mozzi, a meno che questa storia del corpo dolente come grado zero dello scrittura sia un modo per dirci che questa è l’unica forma di autenticità che ci è rimasta.
    In realtà l’unico romanzo che veramente risponde a questo azzeramento è quello che non hai citato, cioè “Prima di sparire” di covacich, che ho trovato tanto pregevole dal punto di vista atrigianale quanto esteticamente e moralmente ripugnante. Non conosco alcuni testi che citi qui ma secondo me l’ultimo Genna e l’esordio di Vasta sono tutt’altro che “anatomici”: pretendono di interpretare nella corporeità dolente di un protagonista un’epoca storica, e proprio per questo secondo me sono opere da segnalare. Come sono da segnalare anche alcune delle opere rubricate da Wu Ming1 nella categoria della New Italian Epic.
    Le chiacchiere sull’inesperienza sono glosse a Benjamin e ad altri profeti che pre-sentirono la vetrinizzazione del mondo senza averla ancora vissuta, ma ripetute oggi suonano false e grossolane. L’esperienza non ha a che vedere con una natura incontaminata, ma con un pensiero che non cerca sistematicamente la soddisfazione tecnica del desiderio ma ne accetta per esempio la sublimazione contemplativa nel linguaggio, quando non l’epochizzazione ascetica. Per questo, che ci si chiami Siti o Mozzi come chiunque altro, l’esperienza è nella storicità della coscienza e nel carattere eventuale e trascendente del linguaggio.
    Il punto vero è che l’immaginazione letteraria è parola, e in quanto tale contemporaneamente testimonia un corpo dolente ma anche la sua capacità di trascendersi nella storia. Quel che manca oggi è la credibilità delle grandi narrazioni del passato, cui intere generazioni si sono rapportate per leggere il presente, ma non la protensione a narrare il mondo narrandosi. Se mancasse questa, avremmo non la scrittura ma qualcosa di simile alle bave che le lumache si lasciano dietro senza nemmeno saperlo.

  48. aitan Says:

    Ancora fuori tema.
    Ho scorso ed ho trovato interessante la tua lettura trinitaria di due terzi della trilogia di Auster. Ti ringrazio di avermela indicata.
    Non sono certo che il Paul Auster che incontra Quinn sia proprio il diavolo, ma, diamine, sono stimolanti queste tue letture basate su punti di vista forti e ben esplicitati (mi chiedo solo da che derivi questo tuo tentativo di ridurre la realtà e la finzione in dicotomie – trinità versus diavolo, bene versus male -, però me lo chiedo a bassa voce, perché, in fondo, questa sarebbe materia di una critica psicoanalitica un po’ démodée che non avrei nemmeno gli attrezzi per affrontare).
    Io, dal mio piccolo, continuo a credere che l’inserimento dell’autore come personaggio narrativo contribuisca a dare verosimiglianza al narrato rendendo opaca la differenza tra realtà e finzione e, al tempo stesso, sia un mezzo per rinsaldare il patto narrativo strizzando l’occhio al lettore.

  49. cletus Says:

    Dopo aver letto questo pezzo, resto con l’espressione immortalata da Daniela Plata
    (qui: https://vibrisse.files.wordpress.com/2009/08/daniela_plata_postino8000011.jpg?w=400&h=623 ).
    Giulio, supportando le sue considerazione, cita dei testi che giudica “libri assai belli”. Ne ho letti alcuni. Mi sembra che la sostituzione di una definizione, se non allude al senso, si limita a cosa asfittica, cambiar nome e basta. “Autofiction” o “letteratura del resto”, prese a sé, restano etichette. Direi anche, lasciando da parte la dicotomia “male-bene”, “esterno-interno”, che il tentativo di definizione passa dall’autore. Quello che accomuna questa narrativa, è il bisogno di raccontare quest’Italia, semplicemente vivendoci e tenendo la mente e il cuore aperti. Poco importa se per farlo, si ricorra al proprio nome (talvolta, cognome). E’ la qualità il perno, la capacità di descriverla compiutamente, a partire dalla propria, onesta, capacità di interpretarla, anche bene in modalità “fuzzy”.

  50. vibrisse Says:

    Cletus: non la “sostituzione di una definizione”, ma la definizione di un’altra cosa. Questo mi pare di aver fatto. Non ho rinominato lo stesso oggetto, ma riflettedo su una categoria inefficiente mi è sembrato di intravedere una tendenza.

    Aitan, scrivi: “mi chiedo solo da che derivi questo tuo tentativo di ridurre la realtà e la finzione in dicotomie”. Be’, potrei riassumere un duemilacinque-duemilasettecento anni di storia culturale dell’Occidente, ma credo che sarebbe eccessivo (e Girolamo Grammatico mi bacchetterebbe all’istante). La psicoanalisi non serve.

    Scrivi ancora: “’inserimento dell’autore come personaggio narrativo contribuisca a dare verosimiglianza al narrato rendendo opaca la differenza tra realtà e finzione e, al tempo stesso, sia un mezzo per rinsaldare il patto narrativo strizzando l’occhio al lettore”. Potrei impegnarmi a sostenere che una letteratura che “strizza l’occhio al lettore” è, proprio perché fa questo, letteratura di merda. L’ultima persona che mi ha strizzato l’occhio è stata una tipa – una di un gruppo di tre tipe -, ieri sera, alla fermata dell’autobus. Che poi mi si è avvicinata e mi ha detto: “Scopare? Io, o queste mie amiche”.

    Girolamo Grammatico: “sono sicuro che se trovassimo un esperto di autofiction farebbe piazza pulita di metà delle nostre supposizioni”. Be’, io sono un esperto di autofiction. Nessuno in Italia la fa meglio di me.

    Valter Binaghi. Scrivi: “In realtà l’unico romanzo che veramente risponde a questo azzeramento è quello che non hai citato, cioè Prima di sparire di Covacich, che ho trovato tanto pregevole dal punto di vista artigianale quanto esteticamente e moralmente ripugnante”. In effetti non l’ho citato perché l’ho trovato tanto pregevole dal punto di vista artigianale quanto esteticamente e moralmente ripugnante.

    Scrivi ancora: “Le chiacchiere sull’inesperienza sono glosse a Benjamin”, eccetera. Citando Scurati e Covacich, nell’articolo, scrivevo: “Né Covacich né Scurati dicono cose particolarmente originali”, eccetera.

    Su ciò che dici da “Il punto vero è che l’immaginazione letteraria è parola”, hai voglia, Valter, di scrivere un intervento più esteso per vibrisse? (O di citare un tuo intervento già scritto).

    Marco Candida: “Non capisco proprio che cosa c’entri Cartesio con il corpo”. Nulla. Io ho messa in piedi un’analogia tra il gesto di dubitazione di Cartesio e il gesto di dubitazione di altre persone. L’analogia è tra i gesti, non tra la conclusione di Cartesio e le conclusioni di queste altre persone. (Esempio. Se io dico: “L’automobile svolge oggi le funzioni che svolgeva una volta il cavallo”, e uno mi risponde: “Non capisco che c’entri il cavallo con l’automobile: il cavallo ha le zampe ed è un vivente, l’automobile ha le ruote e non è un vivente”, ho il sospetto che ci sia un’incomprensione intenzionale).

    giulio mozzi

  51. aitan Says:

    Sui duemilacinque-duemilasettecento anni di storia dicotomica (e magari anche un po’ manichea) dell’Occidente, posso anche concordare (e magari si inserisce anche la psicoanalisi nella storia dei dualismi occidentali e nei tentativi hegeliani e post-hegeliani di sintesi). Ma, sinceramente, questo è un argomento che in questo momento non mi appassiona.

    Quanto alle strizzatine d’occhio al lettore, io non le vedo così negative, magari un po’ zoccole sì, ma non così negative. Secondo me, Cervantes strizza continuamente l’occhio al lettore, gli lancia continui segnali allusivi, a volte perfino gli dà gomitate nei fianchi in segno di intesa; secondo me, faceva lo stesso Manzoni coi suoi dodici lettori. A dirla tutta, io credo che di tanto in tanto ammiccasse anche Omero e di continuo lo facesse pure Dante. E’ una tradizione lunga, che ritroviamo anche nel cinema, con Hitchcock, Truffaut, Fellini, Buñuel e Woody Allen, che è l’apoteosi dei registi ammiccatori che si fanno personaggi e fanno finta di entrare e uscire dalla parte.
    Insomma, io no, non ci vedo nulla di male a lanciare segni di intesa al lettore, magari anche sapendo che saranno raccolti solo da quattro lettori su dodici. Secondo me si faceva così anche quando si raccontava al fuoco di un camino. Immagino che anche allora, di tanto in tanto, si facessero delle allusioni che sarebbero state raccolte solo da determinati gruppi di ascoltatori (per esempio dagli adulti, o dai familiari, o dai compagni do lavoro) e immagino pure che qualche volta si strizzasse l’occhio alla ragazza più bella per sottolineare le scene più romantiche o sensuali.
    Scusami la lunga digressione. Ma forse qui mi sento come se fossi intorno a quel camino e ognuno raccontasse la sua.

  52. vibrisse Says:

    Mi auguro solo che il camino sia spento, e che qualcuno provveda ai ghiaccioli. g.

  53. aitan Says:

    Non escludo che sia stato proprio questa calura d’agosto a farmi sentire intorno a quel camino e riscaldare la testa e i pensieri.
    (Poi pensavo a Proust, Sant’Agostino, Quentin Tarantino e Shrek, ma giuro che questi pensieri me li terrò per me.)

  54. Francesco Terzago Says:

    Anche Salinger, e per venire al cinema, come dimenticare Amarcord di Fellini.

  55. vbinaghi Says:

    Giulio, scrivere un pezzo per Vibrisse per me sarebbe un onore, e lo farò senz’altro se questi, già apparsi sul mio blog, non ti paiono abbastanza chiari sull’argomento.
    http://valterbinaghi.wordpress.com/2009/06/20/indizi-di-conoscenza24-il-triplice-sacrificio-che-conduce-all%E2%80%99arte-di-valter-binaghi/

    http://valterbinaghi.wordpress.com/2009/07/29/indizi-di-conoscenza37-la-conoscenza-sensibile-dall%E2%80%99immagine-all%E2%80%99opera-d%E2%80%99arte-di-v-binaghi/

  56. Marco Candida Says:

    Giulio, scrivendo “L’automobile svolge oggi le funzioni che svolgeva una volta il cavallo”, stai dicendo che i narratori di cui hai fornito una veloce campionatura svolgono la stessa funzione di Cartesio, e questo ‘solo perché dubitano di tutto’? Oh, molto bene. Allora consideratemi Michael Bolton, perché al mattino sotto la doccia canto che è un piacere!

  57. Marco Candida Says:

    Tra l’altro scrivi nel testo in conclusione “ci si riduce dubitando e dubitando di ogni esperienza”. “Ci si riduce”. Non “i narratori del resto si riducono”. Oh, intendiamoci, c’è anche altro che si potrebbe dire su questo testo.

  58. vibrisse Says:

    Marco. Alla prima: fanno una operazione simile.
    Alla seconda: è una forma impersonale per indicare i narratori dei quali parlo – e quelli che non cito, e ce ne saranno, che fanno una simile operazione. Mi pare grammaticalmente corretto:
    E: aspetto l’ “anche altro che si potrebbe dire su questo testo”. Se vuoi scrivere un articolo vero e proprio, volentieri lo pubblico.

    gm

  59. Gianluca Minotti Says:

    Io credo la letteratura per definirsi tale debba comunque sempre fare i conti con Il Male, ma ciò non significa che debba essere “dolente” (essere “pesante”, intendo).
    E rivendico una cosa, semplicissima: deve essere un artificio.
    Anche nei casi più smaccati di autobiografia, se funziona non è perché è vera, non è l’aderenza alla realtà che ne stabilisce il valore, ma il contrario.
    Le biografie inventate di personaggi nati dalla penna di Borges, Bioy Casares o Bolano, perdono qualcosa per il solo fatto che sono personaggi inventati?
    Quando ci si mette in gioco in una narrazione (quando si usa il proprio nome e cognome e caratteristiche, fatti, eventi tratti dalla propria vita reale), ci si tratta comunque come dei “personaggi”, per cui io non riesco a vedere tutto questo sconvolgimento o rivoluzione epocale…

  60. Giuliana Eccelsi Says:

    Buongiorno a tutti, scusate se mi intrometto, ma non ho potuto fare a meno: condivido l’articolo di Mozzi in pieno. Intendiamoci, parlo da lettrice, accanita sì, ma sempre e solo da lettrice.
    Le etichette e le categorie hanno l’unico fine di indicare: se non con precisione, quasi. Se mancano questo fine, sono inutili e le cose inutili vanno buttate via (lo dice il buon senso!). “Autofiction” è un’accezione talmente vasta e nel caso del romanzo. quasi tautologica, che non ha senso di esistere, a mio modesto avviso. “Narrativa del resto” è invece indicativo di una tendenza a trovare un minimo comune denominatore di esperienza vissuta con noi lettori, che si usi o meno se stessi come protagonisti. aggiungerei.
    Da lettrice, infatti mi domando se la ricerca di un minimo comune denominatore non sia in se’ quello che ogni scrittore dovrebbe fare, visto che in teoria, se scrive un libro, lo scrive per comunicare con i lettori. Ma non vorrei addentrarmi in campi che non mi competono, adesso. Posso solo dire, che se dovessi andare in libreria per comprare non un classico, ma un buon romanzo italiano contemporaneo, cosa chiederei alla commessa? Al limite potrei chiedere un buon giallo, un buon noir (che pure sono etichette così strette), o cercando di essere più discorsiva, potrei chiedere un romanzo tratto da una storia vera, un romanzo sociale,politico, autobiografico, toh, ma potrei chiedere secondo voi, un buon romanzo di “autofiction”? Anche solo immaginando che la commessa conosca l’inglese, avrebbe sufficienti dati per stabilire quale libro vendermi, secondo voi?
    Un caro saluto

  61. Ivano Porpora Says:

    Dico la mia sulla strizzatina d’occhio.
    Concordo sul fatto che la strizzatina d’occhio al lettore sia letteratura di merda (non la chiamerei così solo perché a me piace dire che lo scrittore debba produrre merda, e io, la mia merda, la produco in Georgia corpo 10, ma diciamo che l’espressione letteratura di merda è ben comprensibile).
    Quella che citi, aitan (a proposito: Ué!, come stai?), è letteratura e cinematografia che si permette sguardi in macchina. Pasolini ne parla – credo che affrontasse la letteratura russa – in Descrizioni di descrizioni; per i film c’è quanto hai detto e altro (anche se toglierei Shrek per pura antipatia e metterei i Simpson). Credo che una delle scene che più mi han colpito di Allen sia la sequenza in cui una splendida Charlotte Rampling guarda in macchina (Stardust Memories, d’accordo), in un montaggio frenetico. Quello è sguardo in macchina.
    Demetrio Paolin fa quello, in continuazione, e forse anche Falco, in un singolo episodio del suo libro. Mi sembra lo faccia la Patelli (ma voglio avere il tempo materiale, scusate la non voluta citazione, per leggerla e sentirla per intero). Dadati mi sa che siamo in tanti che lo stiamo aspettando.
    Questi non sono sgomitini, ma sguardi. Presentarsi all’interlocutore, ché forse in questo caso il lettore ne viene rafforzato, e dire Sono io, nudo: e mò?. E la nudità presuppone difetto, senso e corporeità. Presuppone feci e urine, presuppone digestione ed eiaculazione e non, mai, sgomitini. Sorrisi sì (che diamine!), ma il sorriso non è che altro gesto.
    Poi ci son pensieri lunghi su quel che penso sia il mio, di compito (io la chiamo missione), ma magari, spero, se ne parlerà un dì.

  62. aitan Says:

    (Insisto, Invano, (e insistendo cerco di chiarire e chiarirmi): a mio modo di vedere, esistono strizzatine che mirano ad adescarti e strizzatine che cercano complicità con il proprio interlocutore. Si può ammiccare anche in segno o in cerca di intesa. Insomma, non tutti gli occhiolini sono fatti per ingannare e non tutte le acque tendono ad affogarci.
    Gli sguardi in camera li facevano anche i pittori, soprattutto i maestri barocchi del Siglo de Oro. Ammiccano Cervantes e ammicca Calderón. Forse per questo si nota una tendenza così forte nella letteratura di lingua spagnola. Gianluca Minotti, qui sopra, cita a proposito Borges, Bioy Casares o Bolaño (io preferisco riferirmi a Juan Goytisolo e Sergio Pitol, ma qua gli esempi potrebbero essere davvero molteplici, e qualche volta gli autori-personaggio sono rimbalzati anche da un romanzo all’altro e perfino da un autore all’altro).
    Ecco, forse apparentemente Goytisolo si mette a nudo e Bioy Casares no, forse Derek Jarman ci mostra le sue viscere e Quentin Tarantino no. Ma non misurerei la qualità in base ai centimetri di pelle, carne ed escrementi esposti. Anche se io, personalmente, preferisco Goytisolo a Bioy Casares, Jarman a Tarantino e Bacon a Velázquez.
    Ma sto facendo una grande confusione e smentendo un mio giuramento. E tu, Ivano, che un po’ mi conosci, sai che questo volevo fare e, allo stesso tempo, volevo mettere in mostra anch’io qualche penna di pavone asfissiato da un calore che non fa dormire.)

  63. Lucio Angelini Says:

    Direi che la vera tendenza letteraria emersa negli ultimi tempi è quella di inventare tendenze letterarie a partire da se stessi e dai propri amici (l’esempio più clamoroso: il New Italian Epic). In my humble opinion: pure seghe di cui ai lettori non può fregare di meno.

    P.S. “Letteratura del resto (del Carlino?)”, poi, è orrendo.

  64. vibrisse Says:

    Lucio, abbiamo capito che il New Italian Epic ti va storto. L’hai già detto. Non occorre che lo ripeti tutti i giorni. Fammi questo piacere. giulio

  65. Lucio Angelini Says:

    Veramente ho detto un’altra cosa, ma non importa. Che ognuno si ritenga esponente del movimento che gli è saltato in mente nel corso della notte.

  66. vbinaghi Says:

    Invece io rispetto molto il desiderio di categorizzare, anche se spesso intervengo per criticare il perimetro o la natura della tendenza in oggetto. Corrisponde non solo a una ricerca d’identità e distinzione propria o dei propri sodali, ma anche a un genuino tentativo di enucleare poetiche, di chiarire a sè stessi un programma letterario. Però credo che tentativi del genere avrebbero bisogno di un’estetica preliminare, una riflessione su cosa sia l’arte o la scrittura, cosa distingua l’autentico dall’inautentico e solo in seguito provare a comprendere quali forme epocali la letteratura tenda ad assumere.
    Di solito si evidenziano delle Diadi: ad esempio da una parte l’umiltà sincronica del corpo dolente, dall’altra parte la diacronia dell’allegorismo nell’esteso campo della storia. Testimonianza e fiction. Ma non solo: penso all’intervento di Magliani, al suo partire da un paesaggio dell’anima (la sua liguria) per intendere l’universo come da quella lente, contrapposto per esempio ad uno come Avoledo, che colloca sempre nel suo Friuli ma è un friuli molto poco vernacolare, tendenzialmente cosmopolita, potrebbe essere il New Jersey. E comunque, rileggendo Bachtin, mi sembra sempre più evidente che le categorizzazioni più profonde il letteratura siano possibili sempre a partire dal diverso modo di declinare il tempo e lo spazio, da cui i diversi movimenti dall’interno all’esterno o viceversa. Non ti pare, Giulio, che, al di là della contingenza culturale, queste forme abbiano in sè qualcosa di archetipico, cioè corrispondano innanzitutto alle grandi polarità della caratterologia spirituale?

  67. riccardo ferrazzi Says:

    Dopo tanti discorsi che hanno sviscerato la questione, tendo a stare dalla parte di Marino Magliani. Non si può parlare se non di ciò che ci ha colpito. A partire dallo stupore di un incontro inaspettato si ricostruisce un mondo, un romanzo. Che poi l’io dell’autore affiori più o meno, che lo schematismo bene-male sia più o meno pronunciato, può essere un fatto contingente.

  68. giorgio fontana Says:

    ciao giulio, intanto una domanda preventiva.

    scrivi: “Nell’era dell’inesperienza, ci sono dei narratori che decidono di dubitare di tutto ciò di cui hanno esperienza eccetera”.

    la mia domanda preventiva è: a tuo avviso l’avvento “narrativa del resto” è realmente connesso con una presunta “era dell’inesperienza”? (cioè, la seconda ha in qualche modo innescato tale narrativa?)

    questo perché l’idea di una “era dell’inesperienza” non mi convince quasi per niente. e volevo capire quale fosse il rapporto fra una data tendenza (della quale esistenza concordo) e una sua causa culturale (che invece non trovo realistica, almeno nei termini espressi da scurati).

    grazie.

    giorgio

  69. Lucio Angelini Says:

    Insisto: “narrativa del resto” fa ridere i polli di per sé, come etichetta. Se fossi Shakespeare, a un giovane scrittore che si dichiarasse militante nella ***narrativa del resto***, ricorderei amleticamente: “Il RESTO è silenzio.”

  70. arvicola Says:

    Un po’ in ritardo e un po’ OT, ma sono curioso; Binaghi e Mozzi: in che senso e in che modo Prima si sparire sarebbe “esteticamente e moralmente ripugnante”?
    M. Pellegrini

  71. Marco Candida Says:

    Giulio, mi replichi: l’operazione del dubitare è la stessa tanto in Cartesio quanto nei narratori del resto, anche se porta a esiti diversi. I narratori del resto approdano a ciò che Cartesio fa fuori subito in prima istanza ossia il corpo: l’esperienza sensibile. Ora, naturale che questo l’avevo capito da me. Eppure, io, cocciuto e protervo fino in fondo, ti ripeto: che c’entra Cartesio in un articolo dove si parla di corpo e di letteratura? Oh, poi uno può ben sostenere che Cartesio è come i narratori del resto, così come può a tutto e pieno diritto affermare che una pera è come una mela. E se qualcuno si prova a fargli notare che forse non è proprio così, quello può sempre aggiungere: eh, ma perché entrambi compiono la stessa operazione, ossia dubitano! Oppure: eh, ma perché entrambi appartengono alla stessa categoria, ossia la frutta!

  72. Marco Candida Says:

    Per spiegarmi, spero, definitivamente , esistono tanti tipi di dubbio così come esistono tanti tipi di frutta. Per questa ragione respingo il paragone che fai tra il dubitare cartesiano e il dubitare dei narratori del resto.

  73. vbinaghi Says:

    @arvicola
    E’ sempre difficile enucleare concettualmente un’esperienza estetica, così come quella del valore o disvalore morale, ma ci provo. In quel libro (per ammissione dell’autore autobiografico: racconta l’abbandono della moglie per un altra donna, con nomi e cognomi veri di protagonisti e comprimari), l’impossibilità di elaborare in qualsiasi modo accettabile (lutto, pentimento o autoassoluzione) il dolore inflitto ad altri e la propria impotenza morale si risolve nell’esibizione pubblica di questa ferita aperta, che prova a spacciare come spietata sincerità e invece è pornografia. Pornografica è la cupa determinazione a mostrare tutto, nei minimi dettagli, ma il tutto ridotto a “cosa”, corpo umiliato nella pura fattualità, una deprivazione di cui ci si compiace e che si prova addirittura a proporre come modello di rappresentazione, cercando l’assoluzione estetica non dell’opera ma dell’uomo che non si è riusciti ad essere. Se “il bue squartato” di Rembrandt è un’episodio nella storia del realismo in pittura, questo romanzo di Covacich mi è sembrato soprattutto un colpo inferto da un cattivo ideologo (tanto più colpevole in quanto scrittore raffinato) alla realtà dell’umano.

  74. arvicola Says:

    Binaghi: grazie per la risposta, ma ancora non capisco se la ripugnanza nasce dalla cosa in sè o dalla sua pubblica esibizione. (Se dalla cosa in sè, la pubblica esibizione è in qualche modo coerente; se invece è la pubblica esibizione a ripugnare è solo questione di scelta, del lettore, di affacciarsi o meno su una vicenda privata – del resto, a mio parere, statisticamente abbastanza comune, ma descritta con amore e dolore, insomma efficacemente).

  75. Marco Candida Says:

    Poi, c’è la questione del “corpo dolente” e della definizione “narrativa del resto” contrapposta a “autofiction”.

    Dubitando e dubitando i narratori del resto – secondo la tua “descrizione” – battono la testa contro qualcosa che è solido e si fermano: qui c’è un braccio, lì una gamba, là un piede. Tanto basta. Così come Cartesio, io ho dubitato, e lo so che da Cartesio in avanti c’è stato qualcuno che s’è messo a dire che un candelabro o uno specchio o un serpente mi appaiono così, ma sono un insieme di elettroni e campi gravitazionali, puntini e striscioline, ma, poffarbacco!, senti qua, toc toc!, il mio dubitare cartesiano mi ha portato dove sento duro, e oltre non c’è bisogno di andare. Quello che mi rimane è la mia carne. Da qui posso ripartire, e raccontare. Così tu presenti i narratori del resto.

    Ammesso che sia così, ossia che loro la pensino così, c’è però un problema. Se è il corpo dolente il punto dal quale partire, la mia carne, e ciò che alla mia carne arriva e ciò che dalla mia carne esce, perché mai poi mi verrebbe in mente di negare che quelle esperienze vengono dalla mia carne? Perché dovrei negare che quello sulla pagina sono io? Si chiama Mario Rossi come me ma non sono io! Ha la mia stessa biografia, ma non sono io! Ha fatto le mie stesse esperienze attraverso la carne, ma non non sono io – e quel “io” significa che quella non è la mia carne! Perché dovrei negare che quello sono io? Questa è una domanda alla quale mi pare la tua definizione di “narrativa del resto” non risponde, e a cui, invece, “autofiction” sì. E’ più importante riconoscere e mettere insieme autori che negano di essere se stessi con note, prefazioni, eccetera (forse perché semplicemente hanno defintivamente accettato che qualsiasi tentativo di descrizione, racconto è di per se stesso un atto finzionale compresa la propria autobiografia) oppure autori che scoprono che è il corpo dolente ciò che rimane e il punto dal quale poter partire e raccontare?

    Non discuto che i romanzi che citi siano assai belli. Mi pare però ti sia dimenticato di Cibo di Helena Janeczek e magari anche di Non vi lascerò orfani di una certa Daria Bignardi, che vende molto, e che è molto molto letta, e che non mi è parso il solito libretto. Poi ce ne sono altri.

    Aggiungo che voler sconfessare un intero movimento critico (quello dell’autofiction) che almeno è fatto di una bibliografia (quindi di qualche buon libro, fatto di pagine, e di diversi autori) con un post di qualche decina di righe fornendo una veloce campionatura di nomi mi sembra una pretesa troppo grande.

    Ho raccolto in questo modo la tua richeista di scrivere qualcosa sull’argomento. Era doveroso che lo facessi.

    Mi aspetto che ti difendi con le unghie e con i denti!

    ciao!

  76. vbinaghi Says:

    @arvicola
    La “cosa in sè” sarebbe vita privata e non mi permetterei mai. Ovviamente parlo del romanzo, e del movimento esplicito con cui il privato viene trasferito nel romanzo, in una forma che mi ricorda la “body art” e che trovo come quella ripugnante.

  77. Lucio Angelini Says:

    Anzi no: il resto mancia.

  78. vibrisse Says:

    Per Marco Candida. Scrivi: “Perché dovrei negare che quello sono io?”. E infatti, mi pare bizzarro “negare che quello sono io”.
    Circa la “pretesa troppo grande”, rimando alla parola “tentativo” che c’è nel titolo dell’articolo.
    Giusto mi pare citare “Cibo” di Helena Janeczek. Non ho ancora letto (ma è nello scaffale dei libri da leggere) il libro di Daria Bignardi.
    Non ho ragioni per “difendermi con le unghie e con i denti”. Mi è parso di intuire qualcosa, e l’ho detto. Posso essermi sbagliato.

    Per Giorgio Fontana. Ho usato le parole “era dell’inesperienza” semplicemente perché sono le parole con le quali oggi, nei giornali, si nomina una certa cosa. La formulazione di Scurati non mi pare particolarmente felice.
    Ho l’impressione che ci sia una correlazione significativa tra il vivere sempre più in un mondo artefatto – nel quale anche il corpo diventa sempre più un artefatto ricco di protesi – e un movimento reazionario che tenta di “toccare il corpo”.

    Per Valter Binaghi. Domandi: “Non ti pare, Giulio, che, al di là della contingenza culturale, queste forme abbiano in sè qualcosa di archetipico, cioè corrispondano innanzitutto alle grandi polarità della caratterologia spirituale?”. Non lo so. Io vedo la contingenza culturale.

    Per Lucio Angelini. Ho capito: l’espressione “letteratura del resto” non ti piace. Non serve che tu lo ripeta.
    Cercar di descrivere una “tendenza” è tutt’altra cosa che fondare, propagandare eccetera un “movimento”.
    Non è in preparazione un’antologia in Stile Libero intitolata “La letteratura del resto”, ecc.

    Per Arvicola. Alla domanda su Prima di sparire risponderei esattamente ciò che ha scritto Valter Binaghi.

    giulio mozzi

  79. sandra petrignani Says:

    Resto abbagliata dalla fiducia che comunque esprimi nella letteratura. E non parlo di giudizi di valore (sui quali siamo lontani miglia), ma proprio in generale. Beato te

  80. Patrizia Giulia Parisi Says:

    Che differenza fa se sono fatti propri sognati o fatti propri accaduti?
    L’occhio che guarda registra solo ciò che lo riguarda.

    La realtà è piena di ebbrezza fittizia perché “il corpo è senza dimora” e il principium individuationis ha perso la misura, asserragliato nel cerchio del suo corpo dolente

  81. Lucio Angelini Says:

    ***”Accidempoli”, pensano: “Sono un corpo dolente. E se sono un corpo dolente, ho esperienza. Di un’esperienza almeno, della esperienza di me come corpo dolente, non posso dubitare”***

    Nanni Moretti, bontà sua, trasformò l’Ecce Homo in Ecce Bombo*-°

  82. Roberto Tossani Says:

    mah.

  83. arvicola Says:

    Binaghi (e Mozzi), scusate se insisto, ma la faccenda secondo me ha una certa importanza. Dunque.
    Qualsiasi privato se trasferito in narrazione pubblica è ripugnante? Se sì, è ripugnante una fetta significativa della letteratura narrativa; se no – e, nello stesso momento non si considera ripugnante la specifica “cosa in sè”, ovvero la vicenda narrata in Prima si sparire – allora significa che vi sono vicende private non ripugnanti che si possono, senza ripugnanza, pubblicamente narrare e vicende private ugualmente non ripugnanti che invece ripugna pubblicamente narrare. Ho capito bene? Se sì, qual’è il discrimine?
    M. Pellegrini

  84. Lucio Angelini Says:

    Il vincitore del superEnalotto da 146 milioni di euro: “Accidempoli”, pensa: “Sono un corpo che esulta. E se sono un corpo che esulta, ho esperienza. Di un’esperienza almeno, della esperienza di me come corpo esultante, non posso dubitare.”

    La sua parola contro la vostra.

  85. vibrisse Says:

    Arvicola, la risposta alla tua domanda: “Qualsiasi privato se trasferito in narrazione pubblica è ripugnante?” è, ovviamente: “No”.

    Alla tua domanda “qual è il discrimine”, Valter Binaghi ha già risposto poco fa, qui.

    giulio mozzi

  86. rosella Says:

    caro giulio, io vorrei chiedere solo una cosa: esiste una letteratura che non parli del Male (e del Bene)? perché io ci penso e non mi vengono in mente esempi, né di ora né del passato. credo che la letteratura parli da sempre proprio di quello, e che lo faccia passando per i corpi dolenti perché si passa dai corpi per raccontare delle storie, dato che il corpo è il nostro (unico) mezzo per avere esperienza del mondo. sull’autofiction sai benissimo cosa penso, perché ne abbiamo anche parlato a voce, una mattina. tuttavia, questa bellissima definizione di letteratura del resto mi sembra solo e semplicemente la letteratura tout court, non una tendenza attuale, né legata all'”inesperienza” del mondo per come la intende scurati, né limitata agli autori che hai menzionato, fermo restando che tu stesso non intendi farne un elenco esaustivo. hai tentato di rigettare l’etichetta autofiction e il risultato è che nel dibattito, per quel che velocemente ho visto, si è parlato in prevalenza di quello… invece, mi piacerebbe parlare del resto: appunto.

  87. vibrisse Says:

    Rosella, scrivi: “sull’autofiction sai benissimo cosa penso”. Ma non lo sanno lettrici e lettori di vibrisse.

    Descrivere una “tendenza” significa indicare alcune opere, prossime nel tempo e nello spazio, nelle quali un “qualchecosa” avviene non esclusivamente ma con particolare intensità e visibilità. Tra i corpi di Omero, che sono degli standard di bellezza descritti con formule fisse, e il corpo di Leopold Bloom che va di corpo nel capitolo terzo dell’Ulisse, mi pare che ci sia qualche differenza. Tra il corpo di Emma Bovary e il corpo del protagonista di Tetsuo, mi pare che ci sia ancora più differenza. Tutto qui.

    giulio

  88. arvicola Says:

    vbinaghi: “…l’impossibilità di elaborare in qualsiasi modo accettabile (lutto, pentimento o autoassoluzione) il dolore inflitto ad altri e la propria impotenza morale si risolve nell’esibizione pubblica di questa ferita aperta, che prova a spacciare come spietata sincerità e invece è pornografia. Pornografica è la cupa determinazione a mostrare tutto, nei minimi dettagli, ma il tutto ridotto a “cosa”, corpo umiliato nella pura fattualità, una deprivazione di cui ci si compiace e che si prova addirittura a proporre come modello di rappresentazione, cercando l’assoluzione estetica non dell’opera ma dell’uomo che non si è riusciti ad essere.”
    Stiamo parlando di questo? D’accordo, ma queste sono – rispettabilissime – opinioni. Credevo si stesse blandamente cercando un qualche paradigma più largamente condivisibile per “forza propria”, per così dire. Opinione per opinione: non rilevo nel romanzo in questione alcuna “impotenza morale”, nè pornografia, nè cupezza, nè umiliazione, nè deprivazione, insomma niente di niente di ciò che scrive Binaghi, ma viceversa: una vicenda comune, che appartiene all’esperienza di molte persone, narrata senza nascondere il dolore ma con amore, sincerità, partecipazione, luminosità, anche, senza ostentazione, esibizione, spietatezza, impudicizia; nonostante non fosse facile. Che poi ci siano nomi e cognomi reali è irrilevante per chi non conosce le persone reali; del resto per chi le conosce sarebbe stato irrilevante averli camuffati.
    M. Pellegrini

  89. Paolo Zardi Says:

    In “Prima di sparire”, sono sviluppate due storie parallele, unite dal fatto che il protagonista di una (quella autobiografica) è l’autore dell’altra (che invece è pura fiction).

    In che modo si relazionano le due parti? Ad un primo livello, entrambe parlano di rapporti che si distruggono a causa della scelta unilaterale di una delle parti. Tuttavia, io credo che il legame più profondo abbia a che fare proprio con la definizione di che cosa sia la cosiddetta ‘autofiction’ per Covacich: e cioè un’opera d’arte dove il corpo dell’autore viene usato come materia prima.

    Nella parte fiction di “Prima di sparire”, un ex maratoneta gira il mondo presentando la sua “installazione”, che consiste in una piattaforma nella quale lui corre fissato a dei sensori che proiettano le misure della fatica e della sofferenza su un enorme schermo.
    Nella parte autobiografica, Covacich registra e riporta sulla pagina, in modo quasi scientifico, come la sua vita, e il suo corpo, vengano travolti da un amore fuori controllo. Il vomito, il peso che crolla, il dolore insopportabile per il ritorno all’attività fisica: tutto viene descritto con lucido distacco.
    Il senso del mettere l’autore dentro la storia, invece che lasciarlo fuori come mero spettatore, non risponde ad un desiderio di narcisistica narrazione autobiografica, o alla necessità di aggiungere maggiore realismo alla fiction: punta, invece, ad usare il corpo dell’autore fino in fondo, trasformandolo nel materiale di cui è fatta la rappresentazione stessa. Covacich non è semplicemente il nome del protagonista, e i fatti narrati non sono una dettagliata ricostruzione di un pezzo della sua vita “vera”: Covacich è il maratoneta che si infila un tubo in gola per misurare, senza alcuna mediazione, la soglia del proprio dolore, e la sua vita è una installazione artistica messa sotto un vetro ed esposta. E in questo senso, mi pare che le due visioni – quella di Mozzi presentata qui, e quella di Covacich raccontata nel libro – abbiano diversi punti di contatto. Sbaglio?

  90. vibrisse Says:

    Scusa, Arvicola. Dici che il libro di Covacich è scritto con “sincerità”. Come fai a saperlo?

    gm

  91. arvicola Says:

    “Scusa, Arvicola. Dici che il libro di Covacich è scritto con “sincerità”. Come fai a saperlo?
    gm”

    Non lo so, effettivamente. Ma parto dal presupposto che vi sia una notevole somiglianza di sentimenti fra gli individui (perlomeno quelli che vivono nello stesso tempo, cultura eccetera) e che la storia raccontata da Covacich sia molto comune; da questi due dati, incrociati con le esperienze reali di persone reali, posso inferire la sincerità. Comunque se sincerità è parola troppo grossa, diciamo verosimiglianza? …Però fino a estremamente probabile mancanza di ipocrisia ci arriverei.
    M.Pellegrini

  92. vibrisse Says:

    Non lo sai: quindi non lo sai. Cioè non sai se quando hai detto che il libro di Covacich è scritto con “sincerità” hai detto il vero o hai detto il falso.

    Poi: “sincerità” non è una “parola grossa”. Ma è tutt’altra cosa dalla “verosimiglianza”.

    La sincerità è un atteggiamento morale che si fonda sulla determinazione di non mentire.

    La verosimiglianza è la proprietà ciò di che ha l’aspetto del vero, che può essere vero o può essere ritenuto tale.

    Un racconto può essere sincerissimo e inverosimile. O verosimilissimo e del tutto inventato.

    Sincerità e verosimiglianza, insomma, non sono “gradi” di una stessa proprietà. Sono proprietà diverse. E, per di più, sono proprietà di cose diverse: sincera è la persona (e se si dice che un racconto è sincero si fa un traslato, perché si intende che è sincera la persona che l’ha scritto); mentre verosimile è il racconto (e se si dice di una persona che è inverosimile si fa un traslato, perché si intende che è una persona tale che, se ce ne parlassero, stenteremmo a credere alla sua reale esistenza).

    Credo che sia sensato valutare la verosimiglianza di un racconto (e il romanzo di Covacich mi pare proprio verosimile); mentre trovo che sia quantomeno problematico pretendere di valutare la sincerità dell’autore.

    Io so che Covacich ha raccontato alcuni avvenimenti, ai quali ero presente, esattamente come io li ricordo. Posso pensare per questo che Covacich sia stato “sincero”? Secondo me, no. Se non altro perché non so nulla di ciò che Covacich ha omesso di raccontare. E (ancora) se non altro perché non so nulla (e nulla posso sapere) delle intenzioni di Covacich: come noto, si può mentire (cioè non essere sinceri) anche dicendo (parzialmente) il vero.

    E quindi, semplicemente, trovo più pratico non pormi il problema.

    Se Covacich avesse scritto non un romanzo, ma un altro tipo di testo (ad esempio una confessione), la faccenda sarebbe stata tutta diversa.

    gm

  93. morganasuppo Says:

    Verissimo. Ovunque ci sia qualcosa di inventato o qualcosa di volutamente omesso non vi è sincerità.

  94. Morgana Says:

    Ovunque ci sia qualcosa di inventato o qualcosa di volutamente omesso non vi è sincerità.

  95. arvicola Says:

    Una narrazione sincera è altro da una persona sincera. Una narrazione sincera cerca, tenta, di narrare senza filtri ideologici o morali, pur tenendone conto. Per i motivi già dichiarati, ritengo che la narrazione di Covacich di cui stiamo parlando sia interessante perchè in questo senso raggiunge un buon risultato. Che poi la faccenda narrata sia, nella fattispecie, effettivamente accaduta, non mi sembra rilevante. E nemmeno le intenzioni di Covacich. E nemmeno la classificazione Dewey (853.9).

    “come noto, si può mentire (cioè non essere sinceri) anche dicendo (parzialmente) il vero.”
    gm

    E come è altrattanto noto, si può dire il vero (cioè essere sinceri) anche (parzialmente) mentendo.
    M.Pellegrini

  96. arvicola Says:

    D’altro canto: come sapete che l’autore non ha elaborato in modo accettabile il dolore inflitto ad altri? Come sapete che si senta moralmente impotente? Che la sua spietata sincerità sia viceversa pornografia? Dov’è la cupa determinazione? Come sapete che scrivendo ha cercato “l’assoluzione estetica dell’uomo che non è riuscito a essere”? Ma dai…

    Da un lato abbiamo una narrazione che narra una vicenda comune nella quale è possibile per il lettore riconoscere fatti propri, a prescindere da valori e dis-valori morali, dall’altro una condanna morale si direbbe soprattutto dell’uomo (l’opera viene assolta, bontà vostra).

    In questo contesto dialettico, che pure sarebbe interessante benchè costituito da affermazioni, da una parte e dall’altra, che sono opinioni, se una parte nega che le proprie siano opinioni, diventa superfluo proseguire.
    M.Pellegrini

  97. vibrisse Says:

    Il personaggio-narratore, nel romanzo, non elabora il dolore inflitto ad altri. Il personaggio-narratore, nel romanzo, si sente impotente. Il personaggio-narratore ha una “cupa determinazione”. Eccetera. Queste sono cose che sono nel testo: che sono nella narrazione, che sono nel personaggio.

    Scrivi, Arvicola: “Una narrazione sincera cerca, tenta…”.

    Eh no. L’autore tenta. La narrazione no. Una narrazione è semplicemente il prodotto del lavoro di qualcuno. Non ha più capacità di tentare di quanta ne abbia, che so, la pasta che ho appena messa a cuocere.

    Non credo che si possa dire il vero mentendo. Si può, al massimo, provocare un’intuizione del vero per mezzo di una finzione (che è ciò che fa la letteratura d’invenzione, di solito).

    g.

  98. arvicola Says:

    e “l’assoluzione estetica dell’uomo che non è riuscito a essere”? anche questa è cercata dal personaggio narratore? Se sì, io non l’ho vista (così come non ho visto la cupa determinazione, eccetera). Opinioni vs. opinioni, appunto.
    Una narrazione non è la pasta. (Non è il lavoro di qualcuno che viene ingerito da qualcun altro, è il lavoro di qualcuno che viene elaborato da sistemi neuronali di qualcun altro, sistemi sui quali si fonda la consapevolezza, cioè tutto, sistemi che non sono assimilabili ai succhi gastrici).
    Un’intuizione del vero? che roba è?
    M:Pellegrini

  99. Paolo Zardi Says:

    Il mio parere (modesto) è che la sincerità dell’autore non sia un parametro che è possibile desumere da un libro. E per questo motivo, è del tutto irrilevante ai fini della sua valutazione. Si può dire che il tono assomiglia a quello che avrebbe una persona sincera – ed è probabile che un autore consapevole come Covacich sia in grado di ottenere questo risultato, se lo vuole.
    Nel momento in cui si parla di fatti verosimilmente accaduti all’autore, ci si aspetta che vengano raccontati con un afflato simile a quello che ispirerebbe la sincerità: ma basterebbe leggere “Inganno”, forse l’opera più perfetta di Philip Roth, per capire come l’autoreferenzialità, in narrativa, contenga molto più inganno che sincerità. Chi è che diceva che un autore riesce ad essere sincero solo quando si mette una maschera?
    Quindi, credo che se la “Prima di sparire” è stato scritto con sincerità, sarà qualcosa che verrà scritto in una biografia di Covacich – qualcosa tipo “ah, pare che questo libro, tra l’altro, fosse anche sincero”. Ma niente di più.

  100. arvicola Says:

    Paolo Zardi: la sincerità dell’autore non è un parametro che è possibile desumere da un libro.
    Sono d’accordo, anche perchè, soprattutto, non è rilevante.
    Trovo invece la differenza fra narrazione e pastasciutta più rilevante, perchè, mangiando, non è come se la pasta l’avessi prodotta io, mentre leggendo è come se il testo lo avessi prodotto io. (Oppure tutti, così Borges, oppure una autonoma struttura logica neurale, così Dennett e, ma forse intendeva dire qualcosa di differente visto che ha presto lasciato perdere, Dawkins). Lo troverò – io, specifico lettore – tanto più sincero (il testo, certo, non l’autore) tanto più sarà coerente con le mie intenzioni. Tanto più sarà “sine cera”.
    M.Pellegrini

  101. vibrisse Says:

    Siamo tutti d’accordo, dunque, su una cosa: “la sincerità dell’autore non è un parametro che è possibile desumere da un libro”. Preciserei: da un libro che si qualifica come “romanzo” (un’autobiografia è un’altra cosa). E siamo d’accordo, mi pare, anche sul fatto che la sincerità dell’autore non sia rilevante.

    Quindi, su questo, stop.

    Se voglio dire che un testo mi sembra molto verosimile, posso dirlo dicendo: “Questo testo mi sembra molto verosimile”.

    Se voglio dire che un testo è coerente con le mie intenzioni, posso dirlo dicendo: “Questo testo è coerente con le mie intenzioni”.

    Lasciando la parte le parole “sincero” e “sincerità”, che – vocabolario alla mano – vogliono dire altro.

    L’intelletto non può conoscere la cosa in sé, perché la sua conoscenza è mediata dai sensi. Ma vi sono oggetti sensibili – le opere d’arte – che possono indurre (o addirittura: contenere) un’intuizione della cosa in sé. Questa è più o meno la concezione idealistica (e quindi poi anche marxiana, crociana ecc.) dell’opera d’arte. E può sembrare un’idea vecchia. Ma tutta l’arte concettuale – tanto per fare un esempio – sta dentro questa definizione, eccetera. (Questo per rispondere, Arvicola, al tuo garbatissimo “Che roba è?”. Mi scuso per il bignamismo).

    g.

  102. arvicola Says:

    E’ trascorso un po’ di tempo dalla concezione idealistica, dell’opera d’arte come del mondo, che, quindi, forse appartiene, alla storia della filosofia. Naturalmente non sto qui a inseguire “il nuovo”, affermo solo (mi sembrava evidente, ma a quanto pare non lo è) che le opinioni, per quanto supportate da teorie altrui sedimentate nel tempo, culturalmente e socialmente importanti, sono relative, opinioni su opinioni, strato dopo strato. E nè col garbo nè col bignami se ne esce. L’intelletto non solo conosce la cosa in sè senza la mediazione dei sensi, ma la conosce a priori perchè la crea tutta, sensi compresi (altre opinioni, queste, stratificate nel tempo, che caratterizzano intere aree e culture del mondo, cfr. Abhinavagupta, rinascimento kashmiro, oppure Wigner, nobel per la fisica 1963).
    E così Sincero (“che non mente, non inganna”, dizionario alla mano) può essere applicato a un testo, perchè no? anche se il suo estensore fosse un bugiardo matricolato.
    M.Pellegrini

  103. vibrisse Says:

    Ho usato un’espressione vecchia contando che potesse funzionare come una koinè. Come il più delle volte avviene.

    Non ho mai visto un testo capace di mentire o di essere sincero. Mi spiace, Arvicola, ma quando scrivi di testi “sinceri” per me è come se tu parlassi dei marziani: cioè di qualcosa di cui non ho nessuna esperienza.

    Dicendo che un’opinione è un’opinione, non la si critica: semplicemente, si dice a quale genere di discorsi appartiene.

    g.

  104. arvicola Says:

    Io non critico le opinioni quando si auto-riconoscono come tali; e infatti mi sono limitato a descrivere le mie opionioni mettendole sullo stesso piano di legittimità delle opinioni altrui. Nè avrei proseguito nello scambio se non le avessi trovate interessanti. Però:
    Mi dispiace, Vibrisse, ma quando scrivi di esseri umani “sinceri” per me è come se tu parlassi di marziani: cioè qualcosa di cui non ho (e non posso avere, stante l’impossibilità di collegare neurone per neurone, sinaspsi per sinapsi, il cervello del mio interlocutore al mio) nessuna esperienza. Molto meno approssimativa, benché comunque imperfetta, la verifica di una struttura elementare quale è un testo, in quanto sorta di fenotipo esteso (come, ad es., la vespa produce alveari, noi produciamo alveari, cioè oggetti, ma anche pensieri, e testi, e narrazioni; e benchè in un certo senso – linguistico – anche gli alveari e gli oggetti prodotti possano essere sinceri – cfr. “un vino sincero” – la sincerità di cui ci stiamo occupando è un’altra e, per i motivi sopra descritti, impossibile da rilevare in un essere umano, possibile invece in un suo frammento della coscienza “fuori da sè”. Come un testo, eccetera eccetera.
    M. Pellegrini

  105. vibrisse Says:

    E quindi non abbiamo niente da dirci, poiché io purtroppo non sono animista. g.

  106. arvicola Says:

    E’ porobabile che non abbiamo molto da dirci, ma cosa c’entra l’animismo?
    Ho usato argomenti e citazioni un po’ eccentrici, benché sempre, comunque, pertinenti. Mi par di capire però che per te l’argomento è altro; l’argomento è la sincerità come atteggiamento morale, come intenzione, come scelta, come esercizio, in ultima analisi, del libero arbitrio. E in questa prospettiva non posso che convenire sul fatto che un testo non ha intenzioni sue proprie né opportunità di esercitare il libero arbitrio. Purtroppo però la maggior parte dei neuroscienziati oggi è d’accordo (su basi sperimentali, cfr. per la parte sperimentale Michael Gazzaniga) che gli esseri umani non hanno intenzioni, né compiono scelte né possiedono nulla che assomigli al libero arbitrio. Al massimo si osservano agire a posteriori. La volontà non esiste e la coscienza è, nella migliore delle ipotesi, un epifenomeno. Qualsiasi opinione è rispettabile, ma dallo stato dell’arte a questo proposito non si dovrebbe prescindere. (Poi uno può tenersi l’idealismo o quello che preferisce e vivere benissimo lo stesso). E così dell’aggettivo “sincero” rimane solo la definizione da dizionario delle medie che ho riportato io, ed essa, con tutti i suoi notevoli limiti, è, allo stato dell’arte, riferibile con più legittimità a un testo (cioè un fenotipo esteso di carattere culturale) che a un individuo in carne e ossa.
    m.

  107. chiaraadezati Says:

    arrivo qui dopo un anno e passa, ma non vuol dire. mi interessava molto il discorso. Corpo allo stato nascente. Cosmosmosi è per me il resto d’israele…ciao, ch

  108. vibrisse Says:

    E il discorso, Chiara, continua – tra un piccolo drappello d’autori. g.

  109. pierluigitamanini Says:

    Forse un po’ in ritardo, ma aggiungerei – con umiltà – ai testi citati anche “Rotte mutande o l’inquietudine dell’eterno cercare” (Aletti, 2008) del sottoscritto, nel quale il narratore dichiara apertamente al lettore che il protagonista del romanzo è l’autore, interrogando(si) sul rapporto realtà/finzione e sull’identità di autore/narratore/personaggio.
    Chissà che l’interessante dibattito non riprenda…

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