[Questo è il venticinquesimo articolo della serie La formazione della scrittrice (esce il lunedì), alla quale si è ora affiancata la serie La formazione dello scrittore (esce il giovedì). Ringrazio Teresa per la disponibilità. gm].
“Sono orfana, senza mamma e papà, la prego signore mi prenda con lei, mi porti a vivere nella sua villa” imploro il calciatore Antonio Cabrini inspiegabil- mente in visita alla nostra scuola, scuola elementare Cesare Balbo Orbetello-Neghelli.
“C’è questa bambina identica a me, – racconto ai compagni di classe, terza elementare – uguale uguale, stessi occhi, stessi capelli, vive in America in un ranch, è una star tipo Shirley Temple. Tutti la amano. Era mia sorella gemella, l’hanno uccisa ieri.”
“Voi non capite – diciassette anni, singhiozzo agli amici sulla porta di casa – hanno tentato di rapirmi, un gruppo di uomini, nove dieci, poi mi hanno scaricato sulla strada. Non ricordo altro, forse mi hanno violentato.”
E dunque per me l’inizio non è stata la scrittura, ma la mitomania.
Che poi ogni perdita evocata nell’infanzia sia avvenuta, che quella rappresentazione ricattatoria sia diventata realtà è stata la mia vera formazione. L’inversione di mondo. Il cielo che diventa terra, la terra che diventa cielo, l’aspirazione nostalgia, la felicità perduta.
Sono diventata scrittrice quando sono morti tutti. E io sono rimasta qui. A ricordarli.
30 giugno 2014 alle 09:06
La perdita. Il pozzo oscuro da cui tutto origina. La ferita, il solco, la linea di demarcazione. Fra il prima e il poi. Niente è più com’era. L’assenza, la mancanza: non può – forse non deve – essere codificata o spiegata. Solo vissuta, e rivissuta, attraversata. Infine trascritta.
30 giugno 2014 alle 10:58
Teresa mi commuove sempre, conferma l’assunto: che agli scrittori competono gli assenti
30 giugno 2014 alle 15:53
Mancano troppe informazioni. Il lettore – l’estraneo – può fare solo delle ipotesi sulla scia di una narrazione rarefatta e, a mio modo di vedere, inconsistente.
E non si può pretendere che il lettore conosca le cose appena appena accennate.
(Sono andato nel dubbio a sfogliarmi le biografie di Cabrini e Shirley Temple. Niente. A me resta il vuoto testuale spinto.)
30 giugno 2014 alle 22:18
Trovo tutto. Mi piace.
1 luglio 2014 alle 12:38
@dim: su wikipedia trovi tutto, cabrini, shirley e pure i fatti di cronaca narrati. su wikipedia è descritto con dovizia di particolari il gol di zoff su calcio d’angolo ai mondiali dell’82.
1 luglio 2014 alle 18:08
@diar: quali fatti narrati? …Zoff? ma questa è la formazione delle scrittrici, o la formazione della nazionale calcistica…?
Comunque. Io non ho capito quasi nulla di questo racconto. Se Paolo, autore del bel commento oracolare, Tomassini che si è commosa, Carlo Cannella che ci ha trovato tutto, mi aiutano, non posso far altro che ringraziare.
1 luglio 2014 alle 18:59
“In verità, in verità ti dico”… (dell’oracolo non me l’avevano ancora dato…). Scherzi a parte. Farei solo un distinguo. Di racconti io non ne vedo. Vedo solo una dichiarazione, uno “statement” forte, succinto e incisivo (quasi provocatorio). E cioè che per l’autrice la formazione alla scrittura non può essere scissa dal suo stesso prodotto, e cioè dalla ricerca costante e necessaria di rielaborazioni e spiegazioni di quanto vissuto e attraversato, dall’infanzia a oggi. L’atto di scrivere (e il suo prodotto) giustifica, illustra e in qualche modo spiega se stesso. Si intuisce, poi, direi molto chiaramente, l’importante ruolo che l’esperienza della “perdita” nella vita dell’autrice abbia in tutto questo. Ho sentito di condividere appieno questo assunto (perdonate il tono enfatico, il non trattenuto trasporto del mio “instant comment”), prendendo forse, così, una cantonata pazzesca. Trovo che l’esperienza della perdita (di cose, persone, stati e modi di essere epoche, ecc, ecc) e l’indugiare sulla memoria della stessa siano di per sé un motore potentissimo dello scrivere. So di dire cose scontate, ma si tratta di un’energia demiurgica originante dall’interno, viscerale, difficilmente, a mio parere, codificabile, incanalabile. Non deve necessariamente essere spiegata. Piuttosto, la si sperimenti, direttamente, nelle pagine scritte. Non c’è risposta più adeguata alla curiosità del lettore, se non la lettura e l’interpretazione delle pagine stesse. Solo così egli potrà, se non capire, almeno intuire come e soprattutto perché è stato scritto ciò che è stato scritto.
Ovviamente, rispetto a molti, se non tutti precedenti articoli, l’approccio è stato cambiato, il punto di vista mutato. Estremizzato, lo sappiamo. Letture, educazione, viaggi, incontri, episodi…: sono tutte cose importanti e imprescindibili. L’autrice, tuttavia, pone l’accento su qualcosa di più oscuro e inconscio, un demone col quale ha ben presto cominciato a fare i conti. In buona sostanza, credo ci abbia detto di provare a fare lo stesso.
1 luglio 2014 alle 20:17
Paolo, non scherzavo per niente. Il tono dell’oracolo ti vien bene, e meno male perché qui l’oracolo ci vuole.
Scrivi:
“Si intuisce, poi, direi molto chiaramente, l’importante ruolo che l’esperienza della ‘perdita’ nella vita dell’autrice abbia in tutto questo”
Che la perdita, o più precisamente la morte giochi una parte fondamentale nella vita di tutti e quindi anche dell’autrice, non mi sembra una notizia. Tutti abbiamo perso, o perderemo i nostri cari. E quando sarà il nostro turno, scompariremo ai nostri cari. È l’abc della vita consapevole.
Quel che importa, a mio modo di vedere, è il senso che attribuiamo alla morte dei nostri cari. È il rapporto con la morte e con i morti ciò che preme molti lettori sulla pagina. E ancora l’abc.
Qui, di questo rapporto, si parla niente.
Si intuisce, come tu dici, quanto l’esperienza della perdita sia importante per chi scrive. Ma ci è davvero utile intuire quanto l’esperienza della perdita sia importante per qualcuno? Non è molto, molto più utile sapere in che modo, attraverso quali eventi e trasformazioni quest’esperienza della perdita ha giocato un certo ruolo, in una vita?
…Poi. Se questo non è un racconto (“Di racconti io non ne vedo.”) Se questo non è un discorso argomentativo (“Non deve necessariamente essere spiegata”). Se neppure è un testo autonomo (“Non c’è risposta più adeguata alla curiosità del lettore, se non la lettura e l’interpretazione delle pagine stesse. Solo così egli potrà … almeno intuire come e soprattutto perché è stato scritto ciò che è stato scritto”). Be’, che cos’è? Soprattutto, quale utilità?
1 luglio 2014 alle 22:12
Spero di non averti in qualche modo infastidito. Non ti volevo convincere di nulla. Quello che ho letto nella scheda, così com’è, per quello che è, ha suscitato in me delle emozioni (e non avevo particolari aspettative), tutto qui. Non è per tutti la stessa cosa.
1 luglio 2014 alle 22:54
Paolo: anche a me la lettura di questo pezzo ha dato emozioni, e precisamente l’irritazione di rimanere in ascolto di qualcuno che si fa scrupoli di chiamare le cose per nome. A mio modo di vedere, l’organo più sviluppato di uno scrittore deve essere il fegato.
(Ovviamente mi riferisco a questo testo soltanto. Non ho letto nient’altro di Teresa Ciabatti.)
1 luglio 2014 alle 23:50
è un testo che si ricorda, a prescindere dalle informazioni che trasmette (o non trasmette). per me, è un testo poetico. e mi piace.
2 luglio 2014 alle 07:28
Daniele (dm), scrivi:
Il fatto che A sia “molto, molto più utile” che B non comporta che B sia inutile.
Peraltro: utile a che?
Direi che l’evitamento compiuto da Teresa Ciabatti in questo breve testo (evitamento di quasi tutto ciò che si trova negi altri testi della rubrica) a me pare un gesto rilevante.
E la frase:
potrei dirla anche di me.
2 luglio 2014 alle 08:17
Caspita che incipit, ma il resto?
2 luglio 2014 alle 12:04
Giulio:
Non mi pare di aver lasciato intendere che se A è “molto, molto più utile” di B allora B è inutile. Fra l’altro, se affermo che B è “molto, molto più utile” di A, sto anche dicendo che A non può essere inutile. Altrimenti avrei detto: “B invece, è utile”.
Utilità in senso di beneficio. Il rispecchiamento di cui dici (“La frase … potrei dirla anche di me”) mi pare possa essere considerato un beneficio.
Scrivi:
Puoi spiegarti meglio?
2 luglio 2014 alle 14:40
Daniele, non tieni conto del “davvero”. In quella frase tu fai intendere che – a tuo giudizio – l’intuire ecc. non è “davvero” utile (quindi, se è “utile”, è utile “non davvero”).
Quanto all’evitamento: Teresa Ciabatti èvita di fare la propria autobiografia, èvita di parlare di libri, èvita di parlare di editori, di maestri, di compagni di strada, eccetera: èvita, in sostanza, di parlare di una “formazione” nel modo inteso – mi pare – in tutti gli altri interventi. Ci dice infatti che la cosa di cui parla – la mitomania, non la scrittura – c’è da sempre, fin dall’infanzia.
Ecco: questa a me sembra una differenza rilevante – rispetto a tutti gli altri interventi finora pubblicati.
2 luglio 2014 alle 15:48
Giulio, secondo me prendi davvero un abbaglio. Se dico: “Ma ragazzi, Irina Shayk è bella davvero?” non sto certo insinuando che Irina Shayk sia brutta. Se per di più, com’è il nostro caso, dico: “Ma ragazzi, Irina Shayk è bella davvero? Non è molto, molto più bella sua cugina Katia?” è evidente che qui la bellezza è considerata in gradazione, e non sto certo affermando che Irina sia priva di bellezza. Semplicemente Katia è molto, molto più bella, io dico.
In altre parole, “davvero” qui è usato – forzandone l’uso in un’interrogativa, ma in un modo ben comprensibile – come intensificatore.
Dunque, su ciò che chiami “evitamento”: hai scritto che a te “pare un gesto rilevante”. Ho inteso: significativo. E ho chiesto precisazioni. Ma mi rispondi che ti pare costituisca “una differenza rilevante” rispetto a tutti gli altri testi. La seconda affermazione, oltre a essere costatazione dell’evidenza, ridimensiona di molto la prima, direi.
2 luglio 2014 alle 15:51
Da bambino, alle elementari, raccontavo ai compagni di classe di essere stato in Africa, in Kenia e in Congo, a caccia di rinoceronti et similia. Mai m’è capitata l’occasione di raccontare la stessa fola a qualche visitatore famoso e occasionale. Questo mi ha, per così dire, preservato dalla mitomania ma, forse, mi ha pure impedito di diventare scrittore (raccontare una frottola al compagno di classe è mille volte più facile che non, per esempio, al vescovo in visita: per quest’ultimo deve essere ben strutturata, e soprattutto richiede più coraggio).
Una domanda è: è necessaria una dose di mitomania per essere scrittori? Possiamo rispondere (o provare a rispondere) solo chiedendoci se e quanto coloro che consideriamo scrittori di valore fossero mitomani. Erano mitomani Manzoni, Hugo, Maupassant, Svevo, Joyce, Hemingway, Faulkner, Gadda, Manganelli, ecc. ecc.?
Mi chiedo però se, così agendo, non faccio dello psicologismo d’accatto. Cioè se non riduco il mondo costruito dall’autore a qualche sua personale idiosincrasia (o patologia). Sarà che, a me, la lettura in chiave psicanalitica non piace (o non so farla bene)…
2 luglio 2014 alle 16:11
RobySan, scrivi che la frottola fra adulti e in letteratura: “deve essere ben strutturata, e soprattutto richiede più coraggio”. Mi permetto di aggiungere che il coraggio si esprime proprio nella scelta di strutturarla. Soprattutto se è una frottola dolorosa e, potenzialmente, senza il paracadute della bellezza, disastrosa per chi la racconta.
2 luglio 2014 alle 16:23
Daniele, il mio sarà un abbaglio, va bene. Ma tutti i tuoi interventi contengono una svalutazione dell’articolo. La sensazione è che davvero tu lo ritenga inutile.
Ah: se io noto – cioè, letteralmente: “scrivo” – qualcosa che è evidente, e tu mi chiedi spiegazioni, non lamentarti perché ti spiego l’evidenza.
D’altra parte, a te questa evidenza sembra sfuggire: noti che l’intervento di Teresa Ciabatti è diverso dagli altri, e anziché leggerlo diversamente dagli altri pretendi che – come gli altri, o la maggior parte degli altri ecc. – ti dia “più informazioni”.
Come se uno leggesse, che so,
e dichiarasse di provare la seguente emozione: “l’irritazione di rimanere in ascolto di qualcuno che si fa scrupoli di chiamare le cose per nome”.
(Se cito Leopardi non è per fare un paragone di bellezza tra i due testi; ma per suggerire un’attribuzione di genere, e quindi un modo di leggere il testo. E con ciò mi fermerei).
2 luglio 2014 alle 17:35
Giulio, il testo non mi piace. L’ho criticato fornendo delle argomentazioni. (Critica che per te è una “svalutazione”.) E hai criticato il mio intervento (o lo hai svalutato?) volendo a tutti i costi attribuirmi il giudizio di inutilità.
Hai parlato di quelle che per me sono lacune come d’un “gesto rilevante”. Bene, ti ho chiesto spiegazioni. Non mi aspettavo una constatazione dell’ovvio, lo vedo da me che qui mancano cose che in altri testi ci sono. Mi aspettavo due parole su come quelle che sono per me lacune, rappresentano per te un “gesto rilevante” intendendo, dato che hai usato la parola “gesto”, qualche cosa di assai significativo.
Va be’. Mi sono meritato l’Infinito.
Non capisco a che titolo possa entrare nel discorso la forma poesia. Ma non rischio di nuovo il cortocircuito chiedendoti di spiegar meglio.
2 luglio 2014 alle 22:48
insomma, una buona dose di narcisismo orale; questa lezione ci si offre in forma di provocazione autocompiaciuta, come si conviene al personaggio.
3 luglio 2014 alle 01:54
@dm: la prima differenza tra il contributo di Teresa Ciabatti, brevissimo, e gli altri testi sta proprio nel totale allontanamento dalle modalità narrative dei precedenti. Il nostro problema, da lettori di vibrisse, è che il suo testo è ora affiancato agli altri, quindi le tre scene + spiegazione scatenano domande che risentono degli interventi che le precedono. Nel tuo caso, domande stizzite, e in parte lo comprendo perché in primo luogo non si capisce se Ciabatti stia raccontando un “davvero”: è diventata scrittrice proprio così, cioè gli episodi riportati hanno realmente residenza nella sua storia personale o sono invece inventati di sana pianta? Ci si chiede se la scrittrice sia mitomane qui ed ora, e non solo nella se stessa antica del racconto). O ancora ci vuole suggerire, come notato da Giulio Mozzi, che la scrittura in sé è una forma di meta-mitomania e inventa le tre scenette a sostegno dell’ipotesi?
Oppure, a parte l’esemplare abiezione con cui andava in giro a distribuire menzogne, ci dice soprattutto, come hanno notato altri, che il punto di svolta per la sua scrittura è stata la perdita, l’assenza, la morte di altri, per cui le bugie d’attenzione non valevano più ad attirare nessuno tra i vivi che contassero, ma dovevano comunque continuare ad essere elaborati in forme diverse per avere senso?
Ci dice che nonostante quello che accade intorno è comunque impossibile smettere di essere mitomane, perché anche quando potrebbe avere un’occasione per chiacchierare del più e del meno di sé per iscritto, comunque il testo non può che prendere la strada deviata (se paragonata alla memorialistica piana e limpida degli altri) e le forme della finzione?
@apevasaia Non credo si tratti di autocompiacimento, ma di necessità; di perdita di contatto col mondo delle cose e delle persone; di tentativo di autosalvataggio coi mezzi che si hanno. Non conosco il personaggio Ciabatti, se con personaggio ti riferisci al mettersi in scena come scrittrice al di fuori dei testi che scrive, ma da lettrice percepisco meno autocompiacimento in queste dieci righe che nella maratona di alcuni altri contributi, per quanto questi fossero ricchi di aneddoti, delicatessen e passaggi interessanti.
Per quanto mi riguarda il valore dell’intervento di Ciabatti, oltre che nell’originalità della cosa prodotta alla domanda “come sei diventato scrittore?”, sta nell’evocazione, anche quando questa mi porta a creare teorie, e delle più strampalate, per digerirlo.
3 luglio 2014 alle 06:40
Sì, Daniele: hai criticato il testo di Teresa Ciabatti fornendo delle argomentazioni (e, se la critica collabora alla “valutazione” di qualcosa, potrà ben collaborare a una “svalutazione”). Purtroppo, secondo me, argomentazioni non pertinenti: ma questo l’ho già detto, e ho già detto perché mi sembrano tali.
Peraltro, Daniele, nemmeno a me questo testo piace. Ma ciò non mi impedirà – spero – di vedere che cosa è.
3 luglio 2014 alle 12:18
Giulio, ho capito. Facciamo così. Che mi rendo conto, fra le cose, di diventare polemico ai limiti della sopportabilità. (Chi sa da vecchio.)
Mi metto di lato e offro la mia prospettiva di lettore.
C’è un nuovo articolo in vibrisse. Un altro essere vivente sta per narrarmi la propria formazione. Ingrandisco i caratteri nella finestra e incomincio la lettura. Leggo le frasi d’inizio. Mi sembrano una buona promessa. E io, in questi giorni, con la vita sdrucita che vado facendo sento un bisogno fortissimo di, scusa per la parolaccia, verità. Oltre a un bisogno quasi corporale di punti di vista sfaccettature oblique e (s)mascheramenti. Proseguo e trovo, superata la metà a occhio, quelle frasi di birignao pseudo-letterario (a mio modo di vedere ovviamente ma siamo nel mio modo di vedere). E tutti i nodi mostrati bellamente nell’incipit rimangono lì, belli distesi sul finale.
Zero compromissione, risparmio oltre ogni limite di forza morale (dalla parresia sperata all’afasia), mi dico alla fine. E il non detto non si giustifica assolutamente (a.m.m.d.v.) con il valore o la bellezza del testo. Ecco.
3 luglio 2014 alle 13:16
la componente narcisistica è sempre molto forte in chi cimenta nell’atto di creare, non è per forza un’accezione negativa. Ci si innamora di ciò che si produce, lo si guarda, lo si corregge, lo si impara a memoria. Altrimenti perché farlo?
Nella scrittura come in qualsiasi altra attività; io sono architetto, spesso mi sorprendo a osservare i miei progetti e amarli come fossero di qualcuno davvero talentuoso.
Teresa ha il pregio di creare sempre contraddizioni in chi legge. Da una parte il desiderio di insultarla nel caso di un fortuito incontro per strada, dall’altra lo stimolo di riformulare il proprio giudizio per una specie di retrogusto interessante lasciato da quello che si è appena letto. Mi fa questo effetto qui, e immagino che sia anche voluto
6 luglio 2014 alle 11:32
A me sembra chiarissimo. La formazione della scrittrice, la genesi è lì. Chiedere a uno scrittore “perché scrivi?” e “da dove parte, dove si forma la scrittura?” significa andare all’origine. E la sua origine è lì.
31 luglio 2014 alle 06:05
[…] solo un piccolo esercizio. Andate a vedere le “formazioni” di Valeria Parrella e di Teresa Ciabatti, e guardate (basta guardare le etichette, dette anche tag) quali e quanti sono i nomi che compaiono […]