Note di lettura: “Rogo” di Giacomo Sartori.

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di Luigi Preziosi

Una sottile sensazione di sgomento percorre le tre storie di donne che, anche senza ricorrere a simmetrie eccessivamente meccaniche, Giacomo Sartori intreccia nel suo ultimo romanzo, Rogo, uscito qualche mese fa presso CartaCanta editore. Ben poco in apparenza accomunerebbe le vicende di Lucilla, Gheta e Anna, separate prima di tutto da notevoli distanze temporali: la prima si svolge al crepuscolo degli anni Settanta, la seconda in un Seicento tenebroso e terribile, la terza nei nostri anni smemorati ed inconsapevoli. Ognuna di queste storie è fortemente caratterizzata dai guasti prodotti delle culture prevalenti, e di queste ognuna delle protagoniste è vittima inconsapevole: per Gheta, si tratta dei pregiudizi da cui germinò la persecuzione delle streghe; per Lucilla, è l’euforia di uno spontaneismo anarchico e refrattario all’assunzione di responsabilità che tende a negare ogni regola nelle relazioni; la deriva verso una ostinata sordità alle voci degli altri e l’attenzione esasperata alle apparenze che intristiscono questi nostri anni, per Anna. Sartori insiste proprio sulle diversità degli sfondi davanti ai quali agiscono le protagoniste per far risaltare per contrasto come affini le angosce che risalgono da profondità di anime forse malate, certamente difficili da comprendere.

Lucilla è innamorata di Ilio, alpinista spericolato e un po’ anarchico. L’amore senza limiti, quale i calanti anni settanta ancora proponevano come coerente con il ribellismo a convenzioni sociali oppressive, vale per lei anche come strumento di riscatto per un passato di emarginazione. Ma Ilio non ha il dono della dedizione assoluta, come Lucilla desidererebbe, perché parte della sua mente è impegnata dal pensiero della bella impresa per la quale assurgere all’empireo degli alpinisti. E quando muore sull’Himalaya, fedele all’unico vero sogno della sua vita, il dolore frana addosso a Lucilla, il vuoto le esplode nella mente e le fa rifiutare, fino a sopprimerlo, il bimbo che Ilio le lascia.

Anna, chiusa in un isolamento che non traspare dalla sua apparente apertura al mondo, scopre, nel momento più difficile della sua esistenza, l’orrore dell’abbandono proprio da parte di chi, nel suo sentire distorto, avrebbe dovuto proteggerla, nonostante tutto. Ma la sua famiglia non conosce che simulacri di sentimenti, ognuno è dedito all’ascolto solo di se stesso, incapace di un minimo di accudimento. Non le è mai stata vicina, non può certo esserlo la sera in cui si scopre, occultato tra gli asciugamani del bagno, il cadaverino del bimbo che non sapeva (o non voleva sapere) di portare in grembo.

Gheta subisce l’intera gamma di torture che uno scrupoloso inquisitore ritiene doveroso infliggerle, fino a che dai suoi obnubilati vaneggiamenti, oltre alle sue arti stregonesche, non si palesa la colpa delle colpe, l’uccisione del proprio figlio.

Questo è dunque l’abisso, l’uccisione del figlio, nella storia di Anna descritta con gelido attonito stupore, per Gheta emergente a fatica dal baluginare di una memoria ottenebrata, e da Lucilla penosamente riportata a coscienza grazie ad apposite sedute dallo psichiatra del manicomio criminale dove è reclusa.

Nessuna delle tre ha odiato il proprio figlio, tutte ne hanno avvertito la radicale estraneità rispetto al loro modo di stare nel mondo, una pena intollerabile sommata al resto, alla quantità immane di dolore con cui la vita ti schiaccia, una costrizione ineludibile, da cui non c’è scampo neanche dopo, quando il figlio non c’è più. Questa particolare gradazione di angoscia si percepisce nella misura più piena nel precipitare del destino di Gheta. Sartori conferma qui l’attrazione verso situazioni estreme di segregazione, già presenti in Cielo nero, cronaca degli ultimi giorni di Galeazzo Ciano. E’ un progressivo declino della coscienza di sé che si rivela alla vittima per approssimazioni successive, ostinatamente rifiutato anche se manifesto nello strazio della carne e dell’anima, a volte anche appena ridefinito in una prospettiva di morte meno atrocemente dolorosa, proprio come avviene per gli ultimi istanti di Gheta, che gioisce perché la sua condanna è commutata dal rogo alla morte per decapitazione. Segregazioni fisiche e definitive, dietro alle quali si intravede l’attenzione dell’autore verso altre e meno evidenti ma non meno inquietanti forme di costrizione che avviluppano i giorni di ognuno di noi. Anche il fondale, comune alle tre storie, un fondovalle che riga le alpi del Trentino, un luogo dove s’addensa la sensazione un po’ oppressiva di un destino incombente a cui non si riesce sfuggire, assolve ad una funzione di accompagnamento allo sviluppo narrativo consueto in Sartori (non sarà certo un caso se è identico a quello disegnato allo stesso fine in un suo precedente romanzo, Sacrificio).

Non c’è commiserazione corriva nelle pagine di Sartori: c’è piuttosto uno sguardo lucido, oggettivo al punto da sfiorare la freddezza, sulle miserie delle tre donne, che è anche la forma più vera di pietà. Il libro è pervaso di un implicito senso di misericordia verso le protagoniste, sostanziato anche dalla limpidezza di una scrittura che esprime più ascolto che giudizio, e nella quale le pagine di maggiore crudezza si legittimano come atti di rispetto verso la loro smisurata tragedia, che indebite edulcorazioni avrebbero rischiato di immeschinire. Dello stesso rispetto è manifestazione anche la partecipazione con la quale Sartori indaga l’animo femminile, o meglio, la capacità con la quale riproduce lo sguardo femminile sul mondo: questi sguardi, soprattutto, capaci di coglierne solo una visione deformata.

Le storie delle tre donne confluiscono nel finale: Gheta presagisce nelle spire dell’agonia le angosce di Lucilla, che a sua volta, terminato il ricovero, finirà per affinare certe sue facoltà medianiche grazie alle quali riesce a distribuire scampoli di saggezza a chi, oppresso dai più diversi tormenti, ricorre ai suoi consulti: tra questi proprio Anna, le cui angosce riesce misteriosamente a penetrare, accompagnandola fino al problematico redde rationem finale. Così si enfatizza l’ineludibilità del male a cui nemmeno nel ruotare dei secoli si riesce a trovare scampo: è l’insostenibilità del dolore, inferto o subito che sia, che permane nel tempo, e che segna i destini oltre ogni nostra logica umana.

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Una Risposta to “Note di lettura: “Rogo” di Giacomo Sartori.”

  1. RobySan Says:

    Sartori dice di sé.

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