
1992. Fotografia di Basso Cannarsa
1. Quand’ero, boh, diciottenne, diciannovenne, mi facevo dare nelle librerie i cataloghi degli editori (allora esistevano i cataloghi stampati) e poi a casa me li studiavo. Confusamente, nella mia ingenuità, identificavo l’editore con il suo catalogo, cioè con i libri pubblicati. In quelle liste cercavo una logica, un’organizzazione: e in certi casi (esempi massimi: Laterza, Il Saggiatore, Einaudi, ec.) la trovavo facilmente. Questo il mio primo pensiero. Era vero, allora. Oggi è ancora vero, ma non è più reale.
2. La seconda cosa non la pensai io, me la disse Stefano Dal Bianco quando un paio di editori, nel 1992, mi proposero di fare un libro. “Ricòrdati che hanno loro più bisogno di te di quanto tu abbia bisogno di loro”. Mi fu facile capire, anche perché – benché, in effetti, avessi fatto circolare un racconto – pubblicare un libro non era mai stato tra gli scopi consapevoli della mia vita, del mio fare. La cosa mi sembrò vera e reale, e tutt’ora mi sembra vera e reale. Almeno per me. E il self-publishing non c’entra niente.
3. La terza cosa la pensai quando un agente letterario mi telefonò, prima ancora che pubblicassi nulla, prima ancora che firmassi alcun contratto, per propormi di entrare a far parte della sua scuderia: della quale già facevano parte, così mi disse, persone come Giuseppe Pontiggia e Vittorio Sgarbi. Citò anche altri, credo, ma non li ricordo. Il mio pensiero fu che non mi piaceva l’idea di essere considerato un cavallo (temevo la sindrome di Cholstomér) e in più il semplice pensiero di trovarmi nello stesso luogo nel quale si trovava, sia pure virtualmente, Vittorio Sgarbi rendeva vano il pensiero di trovarmi nello stesso luogo nel quale si trovava, altrettanto virtualmente, Giuseppe Pontiggia. Risposi: no, grazie.
4. Quando, nel 1992, con quello che diventò il mio primo editore, Theoria, si parlò di soldi, Paolo Repetti (che allora lavorava lì: nel 1995, quando Theoria andò in crisi, passò in Einaudi a inventare Stile libero) mi offrì un anticipo pari, più o meno, a un mio stipendio mensile di allora (ero fattorino in una libreria universitaria). A me non importava molto: avevo appena rifiutata la proposta di Elisabetta Sgarbi, Bompiani, che era esattamente dieci volte tanto. Non so se Paolo se ne ricorda, ma gli feci una quantità di domande per capire, al di là dell’anticipo a me proposto, quanto costava fare un libro. Lui fu, non so perché, un po’ riluttante a rispondere: come se la mia fosse un’invadenza. Mi rispose, comunque, e potei farmi un’idea. Il mio pensiero fu che, se accettavo un simile investimento dell’editore sul mio lavoro, mi prendevo una responsabilità. In quella situazione, era un pensiero adeguato.
5. La quinta cosa che pensai, dopo aver firmato il contratto, fu: “Ora mi tocca scrivere il libro”. Perché, caso raro all’epoca, e ancora più raro oggi, la proposta di pubblicazione mi fu fatta quando avevo scritto un racconto e mezzo. Avrei dovuto, per questo, forse, stimarmi particolarmente. Invece a questo non pensai. Anzi, e Paolo potrebbe esserne testimone, la faccenda mi irritava un po’: perché non avevo un’idea precisa di che cosa significasse, “pubblicare”; né avevo mai avuti precisi desideri in proposito. Oggi, che mi tocca avere che fare con tante persone che desiderano intensamente pubblicare, e che pur scrivendo cose buone o addirittura ottime (secondo me) stentano molto a trovare un editore, penso che davvero fui molto, molto fortunato. Ovvero: che non ci fu nessun merito particolare. Erano altri tempi.
6. Lavoravo all’epoca, l’ho detto, in una libreria universitaria. Vendevamo libri di medicina, chirurgia, fisica, matematica, chimica, chimica industriale, ingegneria, biologia, botanica, agronomia, eccetera. Avevamo anche un piccolo reparto di “varia”, con un po’ di classici e di romanzi e saggi del momento. Passavo il giorno in mezzo ai libri. Il mio, pensavo, sarà uno dei tanti. Si perderà, nel mucchio. Era, lo dico oggi, un buon pensiero.
7. E analogamente: ho sempre frequentato le librerie a metà prezzo, le librerie dell’usato (dico dell’usato, non dell’antico), le bancarelle, i mercatini. Ho sempre saputo che la vita dei libri è quella che è, che tanti se ne pubblicano ma pochi, pochissimi, resistono nel tempo. Il più delle volte l’oblio è il destino giusto. Ogni volta che mi càpita, ancora oggi, di pescare da questi cimiteri qualcosa che m’incuriosisce, che mi diverte, che mi istruisce, che magari per bizzarri motivi m’innamora, ma che tuttavia è, irrimediabilmente, e non è che io non me ne renda conto, defunto e giustamente condannato a essere dimenticato da tutti o ricordato da pochissimi: ogni volta, dico, penso che se questo fosse il mio destino ne sarei felice.
8. Quando pubblicai per la prima volta, nel 1993, presso Theoria, pensai – non subito, ci arrivai un po’ alla volta – che alla fin fine era una buona cosa, forse una molto buona cosa: ma non avevo saputo godermela. Quando, nel 1996, pubblicai la seconda volta, presso Einaudi (non fu una mia scelta; Theoria stava sprofondando, aveva un mio contratto, Repetti passò in Einaudi e per dare una mano a quel che restava di Theoria fece comperare da Einaudi alcuni contratti di Theoria, tra cui il mio), pensai che sarebbe potuta essere una cosa altrettanto buona. Mi sbagliavo. Quando, nel 1998, pubblicai per Mondadori (e questa sì, fu una mia scelta), speravo fosse una cosa migliore. Mi sbagliavo. “Si è sempre, comunque, soli”, conclusi: benché avessi incontrato, per esempio in Dalia Oggero e Antonio Franchini, ottime persone. Da quando, nel 2011, ho cominciato a ripubblicare le mie cose vecchie presso Laurana, grazie alla buona volontà di Gabriele Dadati (che non lavora più lì) e di Lillo Garlisi (detto: “l’amministratore”), ho cominciato a pensare che talvolta si è in buona compagnia. Forse sono cambiato io. Sì, sono cambiato io. Oggi ho bisogno di compagnia.
9. Quando, nel 1996, mi ritrovai nella baraonda del Premio Strega (oggi, ci tengo a dirlo, la gestione è molto più seria), pensai: “Non voglio vivere in questo mondo”. Era l’unico pensiero possibile per me. Oggi, forse, in quel mondo sarei capace di rientrare: ma sono vecchio.
10. Quando, nel 2001, pubblicai presso Einaudi Fiction, ero convinto di aver fatto un libro nel quale dimostravo – diversamente dai precedenti, che mi pareva (e lo confermavano i recensori) si fondassero su una mia specifica ingenuità – di essere uno che aveva capito tutto della tecnica; e di essere stato capace di mettere in crisi il concetto stesso di finzione. Poi, per fortuna, di simili vanterie (quasi solo interiori) mi sono liberato.

2016. Fotografia di Giovanni Zaffagnini
Tag: Antonio Franchini, Basso Cannarsa, Dalia Oggero., Elisabetta Sgarbi, Gabriele Dadati, Giovanni Zaffagnini, Giuseppe Pontiggia, Lillo Garlisi, Paolo Repetti, Stefano Dal Bianco, Vittorio Sgarbi
8 giugno 2017 alle 09:13
Attraverso il tuo vissuto si comprende l’editoria che, mi pare, molto cambiata, se in meglio o peggio non so giudicare. Tu li hai vissuti, hai una visione più completa. Molto bello mettere le due foto, dà una sensazione di prima e dopo. Prime esperienze editoriali fino ad oggi.
Mi è piaciuto leggere la tua vita editoriale.
8 giugno 2017 alle 09:42
Ciò che conta veramente su questa terra è l’anima e non l’ego. Speriamo di riuscire ad occuparci di perpetuare quest’anima attraverso le nostre esistenze.
8 giugno 2017 alle 10:40
Ma l’anima non è distinta dal corpo.
8 giugno 2017 alle 10:48
Sempre un piacere leggerti. Condivido soprattutto il punto 7. Anch’io amo curiosare fra bancarelle e remainders, e se li considero delle fosse comuni (perché anche il mercato ha i suoi roghi, le sue scarlet letters che marchiano i traviati e i dispersi, i non venduti, i non richiesti, i fuori catalogo, i fuori e basta), è anche vero che questi libri, a loro modo ‘bruciati’, possono lo stesso sperare in una palingenesi discreta al costo di pochi euro, alla portata di qualunque mano, possibilmente la mano giusta.
8 giugno 2017 alle 12:08
Grazie, GM.
8 giugno 2017 alle 12:13
Sei in vena di bilanci, Giulio?
8 giugno 2017 alle 12:30
Un decalogo di pensieri e di vissuto di un’anima saggia. E sono d’accordo, l’anima non è distinta dal corpo. Buona vita
8 giugno 2017 alle 13:50
Bandini, una ripubblicazione è inevitabilmente occasione d’un bilancio.
8 giugno 2017 alle 14:21
beh, Giulio. Quanto al punto 9… ci sono Isabelle che di anni ne hanno appena fatti centottanta, e insegnanti che ne compiono cinquecento quaranta. Per uno Strega, sei un pupo.
Dunque, per restare il clima mozziano,
Adelante, Pedro… que el juicio no te falta!
(E questo atlante interiore é bellissimo. Grazie)
8 giugno 2017 alle 16:17
Sì, Giulio Mozzi, l’anima non è distinta dal corpo ed è proprio per questo che pur essendo libera l’anima soffre.
8 giugno 2017 alle 18:05
All’età di nove anni scrissi la mia prima poesia, più che una poesia un pensiero ermetico o meglio uno slancio sentimentale di un ragazzetto non ancora formato né fisicamente né caratterialmente, poiché la poesia è fatta di metrica e contenuti, di suoni e parole. Avevo appena appreso della morte di mio cugino Giacomo per quel male incurabile noto come cancro. Soffri, piansi molto. Appena un anno prima ero stato al suo quattordicesimo compleanno, c’era un ballo e c’erano ragazze e ragazzi, si faceva il gioco della scopa ed io essendo un ragazzetto ero quello che rimaneva sempre con la scopa in mano a fare penitenza. Poco dopo appresi del suo cancro. Seguii con apprensione l’evoluzione della malattia, si diceva che c’era qualche speranza e che quella speranza era a migliaia di chilometri fuori dalla Sicilia. Ma era solo un’illusione e tutti compresero che quella speranza era dettata dalla disperazione. Tuttavia nel pieno della malattia qualcuno mostrò a Giacomo come praticare yoga. Sta di fatto che i medici non riuscirono a spiegarsi come Giacomo non provasse più alcun dolore, come se l’anima alle porte della sua dipartita dal corpo fosse libera e indistinta dal corpo stesso.
8 giugno 2017 alle 20:59
E’ interessante osservare entrambe le foto e leggere cio’ che scrivi, mentre mi dico che tra la prima e la seconda foto c’e’ un intero mondo.
9 giugno 2017 alle 11:56
Sei invecchiato bene
12 giugno 2017 alle 09:23
“Oggi ho bisogno di compagnia” col bisogno pronunciato in corsivo è frase di un’umanità particolarmente intensa. ti voglio bene (ma per la compagnia devi attrezzati altrove, ok?).
: )
12 giugno 2017 alle 19:00
Sono invecchiato, Dalia.
15 giugno 2017 alle 22:19
Bellissimo. C’è il candore, il pudore, il ritegno, la persona. C’è la storia. C’è la poesia. E meno male che si fanno i bilanci, che il tempo passa, che la vita è bella, bellissima. La cosa che condivido appieno è il concetto di “bisogno” di compagnia. E mi preme sottolinearlo da donna, al neutro. Cosa che secondo me è proprio da ripensare. La solitudine non si elide con la compagnia, anzi si incrementa. Ma la compagnia è quello che ti permette di vederla, di guardarla, di guardarsi l’un l’altro. Che poi è la natura stessa dello scrivere. Dimenticare, non è forse il contrario di scrivere? Qui lo spaccato, la spaccatura forse, del mondo dei libri è solo un pretesto. La compagnia di qualcuno che ti legge è una consolazione. Qualcuno leggerà questa nota, ecco sto per scriverne ancora un pezzettino. Ecco. Ho finito. Son pronta per rileggere la sua Fiction. Grazie (anche di leggere la nota).
16 giugno 2017 alle 22:49
grazie
19 giugno 2017 alle 03:28
“Ma l’anima non è distinta dal corpo.”
Secondo me è invece proprio questo il problema: l’anima sta da qualche parte, mentre il corpo e noi con esso siamo qua, dentro alle nostre giornate senza anima. Quando, miracolosamente o forse no, riusciamo a tirarla fuori da dove è stata dimenticata, a portarla con noi, a mettercela in tasca, o a entrare noi nelle sue tasche, allora è quello il momento che ricorderemo sempre e che tu (Giulio Mozzi) da qualche parte hai descritto tipo… “quel pomeriggio d’estate della fine degli anni ’80, all’incrocio fra via S. Francesco e piazza Togliatti, con il “giubbox” che mandava una canzone …Gianni Morandi… …un ragazzo di colore che chiedeva l’elemosina…” A quel punto, anche se lei baciava un altro non è importante (allora, certo che lo è stato), ma l’anima riunita al nostro corpo, e alle cose che stavamo vivendo, ha portato un soffio di immortalità a quegli istanti rendendoli molto più che indimenticabili.
C’è poi anche una conseguenza negativa, un effetto collaterale,devo dirvelo: quella canzone “Non son degno di te” ancora mi gira in testa da quel 26 giugno 1987, e proprio non riesco a liberarmene.
19 giugno 2017 alle 05:48
Tommaso, mi pare che qui tu adoperi un’idea sentimentale di anima. Invece Alexander C., nel suo breve intervento, ne adoperava un’idea prettamente metafisica. Su quel piano rispondevo: opponendo a una sorta di anima mundi (se non ho capito male) un’idea di anima così individuale da essere non separabile dal corpo (su simili questioni di lana caprina capitò addirittura che un papa, Giovani xxii, venisse contrastato dall’Inquisizione).
La citazione corretta è “un giorno di primavera, alle quattro del pomeriggio, quando aveva diciott’anni, a Torre di Mosto (Ve), all’angolo tra via Mazzini e via Garibaldi”, e non ci sono né juke-box né “ragazzi di colore” (ma di quale colore? esistono forse ragazzi che non hanno colore?). (Qui, punto 7).
19 giugno 2017 alle 06:06
Grazie per questa narrazione di esperienze editoriali: abbiamo avuto modo di riflettere sulla non-casualità di certi percorsi, nonostante le sorprese e le occasioni impreviste. C’è infatti un orientamento della persona che rende possibili certe realizzazioni…