Da Yūgao (夕顔) a Hikaru Genji (光源氏) (Lettere delle eroine, 17)

by
Genji Monogatari, Capitolo IV, stampa ukiyo-e

Genji Monogatari, Capitolo IV, stampa ukiyo-e

di Valentina Durante

[Le Regole del gioco].

Scrivo questa lettera non sapendo dove e quando la leggerai. Non è un bene: di una lettera bisognerebbe conoscere non solo il destinatario, ma anche il luogo e il momento precisi in cui verrà aperta, scorsa con gli occhi (magari precipitosamente, cercando qualcosa che ci interessa), ripresa daccapo per gustarne tutte le sfumature. Io posso solo immaginare: riceverai l’involto da Koremitsu (gli raccomanderò di fartelo avere con urgenza) e non potrai trattenerti dal rompere subito il sigillo, anteponendo il desiderio di stabilire un contatto con me a qualunque attività o pensiero o conversazione ti veda in quel momento impegnato. In realtà, so bene che le cose andranno diversamente: ma visto che l’immaginazione è l’unico privilegio che mi viene concesso, perché non renderla il più amabile e gentile possibile? E se poi è vero, come dicono, che le uniche lettere degne di una qualche attenzione sono quelle scritte in un momento di collera, oppure al calare del giorno, dopo un’attesa troppo lunga, allora questa – che ho scritto nel pomeriggio, dopo aver aspettato inutilmente che arrivassi o che mi mandassi tue notizie (e invece si è fatto vivo solo Koremitsu, per via di sua madre) – credo possa meritare una qualche tua considerazione.

Stasera mi chiederai di venire via con te. O, se non stasera, domani, o un giorno che non credo essere troppo lontano. Ricordo la prima notte che hai passato in questa casa: poco prima dell’alba, mentre ancora ci accarezzavamo sotto le coperte, abbiamo sentito – da fuori, attraverso il paravento – le voci sgraziate dei lavoranti e il fracasso del maglio. Sono rumori normali qui, ci abbiamo fatto l’abitudine. Tu invece ti sei alzato (eri molto indispettito) e hai chiamato Ukon: lei, inchinandosi e scusandosi senza sosta, ha cercato di coprire gli interstizi del paravento con dei cuscini (certo non poteva andar fuori e domandare che si facesse silenzio). Ma a quel punto le voci e il fracasso entravano nella stanza più e peggio di prima, perché avevi iniziato a prestarvi attenzione: hai detto a Ukon di lasciar perdere e di ritirarsi, ma con un nervosismo tanto poco dissimulato (d’altronde perché dovresti usare simili riguardi proprio con noi?) che la poveretta, in tremendo imbarazzo, non riusciva a capire se il tuo comando dovesse essere interpretato tal quale oppure se le stessi chiedendo, larvatamente, un maggiore impegno. Non voglio dire che il tuo comportamento sia stato ingiusto – ti si è presentato un problema e hai fatto quel che potevi per cercare di risolverlo; voglio solo farti capire quanto il tuo fastidio per questo luogo (che davvero non puoi sopportare) sia una condizione difficilmente superabile, che determina in te una costante insofferenza e in me, di riflesso, un inevitabile senso di colpa. Non fraintendermi: ciò che è successo quella notte è di per sé insignificante. Eppure ha messo in evidenza un dato di fatto: ciò che sta qui non ha nulla a che vedere con te: non sono le immagini alle quali sei abituato, né i suoni che ami ascoltare.

Però ci sono io. Io a tutto questo appartengo: la strada sudicia e trascurata, il misero steccato di assi di cipresso, gli spioventi del tetto sul punto di crollare sono mie immagini, così come sono miei suoni le voci dei lavoranti e il fracasso del maglio. Allo stesso tempo, però, io appartengo anche a te. È dunque perfettamente naturale – vista la disparità esistente fra i diritti che abbiamo: praticamente illimitati nel caso tuo, discutibili e di volta in volta soggetti a valutazione nel caso mio – che fra il tuo desiderio e le mie abitudini debba avere la prevalenza il primo. E poi, ciò che mi offri rappresenta un obiettivo miglioramento per me, sotto tutti i punti di vista: amore, considerazione, benessere materiale, prospettive concrete per i figli che avremo, una serenità complessiva che – comunque dovessero andare le cose – non mi obbligherebbe più alle ristrettezze di adesso. Considera però questo: se una donna nata in un’ottima famiglia possiede bellezza, cultura e buone maniere, la cosa non suscita particolare stupore: in circostanze simili, è naturale che sia così. Ma ora immagina: se al di là di un cancello in rovina, invaso dalle erbacce, vivesse nascosta, a tutti sconosciuta, una donna con queste stesse qualità, non sarebbe una scoperta a suo modo straordinaria? Ci si domanderebbe come ciò sia possibile, e basterebbe forse una tale eccezionalità a stimolare l’interesse e l’attrazione nell’uomo che l’ha vista. Puoi essere così sicuro che non sia accaduta la stessa cosa con me? quanto del tuo affetto è veramente legato alla mia persona e quanto alla particolarità della situazione? il vero fascino del recinto di bambù non sta forse nella nebbia sottile che lo avvolge?

Mi hai accusata di non fidarmi di te. Di nascondermi, di tenerti distante. È vero: di me non ti ho detto quasi nulla. Ma il mio nome vale talmente poco… saperlo o non saperlo, che differenza potrebbe fare? E poi, se davvero lo volessi, potresti raccogliere su di me tutte le informazioni che desideri: credi che Ukon non finirebbe per parlare, se le dicessi chi sei realmente? Ma qui subentra quella che io vedo come una tremenda contraddizione: ciò che mi rimproveri – la reticenza – è proprio ciò che tu pratichi per primo e a un livello e con risultati enormemente superiori ai miei (anche nella crudeltà, in un certo senso). Tu per primo non vuoi rivelarmi il tuo nome: questo non solo mi fa intuire chi tu sia realmente, ma soprattutto mi convince della scarsa importanza che dai a me e ai nostri incontri: certo non valgo abbastanza per la tua sincerità. Eppure mi dispiacerebbe se considerassi la confessione che segue come la proposta di un baratto: se ti racconto di me non è certo perché mi attendo, come contropartita, un atteggiamento simile da parte tua. Non dico che non mi farebbe piacere (mentirei), ma ritengo che ogni disvelamento debba essere il risultato di una spontanea, precisa intenzione da parte tua, intenzione che proverebbe che, finalmente, a prescindere da quel che io possa aver detto o fatto per convincerti (non è mai stata mia intenzione convincerti), hai finalmente deciso di fidarti di me.

Ho perso entrambi i genitori da piccola. Mio padre (di mia madre non è importante dire), aveva raggiunto il terzo rango di Corte: una posizione modesta, della quale si è sempre vergognato. Ho avuto, per tre anni, una relazione con un uomo. Non ti dirò chi è: non perché m’interessa proteggerlo, ma perché non so se conoscere la sua identità ti farebbe realmente piacere: potrei forse causarti un dolore e – quanto a soddisfare una tua curiosità – si tratta di un’informazione che potresti ottenere senza grande sforzo. A quest’uomo (e oggi me ne pento) mi ero affidata completamente: sapevo che vedeva altre donne (situazioni come questa sono frequenti, del resto, e che diritti potevo reclamare, io, su di lui, tenuto conto della mia posizione?), e questo lo portava a trascurarmi. Io non gli ho mai fatto pesare nulla. Non mi comportavo così per calcolo, però notavo che la completa accettazione del male che lui, inevitabilmente, finiva per causarmi, lo metteva in difficoltà: avrebbe forse preferito una scenata di gelosia, di tanto in tanto, oppure la franca espressione di un malcontento. Lo avrebbe fatto sentire più amato? Era la mia freddezza (perché come tale lui interpretava la mia docilità) a farlo soffrire? O forse, con il mio comportamento, non facevo altro che alimentare il suo senso di colpa?

Ebbi una figlia da lui. In quel periodo, cominciarono ad arrivare, dalla casa della sua prima moglie, alcune lettere di minaccia. Non ho mai pensato che lui fosse a conoscenza di questo. Ma non faccio neppure una colpa a lei: era il suo unico modo per sopravvivere, dopo tutto: difendeva quel che era suo, odiando me. Noi donne siamo come erbe galleggianti sull’acqua: basta una piccola corrente a trascinarci via; dobbiamo conficcare le nostre radici sottili nel primo appiglio che ci si presenta e tenerle nascoste, proteggerle. Nasciamo con una certa quantità di odio da destinarci a vicenda: dobbiamo amministrarlo con cura, alternandolo con la complicità, valutando bene quando e a chi riservare l’uno o l’altra. Agli occhi di quella donna, io presentavo un rischio troppo elevato e un guadagno troppo incerto: trattarmi con benevolenza non le avrebbe portato alcun vantaggio e poteva, con molta probabilità, causarle un danno. Ma all’epoca i miei ragionamenti non furono così lucidi: semplicemente, mi spaventai. Se avessi pazientato, forse lui avrebbe diradato le sue visite e lei si sarebbe, alla fine, tranquillizzata. Magari avrebbe addirittura capovolto il suo atteggiamento verso di me: nulla è più gradito di una rivale che, per un rivolgimento di fortuna, si riveli improvvisamente innocua. Avrei perso lui, ma almeno non sarei dovuta scappare con la bambina. Invece feci proprio questo: lasciai la casa in gran fretta, rifugiandomi qui. Non gli feci più avere mie notizie. So che mi ha cercata, a lungo: mi domando quanto questo sia stato dovuto a un suo genuino sentimento e quanto a un senso di sconfitta: a volte, non sopportiamo di aver perso qualcosa semplicemente perché lo abbiamo perso. Ma può anche darsi che lui mi abbia amata senza rendersi conto di quanto io fossi infelice: sono stata, ai suoi occhi, un esempio di quelle donne che accettano tutto come se nulla fosse, anche sentimenti che potrebbero essere sinceri, onesti, persino appassionati – se si desse loro modo di manifestarsi pienamente. In me, questa esperienza ha semplicemente rafforzato la consapevolezza di quanto la perdita, nella mia vita, sia un elemento costante: da piccola come fatalità incomprensibile, poi come fatto inevitabile, da accettare con quieta rassegnazione. Non sostengo di essere divenuta quella che sono a causa del mio passato: con tutta probabilità, sarei cresciuta ugualmente introversa, insicura, mansueta eppure costantemente insoddisfatta, accogliente ma involontariamente tirannica. Non è giusto scaricare sugli eventi, agiti e subiti, il peso del nostro carattere.

Questo non significa che io neghi, al passato, la capacità di influenzare – se non addirittura determinare – le nostre decisioni: e allora capisci perché ho tanta difficoltà a fidarmi di te? In particolar modo perché non so di chi dovrei fidarmi (conosco la tua identità, è vero, ma non per esplicita ammissione tua: dunque, le mie decisioni debbono tener conto che, formalmente, io non so nulla). E ogni volta che cerco di farti capire che i tuoi tentativi di dissimulazione (venire qui a piedi, portandoti dietro solo l’uomo della scorta; vestire con abiti dimessi; non lasciare che io ti guardi in viso – e questa è forse la cosa che più mi fa star male) non aiutano me a contrastare quella mancanza di tranquillità che pure mi rimproveri, tu rispondi che l’unica conoscenza che dovrebbe avere una qualche importanza per me è quella del tuo corpo, attraverso il mio. Tutto il resto, dici, è superfluo. A ben vedere, questo è un modo come un altro (forse più astuto di altri) per dirmi che l’unica conoscenza a me consentita è questa, e che debbo farmela bastare. Non lo dico per lamentarmi o per criticarti: probabilmente, se fossi al tuo posto, mi comporterei alla stessa maniera. E forse c’è davvero dell’onestà, nel tuo fingere di essere ciò che non sei: alle maschere, dopo tutto, è concessa una libertà che gli attori non hanno: quella di non dover indossare altre maschere. Però ugualmente, quel tuo continuo ritrattare, quel dire una cosa e poi immediatamente smentirla, non hanno altro effetto su di me se non quello di accrescere i miei dubbi, rendendo l’intera situazione (a volte mi sembra di essere sotto l’incantamento di una volpe bianca) ancora più incomprensibile. Forse ritieni che l’aver suscitato il tuo interesse – nonostante quello che sono e il poco che ho da offrire – possa essere fonte, per me, di una qualche vanità: eppure ti assicuro che, se mai vi fosse vanità, sarebbe ben poca cosa se paragonata alla consapevolezza di non aver accesso alla persona che realmente sei. Chi mai vorrebbe scambiare il canto della cicala con la sua spoglia, trovata ai piedi dell’albero al mattino?

E poi so che – se anche la mia condizione, in questo momento, può sembrare privilegiata agli occhi di altre, se anche tu sembri provare per me un attaccamento particolare – tutto questo non durerà a lungo: ci saranno altre donne, come ci sono sempre state. Certo non mi posso opporre, non è neppure una richiesta – quella della fedeltà – che io possa azzardare. Se resto qui, però, avrò almeno la consolazione di non vedere, di non sapere. E, soprattutto, avrò la libertà di essere infelice. Se vengo con te, questa libertà mi sarebbe preclusa: migliorando la mia condizione, mi verrebbe permesso di provare per te e per tutto ciò che ruota attorno a te (naturalmente anche le altre donne) solo gratitudine. Dovrei essere sempre contenta, appagata, soddisfatta e darlo a vedere: l’infelicità mi sarebbe proibita, verrebbe vista (da me per prima) come uno stato d’animo addirittura insultante. Allo stesso tempo, però, mi si obbligherebbe a una situazione che per me non può prevedere che quella stessa infelicità, perché sarò costretta ad assistere al tuo quotidiano, progressivo, disamorarti di me: strappata all’eccezionalità della situazione attuale (il mio trovarmi qui, in questa casa modesta, in questa strada sudicia), messa a confronto, impietosamente, con donne dotate di rango, aspetto, istruzione enormemente superiori ai miei, io mi mostrerò a te in tutta la mia inadeguatezza. E la rugiada sul fiore di yūgao, che tanto ti era parsa splendente, la prima volta che sei arrivato qui, si rivelerà per quello che è: un’illusione alla luce del crepuscolo, nient’altro che un illusione. Ora dirai che sono io, quella incapace di dimostrare a te sufficiente attaccamento: anche adesso, non sto facendo altro che rovesciarti addosso tutti i miei dubbi. Ma considera che il mio sentimento, per potersi esprimere, è costretto agli strumenti dei quali io dispongo (la calligrafia, la poesia, i classici), che sono molto poveri rispetto ai tuoi: ho quasi l’impressione che il sentimento stesso – così confinato alla limitatezza delle mie conoscenze – ne venga quasi sminuito. Ed è vero anche il contrario: a volte mi vien da pensare che il tuo sentimento esista unicamente perché esistono (e tu sai disporne così abilmente) gli strumenti per esprimerlo.

Quando, la scorsa notte, ho risposto al tuo componimento in maniera sciatta e frettolosa (senza riconoscere i versi di Bai Juyi, che avevo peraltro letto e recitato centinaia di volte), hai reagito con molta indulgenza: mi è sembrato, anzi, che l’intera situazione (per quanto fonte di grande imbarazzo per me) addirittura ti divertisse. Ma cosa accadrà quando non saremo più qui? quando dovrò confrontarmi con le altre?

Fiore non fiore,
nebbia non nebbia.
Viene a mezzanotte,
e torna nuovamente all’alba.

Lei viene come un sogno di primavera – quanto a lungo resterà?
Viene come le nuvole mattutine, senza traccia.

(ora, vedi, quei versi li ho imparati come si deve: ma per quante altre cose mi verrà fatta pesare – o io farò pesare a me stessa – la mia incapacità? quanto mi verrà chiesto di dimostrare ogni giorno?)

Stamattina sei uscito all’alba e io mi sono subito riaddormentata. Al risveglio, la pioggia, caduta per tutta la notte, aveva lasciato posto a una mattinata tersa e limpidissima: gli steli d’erba, in giardino, si curvavano sotto il peso della rugiada. La grondaia del tetto, parzialmente lacerata dal vento, era avvolta in sottili ragnatele che trattenevano, qua e là, una goccia: brillava, come una gemma bianca e preziosa appesa a un filo di seta, appena visibile. Altre ragnatele si erano impigliate alle stecche romboidali del cancello, e anche da esse stillavano gocce che – illuminate dai raggi ormai alti del sole – erano color dell’arcobaleno. Sulla balaustra, oltre la cortina di bambù, passeggiava un gatto con un collare rosso e una targhetta bianca: camminava impettito, trascinandosi dietro la corda alla quale era legato (doveva essere scappato a qualcuno, forse approfittando del trambusto del temporale). Per una buona mezz’ora sono rimasta a osservare la scena: ho cercato di imprimermi nella memoria ogni particolare, così da potertelo poi raccontare a voce, o descrivere per iscritto. Naturalmente non posso pretendere da te entusiasmo per piccolezze simili, eppure la mia vita – dunque la maggior parte delle cose che conosco e che potrei condividere con te – è fatta quasi esclusivamente di queste piccole cose insignificanti: potrei trascorrere ore (non solo perché non ho altro da fare, ma anche perché la cosa mi procura un genuino piacere) a osservare la particolare angolazione di un raggio di sole che colpisce lo steccato, oppure, in primavera, le gemme chiuse dei salici, come minuscoli bozzoli di seta.

L’aria era tiepida: ho steso una stuoia di paglia sul bordo della terrazza – il legno era inondato di luce – e mi sono seduta, sospingendo all’interno il paravento. Certa che nessuno mi stesse guardando (nei paraggi c’era solo Ukon), mi sono rimboccata le maniche del kimono scoprendo interamente gli avambracci. Quanto conosci, tu, di me? Ci incontriamo solo di notte: non ci siamo mai visti realmente. Come posso piacerti? come potrò continuare a piacerti? La pelle del mio avambraccio era bianca, percorsa, sulla parte interna, più tenera, da venature bluastre, di intensità crescente dai lati al centro. I peli stavano ricrescendo, ed erano corti, scuri e ispidi. La mia è ancora una pelle giovane: tra qualche anno, forse, si scurirà, sarà meno uniforme, le striature bianche sul dorso delle mani più evidenti, come tante cellette di un alveare. Ho raccolto un po’ di saliva in bocca e l’ho tenuta fra i denti e la lingua. Poi l’ho fatta colare sull’avambraccio, facendo attenzione che non scivolasse giù, a terra. La saliva, inizialmente un grumo abbastanza compatto, si è subito distesa (è bastato un piccolo movimento) in un lombrico gelatinoso e trasparente, cosparso di tante bollicine: alcune più piccole, altre più grandi. Ho alzato l’avambraccio pian piano, lasciando che la saliva corresse, assottigliandosi, e disegnasse sulla pelle una scia luminescente di lumaca. Ho staccato un bastoncino sottile dalla stuoia e, con pazienza, ho radunato tutte le bollicine fino a riportarle al grumo iniziale (una parte del lombrico gelatinoso si era perduta, nel suo scivolare in su e in giù). A quel punto, con il bastoncino di legno, ho cercato di far scoppiare le bollicine, a una a una: non è stato facile, perché la saliva non è come il sapone, ha (se ci hai mai fatto caso) una qualità gommosa: le bollicine, pur penetrate dal bastoncino, non si rompevano, anzi, lo avvolgevano interamente, quasi volessero ingoiarlo. Eppure ogni difficoltà era la benvenuta, perché faceva sì che questa mia occupazione (che per me rappresentava una novità) si prolungasse per un tempo ben superiore a quello che mi ero prefissata. Mi dicevo: «Prima che anche questa bollicina scoppi, lui arriverà (cosa che sapevo non essere possibile, giacché te n’eri andato solo da qualche ora)». Oppure: «Prima che scoppi quest’altra, si presenterà Koremitsu con una lettera (e anche questo sapevo che non poteva accadere, perché non erano previste, per la mattinata, visite di Koremitsu a sua madre).» O ancora: «Se riesco a far scoppiare questa – che è davvero minuscola – scriverò qualcosa e manderò qualcuno da lui (cosa che non avrei mai fatto: potevo forse scriverti dei versi sulla saliva sputata sul mio avambraccio?)». E così me ne sono stata in terrazza per quasi un’ora, facendo, a ben vedere, proprio un bel niente. Sarebbe stato più saggio prendere in mano un volume del Man’yōshū, oppure esercitarsi con la calligrafia: dovrei impiegare ogni secondo del mio tempo per migliorarmi. Invece non l’ho fatto, mi sono limitata a oziare. Qui ho la libertà di farlo: di non fare nulla, di non doverti dimostrare nulla. Ho la libertà di essere brutta, se voglio: di essere sgradevole, di sudare, di ascoltare i rumori della mia digestione, di sentir salire dalle gambe l’odore del mio mestruo (che tu non conosci, perché in quei giorni sono impura e non posso vederti). Ho la libertà di denudarmi, se voglio, di non depilare le sopracciglia, di non annerire i denti, di non incipriare il viso, di invecchiare, senza sentirmi per questo minacciata da chi è più giovane di me. Tu mi proponi di rinunciare a tutto questo, in nome di una felicità che, come mi verrà data, mi verrà anche tolta. Certo, anche quando tu ti stancherai, mi resteranno comunque quei vantaggi materiali che – se non altro per un senso di obbligo, o perché nel frattempo avremo avuto dei figli – non potrai non concedermi. E poi: non ho vissuto finora, prima di conoscerti, senza che tu mi amassi? Ma la situazione era completamente diversa: un ciliegio nato coi rami spogli, non può sentire la mancanza dei fiori che non ha mai avuto o può sentirla solo come assenza astratta, suscitata dal confronto con gli altri alberi in boccio. Se io vengo con te, perdo ogni cosa: soprattutto la libertà di non avere nulla da perdere.

Ora dirai che la mia è paura, e nient’altro. Sì, è vero: ho paura di te perché – conoscendo il sentimento che provo – so bene che, se tu lo volessi, potresti semplicemente schiacciarmi. Ma non è solo questo. So che quanto sto per dire può sembrarti privo di rispetto e anche di buonsenso, eppure la paura che sento in me, è la stessa paura che sento anche in te. Noi che siamo così diversi – come più volte ho ripetuto (per ricordarlo a me stessa, più che altro, e impormi di tenerlo sempre presente) – diventiamo improvvisamente uguali: ci assomigliamo nella paura che abbiamo l’uno dell’altra. E questa è forse la mia resistenza più grande: potrei convivere, in qualche modo, con la paura di essere schiacciata da te e con la sofferenza che potrebbe derivarne, ma non riuscirei mai a sopportare l’idea, nemmeno per un istante, di poter, in qualche modo, volontariamente o senza averne colpa, schiacciare te. È come se avessi ricevuto in dono un pezzo di vasellame bellissimo e fragilissimo: anche solo lucidandolo, so che potrei rischiare di romperlo. D’altra parte, non toccarlo significherebbe condannarlo alla polvere e all’opacità, impedirgli di brillare della luce che gli sarebbe propria: questo, in un certo senso, è delittuoso, anche perché si tratterebbe di una conseguenza certa, a differenza della rottura, che è solo un evento possibile. E allora che fare?

Si dovrebbe scrivere una lettera per ottenere, in chi la legge, un qualche tipo di reazione: arrivata alla fine, non so davvero che cosa io mi aspettassi. Da un certo punto di vista, sarebbe più logico che questa lettera restasse a me. Ma se così fosse, se io decidessi di negare a questa lettera un interlocutore, finirei per negare la sua stessa esistenza: parole che non vengono lette, è come se non fossero mai state scritte. Credo che terrò nascosti questi fogli, almeno per stanotte: tu arriverai fra qualche ora (io forse starò già dormendo e Ukon verrà a svegliarmi) e tutto sarà come sempre. Proseguiremo con le nostre finzioni: tu a fingere di non essere quello che sei, io a fingere di crederti e di non aver avuto alcun motivo per scrivere quanto ho scritto – in un equilibrio che si regge grazie alla paura di entrambi. E se ti domandi perché io continui ad accettare questa situazione (potrei benissimo andarmene, come del resto ho già dato prova, in passato, di saper fare), perché, in definitiva, io mi pieghi a uno stato di cose che è di massima incertezza per me, da tutti i punti di vista, posso risponderti con la sola verità della quale sono certa: io sono innamorata di te. E in questo momento, mentre col pennello traccio gli ultimi segni sulla carta, mi sembra l’unica cosa che realmente conti.

Dama Yūgao compare nel quarto capitolo del Genji Monogatari (源氏物語). Qui c’è un sintetico riassunto. Lo yūgao (letteralmente: “volto di sera, bella di sera”) è una pianta rampicante della famiglia delle Cucurbitacee che produce fiori bianchi, simili al convolvolo, dalla vita brevissima: sbocciano la sera e sfioriscono la mattina seguente.

Yūgao

Yūgao

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Una Risposta to “Da Yūgao (夕顔) a Hikaru Genji (光源氏) (Lettere delle eroine, 17)”

  1. Nadia Bertolani Says:

    Per me una scoperta! Bellissima e ricca questa “calligrafia” dei sentimenti.

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