[Le regole del gioco].
O congiunzione d’astri, o scritto fato,
o volontà di nume, o forse nulla:
non so chi fu a decidere il mio stato,
cuore virile in corpo di fanciulla.
Pure, se tal motore mi fu dato,
mi fe’ diversa già fin dalla culla:
figlia di pelle bianca e madre nera,
ebbi per balia una selvaggia fiera.
Io di sangue cristiano, eppur nemica
a quel bizzarro dio piantato in croce;
femmina, e scambiai l’ozio e la fatica,
balsami e sangue, tenero ed atroce;
bella, ma il seno ascoso da lorica,
l’elmo a mutarmi l’armoniosa voce.
Io sempre estranea al mondo, fui diversa
finanche da me stessa, infine, e persa.
Prima di sprofondare nel tuo sguardo
non conobbi in amor niuna procella:
sovente saettava Amor un dardo
per gli occhi d’una dama o d’un’ancella,
e s’alcuna vincea ‘l mio baluardo
non governava la mia cittadella,
ch’io tornava sovrana in poco d’ora;
né uomo mai poté farvi dimora.
Ma quell’oscura stella che mi volle
libera al mondo e schiava al mio destino
– o fosse il caso, o fosse un nume folle –
quel giorno mi guidò sul tuo cammino.
Mentre mi dissetavo a quelle polle
m’entrò nel core un diavolo aguzzino
che da quell’ora in poi mi tolse il fiato
pensando al modo in cui m’avei guardato.
Come sommessa a un sortilegio arcano
sempre il tuo viso mi vedea davante;
soldato o duce, nobile o villano,
ognun pareva avesse il tuo sembiante:
ridea del tuo sorriso Solimano
e gli occhi tuoi mostrava in viso Argante.
Tremavo, ma la nova mia paura
tenea celata dentro l’armatura.
Attesi giorni. Poi vinsi il languore
quando mi fece specchio il mio cimiero.
«Or ti riscuoti, donna, ché il tremore»
mi dissi «non s’addice ad un guerriero».
Così recisi il mostro dal mio cuore
come più avante feci con Gerniero
quando, pel mio fendente, la sua mano
corse il declivio e si fermò nel piano.
Con nuova foga mi gettai nei campi
tra gli usberghi corruschi e lance e lame,
e tra fumi e scintille e polve e lampi
quel volto di cui avevo ancora fame
cercavo, e mi dicea «Non vo’ che scampi,
non vo’ ch’ei si sottragga alle mie brame,
che non d’amore sono, ch’io non voglio,
ma son di morte, ch’io so dare e soglio».
Percorsi i tristi campi in lungo e in lato
e infine t’incontrai. Ma quella pugna
che nel delirio avevo disiato
ecco che d’improvviso mi ripugna,
ecco che il tuo parlare disperato
ogni difesa dal mio core espugna
e fatta sasso ascolto te che chiedi:
«Eccoti il petto mio: or ché nol fiedi?»
«Alzati, o mio signore» t’avrei detto
«ch’io non ti son, più che tu a me, minaccia,
alzati, e ogni più lugubre sospetto
dalla tua mente, dal tuo cuor discaccia,
e se l’usbergo trarre vuoi dal petto
lascia ch’io sia colei che i nodi slaccia
e anch’io alle mani tue non porrò freno
finché al tuo petto s’unirà il mio seno».
Ma i motti miei rimasero non detti
ché il tempo all’intenzion non fu bastante
perché di cavalieri maledetti
giunse ratto un manipolo schiumante
e l’un di loro mi colpì, e perdetti
la vita no, che ti facesti innante
e ne deviasti il colpo e la baldanza,
ma la mia acerba gioia e la speranza.
Io ch’al ferro e all’amor mi credea forte,
vidi allor che mia fede era illusoria!
«Non tocca a me il governo di mia sorte!
Ma se colui che ha scritto la mia storia
non v’ha vergato amor, ma invece morte…
che sia!, ma non disgiunta dalla gloria!»
Così pensai, ed al cristian bivacco
deliberai quel disperato attacco.
Alto era il rischio, e no ’l volevo imporre,
ma Argante non lasciò ch’io andassi sola,
e al suo volere non mi seppi opporre.
Ma lui del suo valor non mi fe’ schola,
ché io non fui, poi che bruciò la torre,
lesta a seguirlo via: col cuore in gola
rimasi esclusa alle richiuse porte.
Compresi e dissi: «Benvenuta, Morte!»
E la morte eri tu. Quando ti vidi
solo a seguir le malcelate forme
ed avanzar per i sentieri infidi
che mostravano chiare le mie orme,
di non poter sfuggire ormai m’avvidi,
e al mio destino volli esser conforme.
Così mi fe’ gagliarda, e «Cosa porte?»
ti chiesi. Rispondesti: «E guerra e morte.»
E guerra e morte fu. Di quel duello
non rammento fatica né dolore:
se il corpo c’era, non così il cervello
che il primo non seguia nel suo furore.
Pure nella memoria rinnovello
quei novi gesti e il novo mio stupore:
quando tra le tue braccia mi stringesti,
quando il tuo ferro nel mio sen spingesti.
Una stanchezza prima mai provata
mi riempì dopo il mortale amplesso;
ma ti stavo vicina, e ne fui grata
come del più bel dono mai concesso.
Perciò, quando la vista ebbi annebbiata,
ti domandai d’aver con l’acqua accesso
a quel tuo sconosciuto paradiso:
per rivedere un giorno il tuo bel viso.
Ma non avrò, né avrai, questo conforto,
la verità, svelata, è cruda e triste:
se esiste un dio, gli abbiamo fatto torto,
ché un dio per cui si uccide non esiste.
La mia condanna è questo oscuro porto,
dove solo il ricordo ormai resiste;
ma ignoro quale nume me l’ha dato…
o congiunzione d’astri, o scritto fato.
2 agosto 2016 alle 07:55
Wow!!!
2 agosto 2016 alle 08:08
Sono sconvolta dalla bellezza di questa Lettera!
2 agosto 2016 alle 08:19
Come Nadia. (circa 😀 più che sconvolta, sono impressionata)
2 agosto 2016 alle 09:20
Una lettera appassionata, toccante, incisiva in ogni singolo verso, con una chiusa degna della bellezza dell’intero componimento.
Una Clorinda più che credibile: quasi vera! Grazie d’averla condivisa! E complimenti!
2 agosto 2016 alle 12:54
Come Nadia e Ma.Ma. E’ da utilizzare a scuola quando si affronta il canto XII. L’ultima ottava è di un’intensità commovente, specie questi versi:
se esiste un dio, gli abbiamo fatto torto,
ché un dio per cui si uccide non esiste.
2 agosto 2016 alle 14:38
“ 17 maggio 1994 – « Ahi vista! Ahi conoscenza! » (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata. Il combattimento fra Tancredi e Clorinda) [*]
[*] Lsds / 73…
2 agosto 2016 alle 16:21
“Wow” lo dico io! Non immaginavo questi commenti e tutte queste belle parole. Inaspettate e belle!
Grazie a tutti.
2 agosto 2016 alle 17:13
Ho dimenticato il mio: wow!
2 agosto 2016 alle 18:18
Veramente convincenti per contenuto, eufonia e tonicità queste ottave di endecasillabi in rima alternata con gli ultimi due in rima baciata… Condivido con Donatella la particolare pregnanza dell’ultimo distico!
2 agosto 2016 alle 19:55
Ancor non giunsi al termine del carme
che già ‘l principio aveami rapito:
codesta donna dal virile core
seduce e mi soddisfa mentre parla.
La sua diversità, il suo tormento
risveglia dentro me il godimento.
Scusa il troiaio inviatoti: l’alternativa sarebbe stata il silenzio (tu dirai che era meglio e io ti risponderò che la logorrea, sia essa laringea o cartacea, è una brutta bestia) perché ero senza parole.
Comunque bello anche il tuo sito e poi mi sento affine per raggiunti limiti di invincibilità.
Attanasia
2 agosto 2016 alle 20:07
Cioè… wow!
2 agosto 2016 alle 21:16
Comunque, le andò meglio che al Prode Anselmo che andò in guerra e mise l’elmo .Che,dato che era bucato ( l’elmo ) lo fregò, facendolo morire di sete. Matta
2 agosto 2016 alle 21:36
Per chi non la sapesse, ecco la storia del Prode Anselmo.
2 agosto 2016 alle 23:24
Maria Cristina, altro che silenzio: i tuoi versi sono deliziosi. Sono… wow!
Grazie ancora a tutti delle belle parole.
3 agosto 2016 alle 10:55
Elegante e abile riscrittura di Tasso, complimenti Attanasio!
Spero di poter competere con la lettera che ho inviato alle eroine, anche se la mia non è in versi.
La sentenza inappellabile a Giulio, sempre che mi ritenga degna di pubblicazione.
Cinzia Della Ciana
3 agosto 2016 alle 18:24
Davvero complimenti! Brividi (e un po’ di magone) sul finale.
3 agosto 2016 alle 21:01
Grazie, Giulio. Baciata o no, endecasillabi o no , ho fatto un ripassino e riso di cuore.Le parole di Venosta mi hanno ricirdato quelle di Collodi al Direttore del giornale che pubblicò “Pinocchio ” (le avventure di un burattino. – …Ti mando una ragazzata.Fanne ciò che ti pare -) a puntate. Una “ragazzata”che non finisce di essere attuale.Che ne pensi? Matta
3 agosto 2016 alle 21:56
Caro Attanasio, mi pento di non averti sposato a tempo debito! Mi piace tanto quello che hai scritto, complimenti e un abbraccio.
4 agosto 2016 alle 01:05
Caspita, davvero complimenti, Attanasio 🙂
4 agosto 2016 alle 07:39
Morena, è uno scoop?
4 agosto 2016 alle 07:56
“ Lunedì 29 giugno 1999 – « Sarebbe una bella coppia, ma temo che Tancredi debba mirare più in alto, intendo dire più in basso » (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit.) “ [*]
[*] Lsds / 73…
5 agosto 2016 alle 19:26
Morena, mi ero perso il tuo commento (e gli ultimi della lista qui sopra, per i quali ancora ringrazio).
Il nostro amore ricorda un po’ quello di Clorinda e Tancredi: io lì a offrirti il cuore, tu sempre fuggitiva… visto com’è andata a loro due, forse abbiamo fatto bene a non sposarci!! 😀
Ti abbraccio forte anch’io.
Acabarra59, maestro d’arguzia! Prima o poi ti citerò in un qualche sonetto! O forse l’ho già fatto…
13 agosto 2016 alle 21:59
Attanasio, è stupenda. Ho provato a “cantarmela” e ho capito di più. Vi ho trovato l’ossessione per l’amato, il conflitto con il senso del dovere, il corpo dissociato dal cervello, la ricongiunzione nella pietà. Ti confermo che Clorinda è viva ed è tra noi. Grazie.