di Demetrio Paolin
Giacomo Sartori in Sono Dio (NN Editore) costruisce un libro comico e questi appunti nascono per spiegare meglio questa mia affermazione perentoria. Prima ecco in breve la trama: in un momento impensato e impensabile della sua vita eterna, Dio fissa il suo sguardo su una ragazza che dentro una stalla sta praticando una inseminazione artificiale su una vacca. All’inizio Dio è incuriosito da questa creatura, per lui simile in tutto e per tutto a un bacillo della peste, a un spugna marina o a un neutrino… Con il tempo, il suo interesse e la sua attenzione convergono nella vita di questa ragazza, quasi che se ne volesse/potesse (volere e potere in Dio coincidono) innamorare.
La storia del romanzo è tutta qui: la trovata narrativa è appunto quella di costruire un diario di scrittura, attraverso il quale Dio osserva la vita di questa ragazza e il suo progressivo entrare in contatto con lei.
Perché ho parlato di libro comico?
Provo a fornire qualche spiegazione, partendo da quella più ovvia: lo stile del libro. Sartori, in questo specifico caso, costruisce i vari capitoli usando un linguaggio e una costruzione delle storie dove il comico si lega all’assurdo. Assurde sono certe riflessioni di Dio stesso sul tempo, sullo scrivere, sulla lingua; comici sono alcuni suoi pensieri e azioni come quando in un impeto di gelosia decide di “cambiare il corso delle cose nel mondo” e di spedire un possibile spasimante della ragazza in Australia.
Se questo fosse il libro, però, ci troveremmo davanti a una brillante trovata superficiale. Una sorta di commedia degli equivoci ai cui al ricco potente si sostituisce il Dio onnipotente.
In Sono Dio c’è qualcosa di più, una sorta di disturbo, che ancora una volta parte della lingua. Spesso e volentieri nel corso del romanzo il Dio narrante si accorge di come le sue parole siano povere per esprimere quello che sente; eppure lui è potente, è grande, è tutto quello che noi immaginiamo: è l’essere perfettissimo del catechismo di Pio IX, ma la sua lingua balbetta, la sua parola non è precisa, tanto che spesso usa l’interlocuzione “se così si può dire” a significare uno scarto tra l’esperienza che sta vivendo e il suo essere Dio.
Questa sentimento di umiliazione o di abbassamento non è altro che la kenosi divina, un modo differente di raccontare di come Dio umili se stesso fino alla morte e alla morte di croce per dirla con Paolo. Nel caso di Sartori ovviamente non abbiamo una vera e propria kenosi e neppure la drammaticità della lettera ai Filippesi.
È come se il Dio di questo romanzo fosse invecchiato, rispetto a quello della Bibbia, e fosse diventato più saggio e più distaccato, ma sentisse nonostante tutto, nonostante il cinismo e l’ironia di fondo, ancora una profonda attrazione per questo piccolo e insignificante pianeta e per un suo abitante.
Cosa intendo quando parlo di comico in questo caso? La comicità è l’umiliazione di sé, è vergognarsi di ciò che si è per voler essere altro (interpreto in modo molto ampio un saggio di Agamben contenuto in Categorie Italiane): e il Dio di Sartori, come il Dio della Bibbia – anche se Sartori cerca in tutti i modi di dirci che non è lui, non riuscendoci, – vuole umiliare se stesso e prendere la forma umana solo per poter parlare con la ragazza, solo per vedere che tipo di reazione avrebbe nel momento in cui lei gli parla o lo tocca. Dio rinuncerebbe alla sua totale onniscienza e potenza solo per capire come si sta prima e dopo l’incontro con lei, senza saperlo ab aeterno.
Credo questo sia il cuore vero del libro, l’intuizione di verità del testo di Sartori, un Dio che si dimette da sé per vedere come è essere umani. A rendere ancora più interessante il romanzo è il fatto che l’autore – come il suo io narrante – sia rimasto spaventato da questa immaginazione, e proprio per questo motivo ha adottato l’ironia, l’assurdo e il sarcasmo come cifra del racconto (un’unica nota stonata è il riferimento alla pedofila di un prelato per giustificare una serie di scelte della protagonista, un riferimento gratuito nella trama e nella costruzione del personaggio, e in più superfluo).
Il comico, quindi, viene scelto come protezione perché Sartori si è avvicinato al centro nevralgico del credere e del problema di Dio, e ne ha provato timore (il buon vecchio timor di Dio?). Sartori ha descritto un Dio che rinuncia a tutto per amore di un essere umano, un Dio che cede se stesso nella creazione, un Dio che pregiudica la sua esistenza pur di sentire cosa è un uomo, pur di salvarlo.
Un testo che forse non volendo (non credo che fosse questo l’intento del romanzo Sono Dio, ma come sempre l’opera sfugge alle intenzioni del suo autore) ci porta a ragionare su cosa è l’incarnazione, su cosa è amore e su cosa è per Dio l’umiliarsi fino a farsi carne, da logos che era.
7 luglio 2016 alle 07:45
Bella l’idea che l’espressione “se così si può dire” sia attribuita a Dio che cerca parole per la sua esperienza, umana diciamo. E non, come di consueto – nella Torah, almeno – il contrario: all’uomo per parlare di Dio. Mi fa pensare ancora di più all’incarnazione come mistero dell’incontro, con dolcezza, mitezza, umiltà.
A questo proposito, per qualcuno forse può essere utile questo libriccino:
http://www.ibs.it/code/9788810207062/de-benedetti-paolo/cosi-puo-dire.html
7 luglio 2016 alle 11:46
Conosco il libro di De Benedetti (e anche lui come persona) anche a me ha colpito molto questo modo di porsi dell’io narrante rispetto alla lingua e al dire. Ho sentito in questo senso proprio che lo scrittore, quasi suo malgrado, avesse toccato un mistero.
19 ottobre 2016 alle 08:00
[…] che derivano dalle accentuazioni del comico in Sono Dio. Una lettura teologica apparsa su Vibrisse il 6 luglio proviene da Demetrio Paolin, per il quale in Sono Dio “la comicità è l’umiliazione […]