It, di Stephen King

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di Marco Candida

[Avrei voluto scrivere questo articolo da quando sono alto così. Oggi che ho l’età di Bill Denbrough nel 1985, l’ho fatto. Forse, alla fine, anch’io ho affrontato il mio It]

Dedicato con affetto a Stephen King

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Stephen King ha scritto It tra il 1981 e 1985. Un dato non secondario se si considera che nell’edizione italiana It consta complessivamente di ben 1238 pagine. I protagonisti sono sette: Mike, Bill, Richie, Ben, Eddie, Stan e Beverly. L’antagonista è uno e settuplo: It è un’entità multiforme che di volta in volta si presenta come uccello gigantesco, mummia, lebbroso, lupo mannaro, ragno gigante…, ma gira per Derry preferibilmente nei panni di un pagliaccio. Tra i personaggi non protagonisti spiccano Audra Philips la moglie di Bill (leader dei sette ragazzi) e Tom Rogan il marito di Beverly (antesignano di Norman Bates nel romanzo Rose Madder). Poi ci sono anche grandi personaggi secondari come Mr. Keene il gestore del Drug Store Center di Derry (quello dell’effetto “placebo”; la medicina per l’asma di Eddie è in realtà acqua zucchero e un pizzico di canfora); Adrian Mellon (l’omosessuale divorato da It: la vittima che nel 1984 segnala il risveglio trentennale del mostro di Derry); Will Hanlon che racconta al figlio Mike i misteriosi incidenti occorsi ogni trent’anni circa nella cittadina di Derry; e poi Henry Bowers assieme a Belch Huggins e Victor Criss nella parte dei bulli che danno la caccia a Bill &Co.; Richard P. Macklin… senza dimenticare personaggi di sfondo divinamente tratteggiati quali Mandy Fazio o Rena Davenport o il sergente Wilson o Patrick Hockstetter… Infine c’è Derry. Derry è un personaggio del romanzo tanto quanto lo sono Ben o Richie, ma assai più complesso da raccontare essendo Derry un’intera città. La narrazione trabocca di storie – fatti a se stanti e dotati ciascuno di originalità. E va da sé che, essendo il numero di protagonisti così ampio, gli intrecci sono molto numerosi.

Date tali premesse, suona piuttosto comprensibile domandarsi: ma come c’è riuscito, Stephen King, a gestire una tale congerie di personaggi e situazioni?
La risposta più immediata è che Stephen King sia dotato di capacità mostruose. Si può essere bravi e capaci per trecento pagine, per cinquecento pagine, ma per mille e passa pagine e per di più scritte in poco meno di quattro anni l’impresa dà le vertigini – e ad alcuni fa venire i vermi. King viene da un altro pianeta. Quando sei un po’ più cresciutello, una possibile risposta (mentre magari ti sei appena spremuto qualche goccia di limone nel naso per farti passare la sbornia seduto al bancone di un bar come Ben Hanscom di ritorno a Derry) è che King si faccia aiutare. La moglie. I figli. Amici. Un’altra risposta possibile la fornisce King stesso nella sua autobiografia On writing. Per qualche tempo l’autore del Maine ha fatto uso di sostanze stupefacenti. Rimane il fatto che It ha una mole talmente spaventosa che la questione è ugualmente difficile da chiudere. Esiste un motivo reale, razionale e leale? Come riesce, quest’uomo, a essere così mostruosamente in gamba? La risposta si trova analizzando il testo.

Sta tutto nella prospettiva. Siamo abituati a leggere un romanzo dalla prima all’ultima parola. Non saltiamo le pagine. Se qualcuno salta a leggere l’ultima pagina di un libro, lo guardiamo come se avesse appena compiuto uno dei più grandi gesti sacrileghi al mondo. Leggiamo parola per parola procedendo dall’alto verso il basso. Leggiamo verticalmente. Non orizzontalmente. Questo non permette di accorgersi delle regolarità: consente di gustarle, forse; ma non di vederle. Chiunque impazzirebbe se dovesse gestire una quantità così numerosa di personaggi e situazioni come quelle presenti in It – cocaina o non cocaina, aiutanti o non aiutanti, marziani, venusiani o semplici terrestri che si sia. Impazzirebbe o, con minor enfasi, si perderebbe e mollerebbe lì. Almeno che si desse regole. Un metodo.
Osserviamo il testo.
Il libro è diviso in varie parti. C’è una parte prima e c’è una parte quinta (quella del Rito di Chüd che permette ai protagonisti di sconfiggere It); ci sono sezioni definite “interludi” e sono resoconti in prima persona scritti da Mike; ci sono capitoli scritti interamente in corsivo e altri scritti a caratteri normali; e poi ci sono i vari personaggi principali e secondari. Ora, sforziamoci di considerare questi come elementi d’ordine, segnali di regolarità. Alcuni elementi sono quelli più comuni e ovvi come dividere il testo in parti e capitoli. Servono, come al solito, a razionalizzare, enfatizzare, creare suspense, incuriosire. Altri elementi sono però meno ovvi.
Prima di analizzare questi elementi, tuttavia, è forse utile fermarsi e riassumere la trama del romanzo di modo da avere lo sfondo generale di ciò di cui stiamo parlando. Essendo un romanzo assai espanso, It si può riassumere in più modi. E’ innanzitutto la classica storia di un mostro che commette omicidi in serie. Il travestimento che il killer usa è quello di un clown simile a Pennywise, Bozo, Clarabella e Ronald McDonald. Si veste così per attirare meglio le prede, che sono i bambini. Un altro modo di riassumere la storia narrata da Stephen King è considerarla la vicenda di una cittadina del Maine di nome Derry interamente posseduta da uno spirito maligno che la fa diventare teatro di eventi sovrannaturali e terrificanti. Ci sono storie di possessioni diaboliche di singoli soggetti o di gruppi di persone, ma non di un’intera comunità. It è la storia della possessione da parte di un demone maligno di una città intera. Il romanzo può essere altresì presentato come l’impresa da parte di un gruppo di ragazzini e di adulti nell’opporsi a tale entità malefica e sovrannaturale. O addirittura, più in specifico, la vicenda di come Bill si vendichi dell’efferata uccisione (un braccio brutalmente strappato via) del suo fratellino Georgie da parte di un essere malvagio. Ora che abbiamo un’idea di quale sia la storia di It, possiamo proseguire, analizzando quelli definiti poco fa come “elementi d’ordine”, “segnali di regolarità”. Quale metodo, insomma, Stephen King abbia impiegato per gestire un romanzo di grandezza così mastodontica come It.
Prendiamo gli “Interludi”. Se leggiamo gli Interludi uno di seguito all’altro non solo rileviamo che si tratta di resoconti circa le apparizioni di It a Derry nel corso di decenni e addirittura secoli, ma sono anche, ecco il dato realmente interessante, la narrazione di scene di scazzottate, esplosioni, incendi e sparatorie che coinvolgono una gran massa di personaggi. Si concludono sempre così. Perciò ogni volta che in It incontriamo un Interludio, non c’è scampo: ci aspetta una scena assai spettacolare, pirotecnica e violenta.
Il primo Interludio narra l’esplosione delle Ferriere Kitchner. 1906. Nelle Ferriere si svolge una caccia all’Uovo di Pasqua. Vi partecipano numerosi bambini di Derry. Durante la caccia all’uovo le Ferriere esplodono. In realtà questo primo interludio è la prova generale di quel che verrà più tardi. King ha ormai le idee chiare: per mostrare quanto Derry sia una città in balia di forze sovrannaturali e malintenzionate, si dedicherà, negli Interludi, a scene di omicidi di massa. Dopo circa quaranta pagine dove il padre di Mike racconta le sue disavventure alle prese con un sergente matto come un cavallo che lo costringe a scavare fosse per seppellirci feci (e l’episodio del sergente Wilson potrebbe benissimo essere una storia a se stante) si narra dell’incendio al Punto Nero. A scatenarlo è la Legione Bianca – una sorta di Ku Kux Klan locale. E’ il 1930. Il Punto Nero è una vecchia baracca di lamiera ondulata che diventa un circolo di ritrovo per uomini e donne dalla pelle di colore scuro. Da quel gran narratore che è, King racconta magistralmente le vicende del circolo (dove lavora anche Dick Halloran; quello di Shining), tira fuori dal cilindro personaggi su personaggi ai quali assegna mestieri, hobby (il jazz e il Dixieland in particolare) e ideali. Ti ci fa proprio affezionare, poi fa crepare tutti e buona notte al secchio; e questo in King è un classico: forse persino il segreto del suo successo, anche se bisogna essere bravi come lui a narrare e a creare la giusta intimità. Questa volta quel che viene descritto è un incendio – e al Punto Nero si scatena un autentico finimondo.
Il terzo interludio racconta l’esecuzione della banda Bradley in centro città. Anche qui è interessante notare una cosa: un climax. Se nei primi due interludi gli incidenti narrati sono tutto sommato verosimili, man mano che si prosegue ci si addentra sempre più nel regno dell’improbabile. Nel terzo interludio, infatti, si verifica una sparatoria con moltissimi soggetti coinvolti nel bel mezzo di una cittadina di cinquantamila e pussa abitanti alla quale partecipa pure un bel mucchio di cittadini. Nel quarto interludio si narra addirittura di un uomo che si presenta in un locale affollato di Derry con un’ascia in mano e l’abbatte su quattro astanti seduti a un tavolino mentre gli altri presenti seguitano a giocare a carte come se nulla fosse. It rende possibile tutto questo: quell’It che si manifesta nel secondo interludio sottoforma di uccello gigantesco tenuto in aria da un mazzo di palloncini colorati all’estremità e che partecipa alla sparatoria del terzo interludio sparando con fucili dalle forme ridicole da un balcone e sfidando ogni legge fisica della gravità.
Ora che abbiamo reso l’idea su questo punto, passiamo alle parti scritte in corsivo. Ogni volta che si apre una nuova Parte (Prima Parte, Seconda Parte…), c’è un capitolo in corsivo. Se si leggono queste porzioni di testo una di seguito all’altra (compiendo perciò il gesto sacrilego di saltare pagine e pagine) ci si rende conto che ognuna di esse oltre a introdurre il personaggio protagonista della vicenda che sta per essere raccontata (Eddie piuttosto che Stan piuttosto che Richie o Beverly), fornisce anche una sorta di riassunto o di quello che è già accaduto (per dar modo al lettore di raccapezzarsi meglio: i romanzi voluminosi sono fatti anche di grandi riassunti dei capitoli predenti) o di quello che sta per avvenire, di solito attraverso l’espediente del recupero della memoria causata da amnesia.
Ecco un esempio. Pagina 715: “Bill ripensa a Silver, lasciata contro la parete del box di Mike in Palmer Lane. Da lì i suoi pensieri procedono naturalmente al giorno in cui si sono ritrovati ai Barren – tutti tranne Mike – e ciascuno aveva raccontato la sua storia di nuovo: lebbrosi sotto le verande; mummie che camminano sul ghiaccio; sangue che sgorgava dagli scarichi e bambini morti nella Cisterna e fotografie che si animavano e lupi mannari che inseguivano ragazzini per vie deserte.”. Altro esempio. Pagina 179. “Ben si fruga nella tasca del gilet, ma i dollari d’argento non ci sono più. Sono usciti da quella tasca per finire in quella di Ricky Lee. A un tratto rimpiange di non averne conservato almeno uno. Avrebbe potuto essergli utile. Potrebbe naturalmente presentarsi in qualunque banca – salvo in quel momento in cui si trova a sobbalzare nell’aria a novemila metri – e procurarsene una manciata, ma a nulla servirebbero quei dozzinali sandwich di rame che oggigiorno il governo cerca di far passare per monete vere. E per lupi mannari e vampiri e tutti gli esseri che si risvegliano alla luce delle stelle, c’è bisogno di argento. Sano, autentico argento. Serve argento per fermare un mostro. Serve… Chiude gli occhi. L’aria intorno a lui risuona di carillon. Carillon? No… campane. Erano campane, era la campana, la campana delle campane, quella che aspettava per tutto l’anno, una volta esauritasi l’eccitazione della ripresa delle attività scolastiche, cosa che accadeva puntualmente alla fine della prima settimana. La campana, quella che segnalava il ritorno della libertà, l’apoteosi di tutte le campane di scuola.”.
Ovviamente le parti in corsivo servono anche e soprattutto a presentare i personaggi da adulti. Ognuno ha una storia. Beverly subisce violenza domestica dal marito Tom – tema caro a King. Bill è diventato uno scrittore di romanzi horror – lui che nel 1957 aveva dovuto affrontare la tragica scomparsa del fratellino Georgie. Ben è un architetto – lui che aveva costruito la diga dei Barren. Richie un comico di successo – quello stesso dodicenne che faceva le voci di Pancho Vaniglia e Bonifacio Sbavabaci… C’è simmetria, regolarità, anche qui. Le potenzialità dei personaggi da giovani si esprimono pienamente nei personaggi adulti – e forse anche questo elemento conquista i lettori giovanissimi.
Questa specularità non soltanto consente a Stephen King di non perdersi nella narrazione (e permette a noi lettori di seguire il filo della narrazione in modo agevole), ma giustifica anche come mai questi sette adulti ventotto anni dopo si presentino difronte a It e siano ancora così forti, temibili per un mostro che si nutre soprattutto delle paure dei bambini. In un certo senso, Bill, Ben, Richie, Bev, Eddie e Mike sono ancora gli stessi. Le aspirazioni, i desideri e le paure che avevano da piccoli sono le stesse di quelle che hanno da grandi. Con l’eccezione che oggi Bill&Co. ci hanno costruito sopra un mestiere e ci guadagnano soldi. Infine sempre nelle parti in corsivo, come nel resto della narrazione, non si risparmiano apparizioni terrificanti. Una su tutte: la testa di Stan Uris nel frigorifero di Mike Hanlon.
Ora passiamo ai personaggi. Ognuno dei protagonisti di It da bambino ha qualche problematica che viene poi superata in età adulta per riaffiorare progressivamente con il ritorno a Derry. Bill tartaglia. Ben è grasso. Eddie soffre di asma ed è succube della madre. Beverly riceve violenze da suo padre. Anche qui, schematizzata in questa maniera, la faccenda è ricca di suggestioni. Derry è una cittadina con qualcosa di strano. E’ una cittadina sbagliata. Chi torna a Derry recupera i difetti di un tempo: torna a essere strano. Perciò è Derry a rendere strani i suoi abitanti. Cosa che, in fondo, accade a ciascuno di noi quando torniamo nelle nostre città d’origine: ridiventiamo quello che eravamo, quello che siamo, quello che siamo sempre stati e probabilmente saremo sempre a dispetto di quanta strada abbiamo fatto. La magia di Stephen King è di riuscire a far vibrare un’esperienza comune a tutti all’interno di una storia del tutto singolare e inverosimile – la famosa “verità dentro la bugia”. Così Bill torna a tartagliare. Richie si rimette a fare le vocine. A Eddie torna l’asma. E dato che il padre di Beverly è morto, ci pensa il marito Tom Rogan a inseguirla e perseguitarla. Queste simmetrie rendono il testo più facile da gestire oltre che essere ricche delle suggestioni appena dette.
Ma c’è qualcosa di più. Abbiamo visto che negli interludi King si dedica alla descrizione di scene di tragedie di massa. Che sia una sparatoria o una scazzottata al bar o un incendio, quando si siede alla macchina da scrivere, Stephen sa in che direzione orientare la sua immaginazione. Lo stesso dicasi per le parti in corsivo e la stessa cosa vale anche per i personaggi. King ha tutta questa impressionante quantità di personaggi da gestire e quando si siede al computer, per quanto possa essere in gamba e geniale, deve per forza arrivare il momento in cui si dice: “Bene, e adesso cosa faccio fare a questo e a quello? In quali situazioni li metto?”. Per scavalcare l’ostacolo, il Re assegna a ogni personaggio una situazione specifica: quando compare quel personaggio, ci sarà sempre quella stessa situazione. A esempio, ogni volta che compaiono Henry Bowers, Belch e Victor ovvero i bulli che perseguitano i giovani protagonisti del romanzo, Stephen King sa che dovrà mettersi a scrivere una scena di inseguimento e di scontro tra ragazzi. Dopodiché King da quel genio narrativo che è si sbizzarrisce; ma sa con estrema chiarezza quali sono le rotaie che deve percorrere. L’autore del Maine ci regala così la scena della sassaiola ai Barren; la scena dell’incisione della lettera H (iniziale di Henry Bowers) sul pancione di Ben; la scena delle scoregge incendiate – dove fa capolino il bel personaggio di sfondo rappresentato da Rena Devenport; tutte quante scene una più memorabile dell’altra.
Anche i personaggi scomparsi hanno qualcosa in comune. Nel Capitolo 2 (pagina 17), nel Capitolo 6 (pagina 270) e nel Capitolo 17 (pagina 879) si narra come Adrian Mellon, Eddie Corcoran e Patrick Hockstetter finiscano nelle grinfie di It e schiattino. Mellon è omosessuale. Eddie Corcoran scappa di casa e si rifugia nel Ponte Dei Baci di Bassey Park. Il Bassey Park è frequentato da omosessuali e Eddie mentre lascia le gambe a penzolare sul Kenduskeag pensa che non gli importi e che nessun omosessuale lo abbia mai molestato o infastidito ossia fa pensieri indulgenti e tolleranti nei confronti dell’omosessualità. Infine Patrick Hockstetter viene sgamato mentre si produce in atteggiamenti decisamente ambigui nei confronti di Henry Bowers. Beverly è ai Barren. Becca Henry e la sua banda totalmente nudi. S’incendiano scoregge uno con l’altro. E c’è anche Patrick Hockstetter. Pagina 894.
“Patrick teneva una mano fra le cosce di Henry e un’altra fra le proprie. Con una mano dava dei colpetti al coso di Henry; con l’altra si massaggiava il suo. Solo che non era esattamente un massaggio, ma qualcosa di più complesso, perché se lo… strizzava, lo tirava, lo lasciava ricadere. Che cosa stava facendo?, si domandò Beverly sbigottita. […] Vide che il coso di Patrick era diventato un po’ più lungo, ma non molto. Gli pendeva ancora tra le gambe come un serpentello senza vertebre. Quello di Henry invece era cresciuto sorprendentemente…[…] “Se lo dici in giro…. – lo minacciò Henry – Ti ammazzo”.”.
In realtà la personalità di Patrick Hockstetter è assai più complessa e oscura di quella di Adrian Mellon e di Edward Corcoran. Infatti Hockstetter dà la caccia a cani e gatti e li schiaffa in un frigorifero arrugginito nella discarica dei Barren e, a quanto pare, ha ammazzato il fratellino neonato. In poche parole, Hockstetter è uno psicopatico. Ma non ha importanza: quello che importa è di aver in comune con Adrian e Edward una certa propensione all’omosessualità.
Perché King sceglie di raccontare estesamente questi tre casi? E perché, se questi tre casi sono emblematici, dovrebbe esistere una correlazione con Bill&Co.? A quest’ultima domanda forse si può rispondere che Bill, Ben, Richie, Eddie, Mike e Stan siano dei deboli. Questo attira It. Il Club dei Perdenti è un Club di Femminucce. E infatti che cosa fanno i sette nemici di It prima d’incontrarlo? Hanno un rapporto sessuale di gruppo con Beverly. Anche questo ha il sapore di un rito. Abbattendo la paura del sesso e della donna, i sette amici tengono lontano lo spettro dell’omosessualità e sono pronti ad affrontare It – a parte il fatto che la loro amicizia è cementata da quella forza implacabile chiamata amore. Alla prima domanda, invece, la risposta potrebbe essere che It rappresenta, tra le altre cose, l’AIDS. Pensiamoci. Esattamente come il virus dell’AIDS It cambia continuamente forma. E’ il parassita di una cittadina. E predilige gli omosessuali o comunque i deboli. Sebbene questa interpretazione nel testo non sia avvallata da nessuna parte, di sicuro nel 1985 l’AIDS seminava terrore nelle menti di ognuno.
A ogni modo, questo tentativo d’interpretazione porta a domandarsi: chi è veramente It? It potrebbe metaforicamente rappresentare l’AIDS così come potrebbe essere la versione aggiornata del Babau nell’armadio. Si nutre di paure. Predilige i bambini trovando gli adulti più complicati da adescare. Apre le ghiandole delle sue vittime perché le sostanze chimiche della paura inondino i corpi salando la carne – come si legge a pagina 1108. La paura, insomma, rende più saporito il pasto. Per sconfiggerlo – sconfiggere It definitivamente – ci vogliono il Rito di Chüd e la filastrocca “Stanno stretti sotto i letti sette spettri a denti stretti”. La filastrocca serve a tenere lontana la paura; senza paura si diventa inattaccabili e se si diventa inattaccabili, si può vincere. Ma perché scegliere proprio il Rito di Chüd? Chi è It?
It è un essere che viene prima della creazione dell’universo. Richie Tozier crede di vederlo precipitare sulla Terra milioni di anni fa a bordo di un’astronave, ma poi aggiunge che potrebbe essere solo la sua mente a farglielo vedere così. It è un’entità che viene prima dello spaziotempo. Non solo, ma i suoi antagonisti non sono soltanto sette bambini e la Tartaruga, ma anche (e soprattutto) l’Altro. La Tartaruga è una forza del bene, persino più antica di It, sul cui guscio stanno appoggiate centinaia di galassie, soli e costellazioni. E’ stata la Tartaruga a creare l’universo vomitandolo, ma poi è si è soffocata da sola in modo alquanto goffo vomitandosi due galassie nel guscio. L’Altro, invece, è un essere più misterioso. It, i sette ragazzi, la Tartaruga, Derry e pertanto anche quel vomito di tartaruga che è l’Universo sono creazioni dell’Altro. Secondo alcune fonti l’Altro viene identificato come un essere onnipotente simile al dio giudaico-cristiano; ma, in fondo, potrebbe anche essere che l’Altro, se si chiama così, è perché appunto “altro” da qualsiasi definizione. L’Altro è la Metafora. Cosa sono It, la Tartaruga e i sette ragazzi? Sono una metafora: una metafora di qualcosa d’infinitamente ed eternamente più grande, importante e sfuggente. Dunque, se la questione è così teologicamente rilevante – e in un altro grande romanzo kinghiano su Derry, ovvero Insomnia, si trovano altre gustose spiegazioni –, allora perché King sceglie proprio il rito di Chüd?
Nel 1958 i ragazzi sconfiggono It con una pallottola d’argento. Sì, perché It può assumere le forme che vuole, ma, assumendole, assume anche i punti deboli. Che straordinaria idea di matrice protestante! It è come Gesù – quell’It che sotto forma di mummia cammina su un canale ghiacciato davanti agli occhi strabuzzati di Ben Hanscom. Gli antichi romani usarono una lancia per ammazzare il dio che si è fatto uomo. I sette bambini partoriti dalla fantasia di Stephen King contro il demone che si è fatto lupo mannaro usano, invece, una fionda e una bilia d’argento. Ma tanto nel 1958 che nel 1985 sia i ragazzi che gli adulti devono utilizzare il rito di Chüd. E che cos’è questo rituale?
It ha scagliato una malia su Derry ossia un incantesimo malefico e il rituale di Chüd è un modo per liberarsene. Si tratta di un rituale himalayano collegato al Wakan Tanka dei Lakota ossia Il Grande Spirito. Perciò It potrebbe rinviare, sia pure attraverso un rito degli indiani himalayani, a demoni presenti anche nella tradizione degli indiani d’America. Questo è un omaggio a HP Lovecraft, dettaglio che potrebbe rivelare anche la vera identità di It. It potrebbe infatti essere Yig: un Grande Antico del pantheon lovercraftiano noto anche col nome di Padre dei Serpenti. In una rappresentazione grafica di Patrick McEvoy Yig viene dipinto con la faccia da rettile e uno stuolo di serpenti ai piedi, ma, dato interessante, Patrick McEvoy aggiunge una sorta di raccapricciante criniera di color rosso-arancione attorno al muso di Yig – una criniera che assomiglia tremendamente al colletto svolazzante della divisa di un clown. In effetti le sembianze di It non sono mai perfettamente delineate: c’è sempre qualcosa che non torna, nelle molteplici decrizioni fornite. It è Yig.
Se le cose stanno così, It potrebbe rappresentare anche la nemesi del cosiddetto Olocausto Americano. Sepolto sotto un omaggio letterario pulsa il senso di colpa ancora cocente per la catastrofe demografica dei nativi americani. Anche in Shining di Stanley Kubrick (tratto da un romanzo di King antecedente a It) è possibile una lettura del genere. Anche in Creepshow 3 (un film non particolarmente memorabile) la statua di Vecchio Capo Testa Di Legno prende improvvisamente vita in un emporio e si vendica di una coppietta che ha commesso una rapina uccidendo i proprietari del negozio. Gli americani hanno preso possesso di un territorio col sangue, e provano ancora senso di colpa, hanno ancora paura. It potrebbe metaforicamente rappresentare quell’insieme di colpe.
Comunque stiano le cose, ciò ci conduce a un’altra osservazione: il romanzo di Stephen King è disseminato di omaggi letterari: omaggi a piene mani a HP Lovercrat; Lo squalo – che nuota nella discarica dei rifiuti della cittadina di Derry; Alien – quando il ragno gigante depone le uova nella caverna; Hansel e Gretel – quando Beverly torna nella casa dove abitava con suo padre e incontra un’anziana signora che si trasforma in una strega; Cappuccetto Rosso; la Mummia; il Licantropo; Dracula; eccetera. Questo, assieme agli altri elementi già individuati, consente alla fantasia di King di scatenarsi entro percorsi ben collaudati: si tratta per lo più di riscritture, attualizzazioni, approfondimenti, migliorie di modelli e archetipi preesistenti. Senza dimenticare, come abbiamo visto, che lo schema generale dell’opera è tutto sommato tra i più lineari in assoluto: un assassino desidera eliminare un per uno sette ragazzi e dà loro la caccia finché non ci riesce – da Jack Lo Squartatore in avanti. Tutto questo contribuisce a creare regole, percorsi, binari. Forma un metodo.
In conclusione, riassumendo: King prende lo schema di una storia non complessa; moltiplica il numero dei protagonisti e degli antagonisti: ci sono sette protagonisti e almeno sette mostri da affrontare più la banda rivale formata da tre antagonisti umani; moltiplica il numero stesso dei protagonisti per due dato che li racconta da piccoli e da adulti e quindi è come se fossero quattordici; moltiplica gli antagonisti: in età giovane sono Henry, Chris e Belch e in età adulta diventano Henry, Tom e Audra – quest’ultima non è un’antagonista, ma esattamente come Tom rincorre il marito Bill a Derry e gli procura un grosso dispiacere finendo imbozzolata nelle caverne sotterranee abitate da It; moltiplica per due gli scontri finali e tutto quello che serve allo scontro: due stratagemmi per sbarazzarsi di It, due periodi storici differenti, quasi due di tutto, con relative analogie e differenze; assegna a ogni personaggio una situazione che si ripete di volta in volta – ad esempio a Tom Rogan assegna il ruolo di carogna che dà la caccia alla moglie fuggita incollerendosi sempre di più; assegna, in modo più ordinario, una caratteristica fisica o emotiva a ogni personaggio – a Bill il coraggio e la balbuzie; a Ben lo spirito romantico e l’obesità; a Stan la razionalità; a Eddie la capacità d’orientamento e il problema dell’asma …; segue la pista degli omaggi letterari riscrivendoli in chiave moderna; e cala il tutto in una cittadina americana contemporanea provvista di una Cisterna, di una rete idrica urbana, canali di scolmo e pompe di drenaggio (le tane dei Morlock, come le chiama Ben), una cava di ghiaia, una discarica di rifiuti, un parco col Ponte dei Baci, un fiume: il Kenduskeag, un centro cittadino, una biblioteca, vie, case. Sentite che descrizione straordinaria (considerato che è tutto nella mente dell’autore) dell’inondazione che distrugge Derry in seguito alla morte di It. Pagina 1194.
“Alle dieci la vibrazione costante che scuoteva le strade del centro cittadino di Derry crebbe d’intensità per trasformarsi in un brontolio minaccioso. […] Il brontolio crebbe progressivamente finché le finestre cominciarono a schiantarsi, dai soffitti caddero i primi calcinacci e i gridi disumani delle travi sotto pressione e delle fondamenta si fusero in un coro di distruzione. La facciata crivellata di proiettili del Manchen si aprì in crepe profonde simili ad artigli rampanti. I cavi che reggevano la locandina dell’Aladdin saltarono e il grande tabellone si schiantò al suolo. Il Richard’s Alley, che correva dietro la farmacia di Center Street, fu riempito improvvisamente da una valanga di mattoni gialli per il crollo del Brian X Dowd Professional Building, eretto nel 1952. Si sparse nell’aria un enorme banco di nebbia gialla che fu strappato via dal vento come un velo. […] Esplose la statua di Paul Bunyan davanti al City Center […] Alle dieci e due minuti il centro di Derry sprofondò. Il grosso dell’acqua rovesciato dalla Cisterna aveva attraversato Kansas Street ed era finita nei Barren, ma alcune tonnellate di quell’onda micidiale scese dall’Up-Mile Hill nel quartiere commerciale. Questo fu forse il colpo fatale… o forse, come dichiarò Harold Gardener a sua moglie, ci fu davvero un terremoto. Crepe dapprima sottili si spalancarono come fauci affamate e ne scaturì il rumore del Canale ora spaventosamente forte. Tutto cominciò a tremare. L’insegna al neon del negozio di calzature dirimpetto alla vetrina di souvenir di Shorty Squires piombò nella via e andò in corto circuito in un metro d’acqua. Qualche istante dopo, l’edificio che ospitava il negozio di Shorty, accanto a Mr. Paperback, cominciò a discendere. […] A tutti sembrò di vedere scendere sotto terra un enorme ascensore. L’edificio sprofondò con solenne dignità. Quando il fenomeno cessò, sarebbe stato possibile entrare nello stabile carponi, passando dal marciapiede inondato in una delle finestre del terzo piano. Lo spostamento dell’acqua provocò un’onda che si alzò tutt’intorno all’edificio e poco dopo sul tetto apparve Shorty Squires in persona, che gesticolava come un matto chiamando aiuto. Il suo tentativo di mettersi in salvo fu vanificato dallo sprofondamento immediatamente seguente dell’attiguo palazzo di uffici, quello che ospitava Mr. Paperback al pianterreno. Disgraziatamente non s’inabissò diritto come l’altro: il palazzo di Mr. Paperback s’inclinò vistosamente (per un momento in effetti ricordò non poco la famosa torre pendente di Pisa, quella che c’è sulle scatole dei maccheroni). […] “Dobbiamo andarcene da qui! Al! Presto! L’onda di ritorno! L’onda di ritorno!”.
Uno tsunami, insomma. Stephen King sta descrivendo il fenomeno dello tsunami in una cittadina del Maine. E naturalmente ogni volta che in alto a destra di un nuovo capitoletto compare la scritta “Derry”, Stephen King sa benissimo cosa deve fare e il lettore cosa attendersi: descrizioni di edifici che crollano, strade che si spaccano, tabelloni e insegne che precipitano fragorosamente al suolo sollevando frantumi di vetri e terriccio. Insomma anche in questo caso vale la regola che abbiamo individuato negli Interludi e in alcuni personaggi come Henry Bowers, Audra Philips o Tom Rogan.
Siamo partiti domandandoci come sia riuscito, Stephen King, a gestire un romanzo così capiente come It e analizzando il testo siamo arrivati a trovare regolarità oggettive. Importa relativamente l’indelicatezza di aver attribuito a King una volontarietà. Per quel che ne sappiamo Stephen King può aver scritto It una parola per volta dall’inizio alla fine senza seguire alcun metodo e alcuna regola e affidandosi al puro istinto. Rimane il fatto che il testo è lì e per quanto prodigioso possa sembrare quel testo può essere smontato pezzo per pezzo e osservato da lontano e da vicino leggendolo dalla prima all’ultima parola o saltando o dall’ultima parola alla prima. Il testo sta lì. Non ci sono segreti.

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Un’altra domanda che aleggia nell’aria quando siamo difronte a un tomo così voluminoso come It di Stephen King è: questo romanzo è leggibile o è illeggibile? Lo sappiamo: il miracolo di It è che, pur avendo l’aspetto di un mattone, si legge in un soffio. Questo elemento è sbalorditivo – e rivoluzionario. Ragazzi di tredici, quindici anni macinano pagine e pagine e capiscono tutto, si emozionano, conservano per sempre nel cuore quella storia. E’ lo stile magnetico di King che traina il lettore ovunque e la semplicità (la classicità) della vicenda che probabilmente ci danno l’impressione di capire – oltre naturalmente al fatto che non siamo mica dei fessacchiotti, non è vero? Ma, in effetti, se guardiamo il testo da più vicino, ci rendiamo conto che It è un romanzo meno semplice di quel che sembra.
Facciamo qualche esempio.
La spiegazione di che cos’è e a che cosa serve il Rito di Chüd arriva a pagina 731 del romanzo ossia trecento pagine prima dello scontro finale tra il Club dei Perdenti e It. Consiste in questo. Un santone hymalayano affronta lo spirito maligno – il taelus. Il taelus gli mostra la lingua. Il santone mostra la lingua a lui. Le lingue si sovrappongono e a quel punto entrambi vi affondano dentro i denti. Fino in fondo. In modo da restare inchiodati insieme, gli occhi negli occhi. A questo punto si comincia a raccontare storielle e indovinelli. Così a pagina 1152 il lettore si ritrova Bill che affonda i denti nell’immensa lingua di It (e tra l’altro è una rappresentazione mentale e non reale) e…. “ Chüd, mio Chüd, resisti, sii forte, sii valoroso, combatti per tuo fratello, per i tuoi amici; credi, credi in tutte le cose in cui hai sempre creduto, credi che se dici al poliziotto che si ti sei perduto, lui ti riaccompagnerà a casa sano e salvo, che c’è una fata che fa collezione di dentini e vive in un grande castello di smalto, e Babbo Natale costruisce giocattoli sotto il Polo Nord, assistito dalle sue schiere di elfi e il Capitan Mezzanotte esiste davvero, anche se Calvin e il fratello maggiore di Cissy Clark hanno detto che sono tutte bubbole da poppanti; credi che tuo padre e tua madre ti vorranno bene ancora, che il coraggio è possibile, e le parole ti usciranno di bocca corrette e senza esitazioni; non ci saranno più Perdenti, non ci sarà più nessuno rannicchiato a tremare in un cosiddetto club che non è altro che una buca nel terreno, non ci sarà più nessuno a piangere nella stanza di Georgie perché non sei stato capace di salvarlo; credi in te stesso, credi nel fuoco di quel desiderio”.
Ora, non è semplicissimo tenere a mente cosa sia il Rito di Chüd e come funzioni visto che la spiegazione viene fornita circa trecento pagine prima. Non solo, ma del Rito viene messa in scena una variazione, essendo, quella che si svolge nello scontro finale, una rappresentazione mentale e non fisica. Eppure molti tredicenni e quindicenni dichiarano seraficamente di aver letto It in tre giorni o in quindici.
Altro esempio. L’incipit di pagina 667 è: “All’indomani del giorno in cui Mike Hanlon aveva fatto le sue telefonate, Henry Bowers cominciò a sentire le voci”. In sé l’attacco è di una chiarezza lampante. Se non fosse che Mike Hanlon figlio di Will Hanlon (e ogni volta che Mike e Will entrano in scena assieme Stephen King sa che, tra le altre cose, dovrà immaginarsi storie di soprusi a sfondo razziale) comincia a fare le sue telefonate a pagina 43 e termina a pagina 155. Perciò tra il semplice incipit di pagina 667 e il Capitolo 3 dal titolo Sei telefonate (1985) ci sono in mezzo cinquecento pagine. E ciononostante il lettore procede come un treno emozionandosi e comprendendo ogni sillaba – accluso il fatto che Henry Bowers sia finito nel manicomio criminale di Juniper Hill dopo aver subito la condanna degli omicidi compiuti da It nel 1958 ai danni di Victor Criss, Belch Huggins e Veronica Grogan senza naturalmente dimenticare Patrick Hockstetter.
Altro esempio. La spiegazione di come sia fatta la rete fognaria di una cittadina di cinquantamila abitanti arriva a pagina 727 giusto due o tre pagine prima della spiegazione del rito di Chüd. Solo che i protagonisti di It scendono nelle gallerie sotto la città a pagina 1097 ovvero più di trecento pagine dopo la spiegazione. Non solo, il Capitolo 21 dal titolo Sotto la città nonché i capitoli successivi fanno avanti e indietro nel tempo narrando il duplice scontro finale con It avvenuto nel 1958 e nel 1985. Ma diamo un’occhiata alla spiegazione. Chi la fornisce è il padre di Bill, Zack Denbrough – quello che da quando gli è morto il figlio Georgie tratta l’altro figlio come un fantasma. Intanto si scopre che il fiume Kenduskeag attraversa Derry in un canale di scolmo. Poi arriva la spiegazione di cosa siano le pompe di drenaggio.
“Praticamente sono pompe aspiranti. Stanno in cilindri profondi tre metri e pompano il liquame e l’acqua piena dove il terreno diventa pianeggiante o è leggermente in salita. Sono vecchi macchinari e sarebbe ora che s’installassero pompe nuove, ma al consiglio si mettono tutti a piangere miseria ogni volta che l’argomento è all’ordine del giorno per la stesura dei bilanci preventivi. Se mi avessero dato solo venticinque centesimi per ogni volta che sono stato laggiù, nella merda fino alle ginocchia, a riparare uno dei motori… […] Guarda, qui c’è il Keduskeag e qui ci sono i Barren. Ora, poiché il centro della città è sotto il livello dei quartieri residenziali, vale a dire Kansas Street, Old Cape e West Broadway, il grosso degli scarichi della zona del centro deve essere pompato nel fiume. Questo mentre gli scarichi dei quartieri residenziali scendono praticamente da soli fino ai Barren. […] Un giorno o l’altro vieteranno di far scaricare le fogne nel fiume e tutta questa faccenda sarà finalmente chiusa. Per ora comunque abbiamo queste pompe nelle… come hai detto che le chiama il tuo amico?” “Tane dei Morlock” “Già. A questo servono le pompe nelle tane dei Morlock, e funzionano abbastanza bene eccetto quando piove troppo e i fiumi straripano. Questo perché i condotti a caduta e quelli muniti di pompe dovrebbero costituire due sistemi indipendenti, ma in verità s’incrociano dappertutto sotto la città. […] Dunque, l’unica cosa che bisogna tenere bene in mente sullo scolo delle acque è che va dappertutto. Il flusso si dirama in ogni passaggio disponibile. E quando l’acqua delle condutture si alza abbastanza da arrivare a quelle pompe, le mette in corto circuito. E questo vuol dire guai per me, visto che devo scendere io a ripararle”.
Questo spiega l’effetto terremoto di cui prima abbiamo visto le conseguenze. La pioggia fa straripare il fiume che allaga le fogne: se il sistema delle fognature si allaga troppo, esplode e si scassa, dando origine a un terremoto. Può essere interessante, tra l’altro, notare che è possibile rintracciare nel romanzo sia una spiegazione razionale sulle cause dell’inondazione che sconvolge Derry ossia l’esplosione dei condotti sotterranei delle fogne dovuta a eccessivo allagamento, sia una spiegazione sovrannaturale: poche balle, It crepando si è portando con sé l’intera città di Derry. E in questo Stephen King, che, com’è noto e come abbiamo visto, ha certamente molti debiti nei confronti di HP Lovercraft, fa pensare anche a un altro grande maestro ossia Edgar Allan Poe.
Ma andiamo avanti. “I canali principali della fogna saranno larghi forse due metri. Quelli secondari, che scendono nelle zone residenziali, avranno un diametro di un metro o poco più. Forse qualcuno è un po’ più largo. E, dammi retta, Bill, e vedi di ripeterlo ben chiaro ai tuoi amici. Mai e poi mai, per nessun motivo dovete entrare in uno di quei condotti, né per gioco, né per amor dell’avventura” “Perché?” “Dal 1885 in avanti ci saranno state almeno una decina di diverse amministrazioni locali che hanno via via ampliato il sistema. Durante la Depressione, la speciale amministrazione per i lavori pubblici fece costruire un intero sistema di drenaggio secondario e un terzo livello di fognatura. C’erano grossi stanziamenti per le opere pubbliche in quel periodo. Ma il tizio che dirigeva tutti quei progetti restò ucciso durante la seconda guerra mondiale e cinque anni dopo il dipartimento delle acque scoprì che quasi tutti gli incartamenti relativi erano scomparsi. Stiamo parlando di qualcosa come quattro o cinque chili di disegni finiti nel nulla tra il 1937 e il 1950. […] Quando tutto funziona, nessuno ci fa caso. Quando qualcosa va storto, ci sono tre o quattro poveri diavoli del dipartimento delle acque di Derry che devono andar giù a scoprire qual è la pompa che si è inceppata o dove si è verificata l’ostruzione. E quando devono scendere là dentro, è meglio che si portino dietro i viveri. E’ buio, è puzzolente ed è pieno di topi. Queste sono tutte ottime ragioni per non entrarci, ma la più importante è che ci si può perdere. E’ successo”
Questo è lo scenario nel quale i ragazzi si muovono a cominciare da pagina 1097. La spiegazione di pagina 727 consente a King di raccontare trecento pagine più avanti con tranquillità, senza allentare la corda della tensione, di sette ragazzi che si avventurano come i Goonies all’interno di un sistema fognario – facendo la stessa cosa anche da adulti. Quanto al lettore, forse nemmeno aveva bisogno di spiegazioni: lui è sgamato, capisce tutto. Specialmente poi se ha quindici anni.
Insomma, se guardiamo da vicino il romanzo di Stephen King, succede una cosa abbastanza buffa: da un lato ci rendiamo conto che un romanzo così è scrivibile (è l’opera di un uomo e non di un alieno), dall’altro ci rendiamo conto che non è così facilmente leggibile. Evidentemente la fantasia del lettore collabora molto nell’accettare quello che afferra realmente della storia narrata: è più o meno tutto chiaro, anche se non si ha un’idea precisa.

3

It rappresenta le paure dei bambini. Se un bambino va al cinema a vedersi Frankenstein, It si manifesta sotto forma di Frankenstein. Se un bambino prova paura per la statua di Paul Bunyan con l’ascia in spalla, It si trasforma in quella statua. Qualsiasi bambino ha paura dei piranha, e It non perde occasione per diventare un piranha. Bill ha perso il fratellino George. Non solo, ma la barchetta di carta di giornale che George insegue lungo i marciapiedi di Derry in un rivolo gonfio di pioggia è stato Bill a fabbricarla. It, per tormentare Bill, prende le sembianze proprio di suo fratello. Pagina 1131. “Bill alzò il fiammifero… mandò uno strillo prolungato e tremante, traboccante di orrore e disperazione. […] Dal fondo della galleria avanzava verso di lui George, con indosso la sua mantella gialla sporca di sangue. Su un fianco gli aderiva inerte al corpo smembrato. […] “La mia barchetta!” echeggiò la sua voce sotto la volta del tunnel. “Non la trovo più, Bill, ho cercato dappertutto e non la trovo e adesso sono morto ed è colpa tua è colpa tua è COLPA TUA….” […] George aveva ragione: era tutta colpa sua. […] Fabbricando la barchetta di giornale aveva mandato George in strada incontro alla sua morte e aveva trascorso la sua vita da adulto scrivendo dell’orrore di quel tradimento. Certo, l’aveva descritto ogni volta con una faccia nuova, trovandone tante quante sapeva inventarsi It, ma il mostro dietro a ogni cosa non era che George: George che correva fuori casa nel recedere dell’alluvione con la sua barchetta di carta impermeabilizzata con la paraffina”. It, insomma, rappresenta le paure irrazionali dei bambini. E ci vuole qualcosa di concreto per scacciarlo. Stan Uris si mette a leggere i nomi dei volatili nel libro di ornitologia che ha sotto braccio per tenere a bada la paura difronte a un uccello gigantesco incontrato, suo malgrado, in una vecchia casa abbandonata e riuscire a svignarsela. Eddie Kaspbrak usa come arma l’inalatore per l’asma. L’inalatore e il libro sono talismani. Non tutti i bambini ne hanno uno. Alcuni non lo hanno e finiscono per soccombere: come Victor Criss o Belch Huggins o Dorsey Corcoran. Ma chi lo ha, si salva. Oblitera la paura. A proposito, che cos’è la paura? Abbiamo paura quando desideriamo che qualcosa non accada – come finire fatti a polpette da un clown con la testa di dobermann o ricevere una carezza da Bobby Il Vagabondo Lebbroso. E un’aspirazione? Che cos’è un’aspirazione? E’ qualcosa, al contrario, che desideriamo accada – come diventare scrittori, fare successo alla radio o diventare architetti di grido. Paure e aspirazioni sono agli antipodi. Se ci si concentra sulle aspirazioni e sui desideri (ossia le cose che vogliamo succedano) si dimenticano o almeno si tengono a bada le paure (ossia le cose che non vogliamo accadano). Questo, in fin dei conti, l’insegnamento di It. Un It ci sarà sempre, da piccini come da grandi. Ma solo se abbiamo qualcosa a cui aggrapparci e una ritualità, qualcosa da desiderare, concentrandoci su quello che vogliamo, potremo salvarci.
Pagina 1235. “Parti e parti in fretta quando il sole comincia a scomparire, pensa in questo sogno. Ecco che cosa fai. E se ti dai del tempo per un’ultima riflessione, forse è per dedicarla a dei fantasmi… i fantasmi di alcuni bambini fermi nell’acqua al tramonto, in circolo, a tenersi per mano, giovani, senza incertezze, ma soprattutto risoluti… abbastanza risoluti da dare origine alle persone che saranno, abbastanza risoluti da capire, forse, che dalle persone che diventeranno dovranno necessariamente nascere le persone che sono state in precedenza prima di potersi rimettere a cercare di comprendere il semplice fatto della mortalità. Il cerchio si chiude, la ruota gira e altro non c’è. […] Non c’è bisogno di girarsi a guardare indietro per vedere quei bambini; parte della mente li vedrà per sempre, vivrà sempre con loro, li amerà sempre. Non sono necessariamente la miglior parte di noi, ma sono stati un tempo depositari di tutto ciò che saremmo potuti essere. Bambini, vi voglio bene, vi voglio tanto bene. […] Allora vai senza perdere altro tempo, vai veloce mentre l’ultima luce si spegne, vattene da Derry, allontanati dal ricordo… ma non dal desiderio. Quello resta, tutto ciò che eravamo e tutto ciò che credevamo da bambini, tutto quello che brillava nei nostri occhi quando eravamo sperduti e il vento soffiava nella notte….”

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17 Risposte to “It, di Stephen King”

  1. enricomacioci Says:

    Marco Candida, sei maledettamente bravo. Tu sai che non considero It il capolavoro di King, ma credo pure d’averti detto che lo lessi oramai venticinque anni fa. Adesso, dopo questo tuo pezzo magistrale, ho deciso di rileggerlo.
    Un solo appunto: Insomnia – per me – non è un grande romanzo. Ma magari ho torto, eh.
    ps: mio figlio ha sei anni e ama le cose paurose; ogni tanto su youtube vediamo lo yeti, i mostri eccetera. Una volta per sbaglio ha visto il trailer di It – un minuto e mezzo, nessuna uccisione – e ne è rimasto scosso. Ha paura, molta paura del pagliaccio che ride e porge i palloncini. Una paura fottuta. King ha creato un’icona universale del male.
    pps: condivido anche tutto il tuo discorso metafisico, ma devo rileggere il libro prima di poter dire qualcosa di sensato. E bravo di nuovo

  2. Antonella Sacco Says:

    Un bellissimo articolo.
    It è stato il primo romanzo di King che ho letto, oltre 15 anni fa. Io lo ricordo (oltre che molto avvincente, complesso e fluido), forse semplificando un po’, come una bellissima storia di Amicizia.

  3. marcocandida Says:

    Ti ringrazio, Enrico.

    Mi è venuto in mente che in effetti nel romanzo esiste un omaggio esplicito a Edgar Allan Poe. It si manifesta a Mike Hanlon sottoforma di pennuto gigantesco in varie occasioni nel corso del romanzo. Verso la fine del megalibro salta fuori che quando ancora Mike era un neonato, mentre sua madre era distratta da qualcosa, un corvo si è posato sul bordo della carrozzina beccandolo (una scena da brividi; degna di Dario Argento). Ecco perché It si manifesta a Mike sottoforma di enorme volatile – a causa del trauma prodotto da questo episodio. E naturalmente il pensiero corre al celeberrimo racconto di Allan Poe Il Corvo.

    Un’operazione interessante potrebbe essere quella di rintracciare tutti gli omaggi letterari presenti in It. Su Wikipedia si trova qualcosa, ma non tutto. Il romanzo ne è veramente zeppo.

  4. Marco Bertoli Says:

    Interessante, complimenti!

    Visto che l’articolo cita con molta dovizia dalla versione italiana del romanzo, mi sembra corretto, se non proprio doveroso, fare menzione dell’autore, Tullio Dobner. Per tantissimi lettori, forse anche per te, è lui la voce italiana di Stephen King.

  5. DANTE TORRIERI Says:

    Molto Bello, Marco il tuo articolo. Io il romanzo di Stephen King, non l’ho letto (per ovvie ragioni di numeri… di pagine) e quindi di tempo necessario per leggerlo adeguatamente. Comunque mi saltano agli occhi due fatti:

    1- La lunghezza (esasperante) del romanzo;
    2- La brevità (esasperante) del titolo.

    Quasi che l’autore avesse voluto mettere gli estremi in contrapposizione. Quasi che l’intero romanzo sia una pura e semplice metafora della lunga triste storia dell’uomo, e che il titolo rappresentasse, il simbolo di quel nome. Il nome del romanzo è IT, cioè:

    – Non la prima persona (IO);
    – Non la seconda persona (TU);
    – Ma la terza persona (EGLI, LUI, LORO).

    Cos’è IT, quindi? IT è il male puro… quello che nel corso della storia dell’uomo e del romanzo, accompagna gli uomini e i protagonisti in tutte le loro peripezie:

    1- Malattie;
    2- Violenze;
    3- Guerre;
    4- Ignoranza;
    5- Soprusi;
    6- Paure.

    Tutti rappresentati da un unico, solo, diavolo… il Clown, che si trasforma e cambia faccia a piacimento. Una sorta di sette peccati capitali.

  6. marcocandida Says:

    Sì, Marco, la è. A quindici anni circa partecipai a un concorso di racconti indetto da Joe Arden per la Sperling&Kupfer. Nella cartolina di partecipazione scrissi nello spazio riservato ai consigli alla Redazione: Fate tradurre il più possibile Tullio Dobner. Tullio Dobner traduceva per Sperling anche un altro autore che mi emozionava moltissimo ossia Jack Higgins.

    Sì, Dante. Tra le numerose citazioni in esergo c’è anche un passo di Virgilio. It è una sorta di Odissea dei giorni nostri.

    Antonella, sono d’accordo. Anche se la percezione che ho di It è cambiata nel corso del tempo. A tredici anni mi sembrava una splendida avventura forse perché non riuscivo a immaginare completamente l’orrore raccontato da King. Crescendo la percezione si è fatta più chiara. Certe scene di It oggi mi mettono dei brividi che fino a vent’anni non mi mettevano. Oh, teniamo presente che dai ventuno ai ventotto anni ho dovuto interrompere con King perché mi faceva venire troppi attacchi d’ansia – Mucchio d’ossa mi ha procurato incubi veri. Dipende dalla percezione. King è un genio, a mio parere, in gran parte ancora incompreso. Prendiamo La Nebbia. E’ un racconto contenuto nella raccolta Scheletri. E’ una storia avventurosa. Un gruppo di persone bloccate all’interno di un supermercato e attaccato da esseri mostruosi. Ma il film che ne è stato tratto fa venire i brividi sul serio. Se quello stesso regista traesse un film da It, sono abbastanza sicuro che vedremmo in scena il “vero racconto” di It. Frank Derabont.

  7. enricomacioci Says:

    Il King più terrorizzante è quello di It. Agisce nel profondo, non se ne va più. Quello che fa più paura nell’immediato, mentre si legge cioè, è il King di Shining e Misery (e anche de La metà oscura).
    E poi ha ragione Marco Candida: King è un genio ancora in larga parte incompreso, perché spesso ci si ferma al primo livello di lettura. Invece tutti i suoi romanzi più riusciti (direi una trentina) sono pluristratificati e plurisensi, sono metafore, potenti macchine mitologiche della e sulla nostra epoca.

  8. marcocandida Says:

    Enrico, riguardo Insomnia. Sì, sono d’accordo. Quel romanzo, però, si ambienta a Derry come It e presenta una solida “metafisica”. In più, quando lo lessi a diciassette anni o giù di lì, rimasi sbalordito di quanto l’alfa e l’omega della vicenda si sovrapponessero così perfettamente bene. Ma c’è un collegamento che da i brividi. Insomnia è la storia di un uomo che in seguito alla morte della moiglie soffre di crisi di insonnia sempre più frequenti. Nota che il vicino di casa riceve visita dagli alieni quasi quotidianamente – che idea straordinaria! In più sviluppa poteri paranormali che gli consentono di vedere auree colorate attorno alle persone che incontra e che gli consentono di stabilire il loro umore o lo stato di salute. E, ecco il piccolo brivido, questa aura ha forma di un “filo di palloncino”. Gli alieni recidono con un paio di forbici il filo, e pongono termine a una vita. It si presenta sempre con un mazzo di palloncini colorati in mano. Perciò i palloncini che It ha in pugno potrebbero essere le anime dei bambini che ha divorato. Brrr…

  9. enricomacioci Says:

    Non ci avevo badato, nemmeno lo ricordavo. Molte mie letture kinghiane risalgono a tanti anni fa… Di Insomnia ricordo che l’idea era geniale, ma il libro sciatto. Ma sai che ti dico? E’ dal 2013 che ho intrapreso una graduale rilettura di tutto King; per adesso ho riletto La zona morta, Cujo, Colorado Kid, Buick 8, Shining, Stand by me. I prossimi sono It e Il miglio verde. Ma chissà che non li rilegga tutti. Hai proprio ragione, l’opera di King è prodigiosamente interconnessa, lui sa bene come sfruttare quella montagna di ossessioni che si ritrova. Mi piacerebbe leggere un tuo saggio su The stand, l’altro colosso. A quando? 🙂

  10. marcocandida Says:

    Enrico, sei un grande! Aspetto, invece, un tuo scritto su Stand by me. 🙂 Ho scritto questo articolo il 10 e l’ho postato postato il 12. Il 13 novembre c’è stato il tragico attentanto al Bataclan di Parigi. Ecco un orrore reale contrapposto agli orrori del tutto immaginari di Stephen King. E mi viene in mente una possibile distinzione tra ciò che è letteratura e ciò che non lo è. Ciò che è letteratura, per quanto atroce, contiene un insegnamento. L’insegnamento è: questo orrore, guardalo bene, qui, per finta, e non ripeterlo. Impara. L’orrore reale, invece, è il segno di un fallimento, di un goffo collasso di qualsiasi istanza, etica, tentativo di essere umani. L’orrore reale vuole solo silenzio. Un nostro grande poeta scriveva: “Possiamo dirti ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Montale. Appunto, non si può trarre un insegnamento da un orrore reale – e men che meno darne alcuno. Gli insegnamenti si danno perché le cose negative non accadano: una volta che sono accadute, è tardi, è retorica, è non voler ammettere il fallimento.

  11. enricomacioci Says:

    Marco, una domanda: anche tu annoveri Mucchio d’ossa fra i migliori di King? Perché a me lasciò poco – ma ci risiamo, son trascorsi almeno quindici anni.
    Su Stand by me scriverò qualcosa, forse; intanto lo sto portando nelle scuole e sai una cosa? Basta leggere l’incipit perché i ragazzi se ne stiano in silenzio, a pendere dalle parole di zio Steve

  12. ut0p1a97 Says:

    semplicemente magnifico

  13. marcocandida Says:

    Ricevuto da Luigi Carrozzo, lo pubblico col suo permesso:

    Splendido articolo (ma è riduttivo chiamarlo così). Mi è molto piaciuto e mi ha anche fornito qualche spunto di riflessione. Di recente ho tenuto una sorta di lezione, qui a Milano, proprio per illustrare la grandezza del romanzo. Tra l’altro presentavo King come una sorta di “custode della tradizione”; It, infatti, è una summa della mitologia di mostri da B Movie che costituiscono la vera e proprio epica dei baby boomer, unita alla tradizione del romanzo horror (dai vampiri a Lovecraft), con una spruzzatina di fiabe perturbanti (“Hansel e Gretel”, come giustamente citi tu, ma anche “Il lupo e i sette capretti”, non a caso i ragazzini sono sette e quando sconfiggono It la prima volta, lui ha le sembianze di un uomo lupo). A proposito di omaggi letterari, anche l’ultima forma di It, il ragno, credo sia una citazione di Shelob, del Signore degli anelli. Anche in quel caso è una femmina, anche in quel caso la sua tana è nascosta in un dedalo di cunicoli e si ciba di esseri umani. Interessante l’idea che It possa essere una metafora del virus Hiv. Dal mio punto di vista, credo anche che abbia a che fare con l’America. L’America che ha promesso chissà quali sogni e poi ha schiaffato sotto gli occhi dei suoi figli il Vietnam, Nixon e Reagan. Quell’America è Derry, se sopravvivi provi a scappare (King ha vissuto a Londra), ma alla fine ci torni per chiudere i conti. Inoltre, King mette un po’ di se stesso in ognuno dei sette protagonisti (lo scrittore, il quattrocchi, la madre onnipresente…).

  14. marcocandida Says:

    Luigi, ti ringrazio dell’intervento, che hai postato anche sul sito di Atti Impuri. L’interpretazione che dai di It è molto vera. E’ vera, perché senz’altro l’imbellettamento fa parte della filosofia americana. Per “imbellettamento” intendo l’idea che con un po’ di plastica e qualche tocco di colore si possa far arrivare alle masse praticamente qualsiasi cosa. L’idea di “prodotto” e di “confezionamento” e di “ben fatto” e che “prodotto” e “confezionamento” e “ben fatto” diventino inevitabilmente “accessibili”. Insomma, se ci pensiamo, i termini “americanizzazione” e “mcdonaldizzazione” sono diventati, almeno a partire dagli ’80, sempre più simili. Le rappresentazioni kinghiane sono figlie di questa filosofia di fondo o è sensato sostenere che le rappresentazioni kinghiane derivino da questa filosofia. Riassumendo in un motto potremmo concludere, lo zio Sam ci dice: è tutto oro ciò che luccica. Lo zio Steve, invece, ci ricorda: non è tutto oro ciò che sbriluccica. 😉

  15. guidoio Says:

    Le considerazioni che seguono le ho scritte a Marco Candida in posta privata, dopo aver letto il suo articolo su «It». Mi ha chiesto di postarle qui, perché possono andare al di là di un dialogo e avere un interesse anche pubblico. Eseguo.

    Marco, premetto che quando hai pubblicato quell’articolo io stavo leggendo un libro proprio di King, «Dolores Claiborne», ed ero pieno di curiosità e ammirazione per il modo in cui il re ha deciso di scrivere quella storia. Un unico piano sequenza (per usare una terminologia cinematografica) in cui la protagonista racconta la vicenda come se fosse in un ufficio di polizia e venisse interrogata per lunghe ore consecutive. Mentre leggevo mi domandavo: vediamo se regge, se riesce a tenere tutto il romanzo con questo ritmo e questa intensità. Ero quasi sicuro che King ci sarebbe riuscito, ma mi sembrava che il lavoro dovesse essere per forza pesante e forse ci sarebbero state qua e là delle cadute di energia. Invece, ecco, King ce l’ha fatta. Nessuna caduta, nessuna scivolata. Tutto col giusto ritmo, con la giusta tensione. La giusta velocità. Una roba molto bella.
    «It» è una delle opere di King che non ho letto. Ne so qualcosa per aver letto commenti e citazioni che lo stesso autore ha disseminato qua e là, tipo in «22/11/1963». Tra le cose che so c’è il tempo di composizione del romanzo: circa 4 anni. In quel periodo King non ha smesso di pubblicare né scrivere altro, ma evidentemente la forza di questa storia (così grande anche se si considerano solamente le dimensioni fisiche) gli si imponeva.
    Non avendo letto il libro, non so se il modo in cui ne hai parlato tu nell’articolo sia corretto. Però mi pare plausibile ciò che dici riguardo alla tecnica compositiva di King, cioè che si sia seduto al computer sapendo che a ogni personaggio era associata una precisa situazione narrativa – per cui non ha dovuto stare tanto lì a pensarci su una volta che avesse assegnato un carattere, bastava che partisse a scrivere e a creare all’interno dei paletti che aveva lui stesso fissato.
    Però questo non toglie che ci debba essere stata una creazione, prima. Cioè, quando King ha fissato i personaggi, e ha con ciò fissato anche ciò che a ognuno di essi dovrebbe capitare. L’atto di creazione l’ha comunque compiuto… Prima o dopo, l’atto di creazione è un lavoro da compiere e non può essere troppo meccanizzato. Dico questo da lettore, oltre che da scrittore (con ambizioni di paragonarmi, nell’una e nell’altra veste, proprio a uno che legge e scrive in quantità come King). Quando leggo non mi piace molto che dietro a un modo di narrare e a una trama ci sia la regoletta – che magari io conosco e quindi sgamo subito. Mi piace di più che ci sia novità, qualcosa che mi lascia a bocca aperta per lo stupore e magari il piacere. Mi piace l’ignoto. E siccome lo so, quando scrivo tento di non dimenticarmi di cosa mi piace leggere, e mi regolo di conseguenza.
    Ecco, King mi pare compia la stessa operazione concettuale, o perlomeno una simile. Gli piace una certa cosa da lettore e la cerca da scrittore.

    Ma nel tuo testo (o meglio nei tuoi testi, al plurale, quando parli di libri) mi pare di riconoscere anche una caratteristica: ti piace farti trascinare dall’interpretazione. Ti piace questa operazione intellettuale, quando la leggi in altri autori, e ti consenti di prendere piena libertà in tal senso quando scrivi. E quindi largheggi con le idee interpretative, alcune delle quali ti vengono proprio mentre interpreti, se ho capito bene, e vai avanti con la scrittura praticamente volando.
    C’è un rischio in tutto ciò: andare troppo oltre. Cioè, metti carne al fuoco, poi ne aggiungi, e aggiungi, e aggiungi ancora… così puoi dire tutto e il contrario di tutto. È una specie di deresponsabilizzazione critica. Tutte le idee e le parole vanno potenzialmente bene, e quindi si possono usare. Ci sparisci un po’ dentro, insomma.
    A volte, nel leggerti, mi pare di seguire un cicerone all’interno di architetture complesse, o anche di più, barocche. Tu a dire che c’è questo, quello e quell’altro elemento, senza dimenticare che dietro l’angolo c’è ancora roba così come ce ne sarà moltissima nei posti che ancora mancano da visitare, quasi più roba di quella che abbiamo già visto. Un flusso, intenso.
    Intendiamoci, non è mica un difetto. Il flusso uno scrittore ce l’ha o no, è una cosa che non si insegna.

    E magari io stravedo, ovvero ho stravisto su It. Nel qual caso mi scuso.

    Guido Tedoldi

  16. marcocandida Says:

    Guido, un romanzo è un’opera finita. Quindi ha un numero limitato di elementi e si possono enumerare. Questo a qualcuno può sembrar solo un conteggio ozioso. Ad altri può servire. 😉

  17. enricomacioci Says:

    Marco,
    a distanza di parecchi mesi sto rileggendo It. Sono quasi a pag. 200. Ti rinnovo i complimenti per il tuo pezzo e li incremento perché It è davvero un’opera/mondo, un monumento assurdo, e tu hai colto uno dei suoi segreti principali: la struttura. Lo hai fatto con puntiglio, precisione e acume. E passione. Magari ne riparleremo quando avrò finito di rileggerlo; intanto mi rimangio le mie affermazioni su come It non sia fra i capolavori di King. E’ un libro di valore insondabile, davvero. Capolavoro è dir poco

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