Alessandra Sarchi, “L’amore normale”

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di Magda Guia Cervesato

[Ecco la prima recensione – spero non resterà l’unica – inviatami per il gioco che ho proposto qui. Magda ha letto il romanzo in edizione digitale. gm]

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“Era una domanda vera solo a metà” (p. 136).

Questa la frase simbolo del libro, espressa in forma di pensiero che attraversa la mente di uno dei protagonisti del quadrangolo amoroso messo in scena dall’autrice. Nello specifico Davide, marito di Laura innamoratosi di Mia nelle segrete di una biblioteca pubblica in un tardo pomeriggio di pioggia. Mia: l’unica libera sentimentalmente nonostante fluenti chiome di giovinetta, precoce abbastanza da domandare all’amante adulto una cosa qualsiasi di cui “…l’altra metà era un tentativo di mascheramento, legittimo e brutale…”.

Due ordini di persone necessitano leggere il nuovo romanzo di Alessandra Sarchi: chi di esperienza in faccende amorose ne ha poca per ragioni anagrafiche, e chi di esperienza in faccende amorose ne ha tanta e tutta intrisa di ragioni del cuore invece che di ragione e basta. Sì perché per queste faccende ancor più che per altre “si tratta di guardare a fondo o di restituire facili stereotipi: questo è il punto discriminante di ogni opera letteraria”, sosteneva l’amico Valter Binaghi, uno che a fondo ci ha guardato fino in fondo. E questo romanzo serve meravigliosamente il mandato, guardandosi bene dall’inchiodare la complessità dei sentimenti al trito dualismo “amore romantico” – in cui non si capisce mai “come” vivranno felici e contenti oltre la siepe della luna di miele – versus “amore di lungo corso” – in cui non si capisce mai “come” sopravvissero felici e contenti dentro la siepe del fiele: sì, perché la storia attovaglia alle estremità di un lungo tavolo in legno vivissimo due istanze principi di ogni relazione: menzogna e verità. E l’autrice apparecchia il suo banchetto accogliendo ai lati della tavolata infiniti intrugli dei due ingredienti base, pietanze-girandola inseparabili da una realtà sfumata con un signor rosso d’annata.

L’amore normale si candida a essere libro rivelatore di quella visione profonda che riporta la faccenda amorosa là dove correnti geometriche di assolutismi, psicologismi e pedagogismi di varia sorte e sorti tentano da secoli, invano, di rigettare al largo: il sacro alveo dell’umana compresenza di bene e di male. Questo romanzo fa piazza pulita di qualsiasi interpretazione della realtà ognuno di noi sia tentato di dare: si prenda il passo in cui la figlia maggiore di una delle due coppie trova conforto nella ripresa delle liti tra i genitori. E badate bene: non si tratta di un’adolescente avvezza al peggio: “solo” di intuizione infantile, banale quanto preziosa, che una duratura fase di pace formale tra i genitori sia tutt’altro che una condizione desiderabile. Foriera di guai, piuttosto, subodora Violetta come un segugio di pura razza non filtrata da addestramento.

L’indagine sulla faccenda amorosa, in questo libro, percorre naturalmente le molte strade conducenti alla ricerca di insight e soluzioni, ma fermandosi là dove tutto non può che fermarsi: la soglia invalicabile della nostra fallacia. Si ferma davanti al peccato e anche al peccatore, oltre i quali c’è solo il nulla. (Nell’opzione in cui si creda in un Oltre: un nulla motore di tutto).

Il quadrilatero delle corna raccontato nel testo si prefigge, come un cerbero a due coppie di teste, di fare esercizio di verità all’interno di un sistema che di verità esplicitate non può nutrirsi. La conoscenza della verità sì, quella dicono essere essenziale a scelta, libertà e bellezza; ma la verità condivisa in faccende amorose? L’amore normale scandaglia questo eterno enigma, sopravvissuto indenne alla prova della stagione tutta pace&amore e relativa – polyamorosa ed (e)patetica – deriva.

Uno dei personaggi del libro più riusciti è infatti Giovanna, amica storica della fedifraga stella a otto punte protagonista. Giovanna, quasi ex-hippie reduce dei favolosi anni sessanta con le sue comuni e malattie da portare addosso come marchio indelebile di disperate sperimentazioni. Giovanna, voce da grillo parlante e coscienza del gruppetto, che balla in equilibrato bilico sopra tre cubi di certezze: quella di un incastro impossibile – tra i quattro amici del libro ma anche tra ogni più o meno avveduta coppia del mondo–; quella del ritrovato valore nei vecchi luoghi comuni (perché “…le situazioni umane non sono infinite, il nostro tempo è limitato e così le nostre vite tendono a ripetere cose già viste e cose già fatte. Miliardi di esistenze e poche biografie significative”, p. 365); infine quella della minor soglia di sofferenza racchiusa nel matrimonio c.d. conservatore, in cui la compresenza di coniuge e amante sotto lo stesso tetto non può essere giustamente contemplata e figuriamoci praticata.

E rispetto a questa chiave di svolta nella trama, la compresenza fisica appunto, mi è sembrato di cogliere una pecca di plausibilità: due coppie di coniugi “ultra-borghesi” – Davide è medico, Laura insegnante e Fabrizio profumoso e raffinato Signore con valigia di cuoio cucita a mano al seguito (solo la giovane Mia non può che essere sommessa e commessa topa di biblioteca precaria, visti i tempi) –. Due coppie così, dicevo, potrebbero mai decidere di lanciare una sfrontata indagine sui loro amori incrociati? E il tutto sotto gli occhi di figli ancora bambini o appena affacciatisi alla vita dei grandi. Ecco, pur comprendendo l’economia di questa resa dei conti corale, la mia sospensione dell’incredulità ha vacillato un poco a ridosso della seconda metà del libro, allorché le coppie incrociate decidono di passare l’estate tutti insieme appassionatamente nell’allegra villetta al mare con tanto di figlie e fresco fidanzatino della maggiore. Sarà lei, questa figlia preda e al contempo testimone delle conseguenze dell’amore, a incarnare una delle domande più interessanti che l’autrice mette in bocca a Giovanna: “Per quale ragione riteniamo infinito lo spirito e finita la materia, quando è la materia in ogni istante a rinnovarsi e fuggire, diventando altro, morendo e risorgendo?”.

(Spoiler alert: chi non ha ancora letto, si fermi qui).

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La ragazza resterà incinta durante quella vacanza sui generis in cui gli adulti si rincorrono le code come gatti castrati in calore mentre ormoni adolescenziali privi di mal-condotta ragione e falsa coscienza decidono per tutti scegliendo la vita. Non solo quella di chi verrà, ma anche quella di chi fa sempre più fatica a compiere scelte in un tempo in cui la distanza, distanza intesa come assenza di prossimità al prossimo nostro ed effetto collaterale delle tecnologie, complica ulteriormente le cose. Dopo la morte di Dio, assistiamo oggi alla morte del prossimo, sempre più lontano fisicamente grazie alla connessione virtuale: questo teorizzava qualcuno pochi anni fa (Luigi Zaja, La morte del prossimo, 2009, Einaudi). Nel romanzo di Sarchi di lontananza non c’è ombra, anzi i personaggi condividono gli stessi letti e si nutrono allo stesso desco; ma, come noto, nulla è semplice in virtù della mera prossimità fisica. Ma una volta eliminata anche quella – ultima àncora legante amore per il prossimo a se stessi – cosa resterà? Cosa resterà di questi anni zero? E cosa ne sarà dell’uomo nuovo (dis)ancorato a un eterno incorporeo e tecnocratico? Come si fa ad amare il distante senza lasciare per strada il significato di un tocco, uno a ogni centimetro che ci separa dall’infinito che è materia, e nell’arrogante illusione di concepimenti spirituali che già sono tra noi sotto forma di materiali surgelati e sessi pensati?

E dunque, a libro concluso, sospetto che quel contesto di “improbabile” promiscuità fosse l’unico funzionale a una riflessione sulla necessità di attraversarle con il corpo e l’esperienza, certe riflessioni; la grazia della ragione può aprire dighe, ma è difficile che viaggi per chat; quelle dighe che immettono acque raffreddanti la superficie delle sensazioni e increspano di schiuma i fondali della santa ragione, nella preghiera di un flanneriano momento di grazia “in cui questa viene offerta, e di solito rifiutata” (Flannery O’ Connor, Sola a presidiare la fortezza, Minimum Fax, 2012).

Ciò che invece, in un’opera che si propone di mostrare i lati oscuri delle lune romantiche, mi è parso inutile – di più: fuorviante – è il motore addotto per questi tradimenti: la malattia, un cancro al seno di Laura, una delle due donne dell’intreccio amoroso. C’è bisogno di giustificazione pietistica (lo smarrimento dopo le cicatrici) per accedere al discorso su tradimento e menzogna? Non è la malattia grave un facile pretesto narrativo ed esistenziale per ciò che di più normale (il ‘normale’ del titolo, appunto) è fatto l’amore? C’è bisogno di un motore in panne per materializzare l’incidente? Anche il lettore più ingenuo sa (io per lungo tempo non lo sapevo) che una macchina lanciata a piena potenza corre uguali o peggiori rischi fatali. Forse, e sottolineo il forse con forza, la malattia può dar adito all’innescarsi di racconti “salvifici” e occasioni di redenzione; ma adoperata come energia scatenante il più classico degli strumenti di potere quale è il sesso, ne depotenzia la portata. La famosa sete di esercitarlo non abbisogna di pezze d’appoggio: se la cava già benone di per sé, e un aiutino lacrimoso non può che mascherarne la radice oscura, abbagliando qualcosa che ben altra luce, sola, ha il potere di illuminare.

Ma il personaggio di Laura, nonostante l’infelice malattia che si fa espediente narrativo, è il più credibile di tutti: credibile perché lucido nella sua folle idea dell’immorale comune in stile un cuore diviso per quattro, una capanna e figliolanza; credibile perché spietato nella sua alternanza di tenerezza materna e tratti psicopatici necessari all’orchestrazione di un fare e disfare vite senza rimorso. E’ l’unico personaggio in grado di guardarsi da fuori (“Come se ci potessimo togliere la maschera, rivelare chi siamo, chi eravamo. Vedo noi dall’esterno e provo la stessa pena provata davanti al quadro che raffigura Ulisse e Penelope di Primaticcio, dove lo sconforto si mescola al miele del conforto. La vita che li ha separati è il racconto che devono farsi per potersi ritrovare, per scoprire che sono l’uno il doppio dell’altra. Penelope gli consegna la sua fedeltà… e tace delle cose più intime. Lui le consegna storie… ma solo per tornare a lei. Mentono, entrambi”, p .481). Gli altri personaggi? Sempre a ruota dell’illusione di poter essere veri senza aver prima attraversato l’anello di fuoco della verità. Quella con la V, che non inizia solo all’assenza di menzogna e sua sorella Bellezza, ma anche a vendetta, veleno, voluttà, vanagloria e compagnia diabolica cantando. Ma cantando, non sussurrando! E Laura canta, personaggio ideale a innescare sane domande quali: conviene di più relazionarsi a qualcuno di cui si ha incerta fiducia o qualcuno di cui si ha certa sfiducia? E’ più ragionevole un credulone di verità temporanee o un credente nella menzogna permanente (passatemi la rima)? E’ possibile tracciare una linea di demarcazione tra l’ingenuo sperare e la rapina di qualsiasi speranza? Tra l’ignorare la durezza e il conoscerla senza agirla fuor di legittima difesa? Tra l’imparare che amore e fedeltà non sono ricevibili per umano statuto o contratto di fede ma solo impallinabili come lepri nel bosco, o se volete più poeticamente, raccoglibili dietro una mangrovia come orchidee maculate nella foresta pluviale? E una volta individuata quella linea, mantenerla con l’equilibrio del giocoliere che regge in aria “buono” e “quotidiano”?

Per tornare sulla terraferma. Diceva mia nonna: “i mariti si tengono a letto, notte dopo notte” (io devo essermi distratta una notte o due). Non che nell’era pre-lavatrice (copyright Antonio Pascale) molti non godessero di compagnia extra-talamo; del resto, come dice un amico, sono rari i coniugi degni di questo nome, essendo buona parte dei matrimoni nulli già in partenza. Ma lasciando perdere questioni troppo ostiche: noi amanti post-moderni, esattamente quando abbiamo deciso che si poteva fare a meno del vecchio adagio senza contraccolpi? Esattamente quando è subentrato il pensiero magico secondo cui più sottraiamo erotismo al letto più pretendiamo che esso rimanga unito?

In un romanzo necessario (sì, necessario) e necessariamente dolente come L’amore normale, Laura meritava forse meno malattia e più poesia; questo pensavo avviandomi verso il traguardo delle cinquecento pagine. Poi sono inciampata nei tre versi di Anna Maria Carpi riportati dall’autrice per voce di Giovanna: “Solo Giuda è vero. / Amici, amici quali, / se quel che sento mi varcasse le labbra” (p. 447).

E ho capito di aver toppato la frase simbolo del libro. Altro che “domanda vera solo a metà”: qui siamo dalle parti della verità tutta intera. Quella che il libro di Sarchi ci costringe a osservare. Innanzi tutto. E dietro a tutti.

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