Parte Prima
L’ARCHIMANDRITA
S. Girolamo dice: «Se il diavolo e i demoni scorrazzano in tutto il mondo e sono presenti ovunque con incredibile velocità, perché i martiri, che hanno profuso il loro sangue, dovrebbero rimanere tappati nel loro sepolcro senza poterne uscire?». Dal quale argomento si può concludere che non soltanto i buoni, ma anche i cattivi escano talvolta dalle loro dimore, in quanto la loro dannazione non è più grande di quella dei demoni, i quali scorrazzano ovunque.
(Summa Theologiae, 69, 3)
Meglio sarebbe se fossero loro, i morti, ad evocare noi.
(Eugenio Baroncelli, «Mosche d’inverno»)
1.
Quello sarebbe stato l’anno in cui tutti avrebbero conosciuto la verità. Vito Manuppello raggiunse velocemente il marciapiedi opposto dopo aver attivato l’antifurto della sua automobile con il telecomando appeso alle chiavi. Un cane randagio lo seguì per qualche metro, poi cambiò direzione. Manuppello ricordava di aver letto una statistica sui randagi: ogni tre minuti viene abbandonato un cane, venti ogni ora, quattrocento al giorno. Gli erano sembrati numeri gonfiati. La città avrebbe dovuto brulicare di meticci con il pelo sporco. Spinse il pulsante per chiamare l’ascensore. Le porte si aprirono immediatamente. Erano le nove e trenta del mattino. Manuppello strizzò la lingua contro il palato per sentire l’ultimo amaro del caffè bevuto prima di salire in automobile. Solo nell’ultimo anno, si erano verificati 800 incidenti stradali per evitare la morte di un animale randagio e ben 8.000 causati dall’urto contro di essi. I numeri, il potere persuasivo dei numeri. La riunione con Baronian era fissata per le dieci.
Manuppello arrivò al piano dove si trovava la sede della Perfect Way, la piccola società di consulenza che aveva avviato cinque anni prima. L’ultimo powerpoint con cui si presentava ai clienti insisteva molto su quel dato. Cinque anni. Un battito d’ali nella storia dell’uomo, un valore di cui andare fieri per una start up ormai consolidata nel settore delle consulenze. Turnaround, cambiamento, le aziende avevano paura. Sentivano tutte l’urgenza di rinnovare i manager, rivedere i processi, snellire le funzioni. In realtà a Manuppello sembrava che il mondo del lavoro fosse sempre uguale a se stesso, non riusciva a vedere una corrispondenza tra i titoli dei giornali che strillavano numeri sulla riduzione dei consumi e quanto ascoltava ogni giorno negli incontri con i clienti, nella sua vita di sempre. Commesse, progetti, fatture.
Manuppello aveva visto Baronian solo una volta, in precedenza. Un semplice incontro conoscitivo, tra i tanti che venivano fatti per valutare le società con cui avviare progetti in partnership. Quel giorno, quando Baronian si era presentato, Manuppello aveva chiesto incuriosito di che origine fosse quel cognome. – Armenia – aveva risposto Baronian – è un cognome di origine armena!–. La frase si era conclusa su una nota in maggiore. Baronian aveva sorriso appena, con gli occhi sbarrati, come per studiare l’effetto della sue parole sull’interlocutore. – È lo stesso cognome dell’archimandrita di Bucarest!–, aveva aggiunto poi. Manuppello non conosceva il significato della parola “archimandrita”, ma per un’associazione di idee, la cui correttezza non aveva pensato poi a verificare, gli erano apparse nella mente le cupole a cipolla delle chiese russe e immagini confuse di uomini dalle lunghe barbe.
Baronian gli aveva fatto un’ottima impressione e l’incontro si era concluso in modo diverso da quello che Manuppello si aspettava: nessun progetto in partnership, bensì l’acquisto di una consulenza dalla Phoenix, la società di Baronian. – Noi siamo i consulenti dei consulenti – aveva detto Baronian – il metasistema che descrive il sistema–. Filosofia del linguaggio, strutture complesse. Sul biglietto da visita di Baronian c’era disegnato un uccello avvolto dalle fiamme.
Manuppello entrò nella piccola sala riunioni senza fermarsi nella sua stanza. Non aveva documenti da prendere, nessuna nuova mail da sbrigare con calma. Daniela era già nella sala riunioni. La donna stava parlando al cellulare, alzò gli occhi verso Manuppello, lo salutò arcuando le sopracciglia verso l’alto. – Aloe – disse Daniela – sì, ma non quelle bustine pronte che trovi in erboristeria. Aloe fresco. Ho un vaso in balcone –. Stava parlando con una sua amica. Manuppello si tolse il soprabito e lo gettò sulla spalliera della sedia accanto a lui. Dalla giacca tirò fuori il biglietto da visita di Baronian. – Un depurativo pazzesco – disse Daniela – non puoi capire quanto mi sento meglio da quando lo prendo –. Il folclore dei biglietti da visita. Pezzi di carta con figure, numeri e lettere. Tessere di un gioco del passato. Manuppello si chiese quando era stata l’ultima volta che aveva consultato uno di quei cartoncini per cercare un recapito che gli interessava, anziché usare la rubrica della mail o del cellulare. Tese il braccio che reggeva il biglietto. Phoenix S.r.l. Solo in quel momento capì che l’uccello avvolto dal fuoco era l’araba fenice.
– Sì – disse Daniela – ma è un traffico! Tutte le mattine vado al balcone, stacco le foglie di aloe e le metto nel frullatore fino a quando non diventano una pappa. Ma ti pare che per essere in forma devo fare la fattucchiera ogni mattina? –. La fattucchiera. Manuppello pensò che quello sarebbe stato un soprannome azzeccato per Daniela. Era lei che si occupava di tutti i minimi aspetti organizzativi della sua piccola società. Materie oscure di cui Manuppello non sapeva e non voleva sapere nulla. La fattucchiera seguiva in modo impeccabile tutte quelle seccature. Quelle che un tempo venivano chiamate ‘segretarie’. Non gli sarebbe dispiaciuto avere avuto una come lei al suo fianco cinque anni prima, quando era successa la tragedia. Anche per questo Manuppello aveva chiesto a Daniela di essere presente alla prima riunione vera e propria con Baronian. Non avrebbero ancora firmato nessun contratto, si trattava solo di definire gli ambiti di intervento, ma Manuppello ci teneva all’opinione della sua collaboratrice.
– Buongiorno dottò – disse Daniela spegnendo il cellulare – come ti sei svegliato stamattina? –.
– Sai cos’è questo? –, chiese Manuppello piazzando il biglietto da visita davanti agli occhi di Daniela.
– Un biglietto da visita –.
– Un’araba fenice –.
– O forse un uccello e basta –.
Manuppello riportò il biglietto davanti a sé. Phoenix S.r.l. Via ***, Roma. Alessio Baronian superconsultant. Poi il disegno dell’araba fenice. O forse un uccello e basta. E intorno all’uccello, intorno alle fiamme, un’aureola di lettere pressoché illeggibili. – Posifa… –, disse Manuppello a bassa voce. Poi allungò di nuovo il biglietto a Daniela. – Tu riesci a capire che c’è scritto qui? –. La donna guardò il logo stampato sul biglietto da visita. – Non si capisce, le lettere sono mezze cancellate, deve essere una trovata grafica –.
– Post fata resurgo –.
Alessio Baronian fece il suo ingresso nella sala riunioni pronunciando quelle parole in latino. Si tolse il cappello grigio e lo appoggiò su una sedia libera. – È il motto dell’araba fenice. “Dopo la morte torno ad alzarmi”. E, sì, le lettere mezze cancellate sono una trovata grafica. Diecimila euro all’agenzia che ha studiato il logo. E non c’è stato cliente che non ci abbia chiesto: “che cavolo c’è scritto qui?”. In qualche modo, la trovata ha funzionato –.
Nel rivedere Baronian, Manuppello ricordò la sensazione che aveva provato all’epoca del primo incontro. Quell’uomo sembrava la persona più lontana dal mondo in cui Manuppello si trovava a vivere ogni giorno. Nel corso degli anni di lavoro aveva conosciuto gente di tutti i tipi: ingegneri, amministrativi, tecnici, legali, creativi, informatici, consulenti di ogni specie. Alcuni di loro avevano, è vero, un aspetto che Manuppello avrebbe potuto definire bohémienne, ma si vedeva che era una posa, forse un look definito con freddezza per ottenere qualche effetto studiato sul cliente. Baronian, invece, a cominciare dal cognome, sembrava un essere venuto da un’altra dimensione. Il superconsulente. Il metasistema che descrive il sistema.
– Che facciamo, cominciamo? –, disse Baronian con il sorriso sulle labbra. Si sedette tra gli altri due. Manuppello notò solo in quel momento che Baronian non aveva con sé un computer portatile. Baronian poteva tranquillamente essere uno di quei tipi che, nel ventunesimo secolo, ostentano il vezzo di non possedere un cellulare. L’archimandrita. Avrebbe dovuto controllare su internet cosa significava quella parola.
Nelle successive due ore, Manuppello raccontò a Baronian le vicende societarie della Perfect Way dalla nascita in poi. Tralasciò gli accadimenti che avevano determinato l’abbandono del suo precedente incarico per la Sebastiani. Baronian annuiva e sorrideva, senza prendere appunti. Cosa che faceva invece Daniela. Manuppello si chiese perché. Una sorta di verbale. Deformazione professionale. La fissazione dei burocrati per i documenti scritti. A un certo punto Daniela si alzò e lasciò la sala riunioni. Manuppello ne approfittò per riprendere fiato e fu allora che Baronian parlò per la prima volta da quando si era seduto.
– Vito – disse – se dobbiamo lavorare insieme non devono esserci segreti tra di noi –.
Manuppello non riuscì a capire se quella frase rappresentasse un morbido rimprovero nei suoi confronti oppure se fosse il preludio a una confessione intima.
– Non puoi pensare che io non sappia chi tu sia e cosa c’è nel tuo passato –, disse Baronian. Manuppello fissò l’altro per qualche secondo, senza parlare.
– L’incidente alla Sebastiani – continuò Baronian – il tuo nome è stato sui giornali per un po’… –.
– Sono uscito completamente pulito da quella storia – disse Manuppello secco – e poi non vedo cosa c’entri con il lavoro che dovrai fare per noi –.
– Tu sarai pure uscito pulito – disse Baronian – ma da cinque anni tutto ciò che è dolce ti dà la nausea –.
Manuppello non credeva a quanto aveva appena sentito. Come faceva Baronian a sapere dettagli così personali su di lui?
– Di’ la verità – continuò il superconsulente – il caffè lo prendi amaro o con lo zucchero? –.
Daniela rientrò in quel momento. Manuppello soffiò lentamente tra le mani, cercando di calmarsi e riordinare i pensieri. – Direi che qui abbiamo concluso –, disse. Daniela lo guardò, un po’ perplessa. Quella chiusura le sembrava troppa brusca. Raccolse il blocco e la penna che aveva lasciato sul tavolo della sala riunioni. – Va bene –, disse. Baronian si alzò, riprese il cappello grigio, e si incamminò verso la porta. – Rimaniamo d’accordo così allora – disse – ti faccio avere un preventivo nel giro di due giorni –. Anche quel cappello era strano, pensò Manuppello, una bombetta più alta dell’ordinario, un accessorio che avrebbe reso eccentrico perfino un artista e che invece Baronian indossava con naturalezza e che completava, senza apparire di troppo, la sua figura. Non c’era stato nessun accordo, non si era parlato di nessun preventivo in assenza di Daniela. Quel commiato era un messaggio in codice? Baronian non voleva che Manuppello parlasse con Daniela dello scambio di battute che avevano avuto mentre lei non era presente?
– Perché la fenice? –, chiese Daniela di colpo. Le era caduto l’occhio sul biglietto da visita che era rimasto lì sul tavolo dall’inizio della riunione. Manuppello non poté fare a meno di posare lo sguardo ancora una volta sul cartoncino bianco. Una carta dei tarocchi. In quel momento Manuppello decise che non avrebbe acquistato nessun servizio di consulenza da Baronian, avrebbe trovato una scusa. Anzi, avrebbe chiesto a Daniela di inventare un motivo plausibile per troncare i contatti con Baronian. Un preventivo fuori budget, l’insorgere di una grossa spesa imprevista. I numeri, il potere persuasivo dei numeri.
– Bennu –, disse Baronian.
– Cosa? –.
– A voler essere precisi, quell’uccello non è una fenice. È la rappresentazione stilizzata di Bennu, o Benu. Il dio egizio dell’eternità –. Il silenzio degli altri due invitò Baronian a proseguire la spiegazione.
Lì, in mezzo al corridoio, mentre i pochi locali in cui aveva sede la Perfect Way si riempivano della presenza operosa dei collaboratori di Manuppello, Baronian tenne una breve lezione di mitologia egizia. Bennu, la divinità zoomorfa consacrata al dio Ra, l’airone simbolo della resurrezione che viveva appollaiato su Benben, la pietra sacra, “il radiante”, probabilmente un meteorite di composizione ferrosa caduto in epoca preistorica. Eliopoli, Tebe e altri nomi di città egiziane del Nuovo Regno risuonarono nel corridoio della Perfect Way mentre gli uomini e le donne presenti avviavano i loro PC e portatili, scaricavano la posta del giorno prima, ricevevano SMS sui loro cellulari.
– E questo è quanto – concluse Baronian – di fatto, fu solo con i Greci che il Bennu diventò phoinix, la fenice –. Pronunciata quella parola, il superconsulente salutò i suoi interlocutori, alzò leggermente il cappello grigio sopra la sua testa e lasciò l’ufficio. Manuppello restò con le mani in tasca, fissando la porta di ingresso chiusa.
– Insomma – chiese Daniela – come siete rimasti alla fine? –.
– Niente –, disse Manuppello. Poi, come scosso da un brivido, si voltò verso la donna. – Inventati qualcosa – disse – Se dovesse richiamare o mandarci una mail, trova una scusa e annulla tutto. Non voglio più lavorare con lui –. Daniela fece segno di sì arricciando le labbra.
Manuppello finalmente entrò nel suo ufficio. Quasi d’istinto, anziché mettersi alla scrivania, si diresse verso la finestra. E fu in quel momento che ebbe l’apparizione. La finestra della sua stanza dava sulla strada in cui si trovava l’ingresso dello stabile. Vide dunque il cane randagio della mattina che ancora gironzolava da quelle parti, il cappello grigio di Baronian che procedeva probabilmente verso il posteggio dove il consulente aveva lasciato la sua auto e, infine, vide l’uomo che mai avrebbe creduto possibile rivedere ancora. Una nausea dolce e metallica risalì la gola di Manuppello. L’uomo lo stava fissando. Era rilassato e concentrato al tempo stesso, aveva le braccia lungo i fianchi, il busto ben eretto. Sembrava un attore sulla scena, un atleta prima del salto. Istintivamente Manuppello fece qualche passo indietro, fino a sottrarsi allo sguardo dell’uomo.
Poi, finalmente seduto, fissando il monitor senza vederlo, Manuppello deglutì più volte e strinse i braccioli della sua sedia girevole. Solo dopo diversi minuti riuscì a pensare di alzarsi di nuovo, andare alla finestra e verificare se l’uomo che aveva visto fosse ancora lì, ma non ebbe il coraggio di farlo. Non ce n’era bisogno: era sicuro di averlo visto. Riccardo Merz era tornato e quello sarebbe stato l’anno in cui tutti avrebbero conosciuto la verità.
2.
God is an American.
(David Bowie)
L’appartamento di Elena si trovava vicino piazza delle Muse, nel quartiere Parioli. La Roma ricca. Per Baronian quella parte della città era ricca comunque, perché ci abitava Elena Gabriele. Quella sera, Baronian aveva portato un beaujolais. Lo aveva scelto quando l’uomo, all’enoteca, gli aveva spiegato che il territorio di quella regione vinicola è principalmente granitico. – Uno dei terreni migliori per la vite –, aveva detto. Granito. La parola aveva fatto venire in mente a Baronian la genesi delle montagne, la lenta trasformazione del pianeta. Anche quella sera, del resto, Elena gli avrebbe raccontato delle grotte.
La donna aprì la porta di casa per fare entrare Baronian.
– Il nostro uomo a Mountain View! –.
– Non sono “il tuo uomo” –, rispose Elena ridendo.
– Sei la mia donna allora? –
– Neanche –.
Baronian era innamorato di Elena. Elena non era innamorata di lui. E l’esistenza di Baronian si consumava tutta intorno a questo incontro mancato. Baronian non aveva mai capito esattamente se Elena avesse chiara la sua determinazione a insistere fino alla fine dei tempi, anche quando era ormai evidente che non c’era speranza. Al tempo stesso Elena non riusciva a chiudere definitivamente con Baronian, pur sapendo che sarebbe stata la cosa migliore per entrambi. Teneva la loro relazione in una condizione di tepore controllato. Quando Elena e Alessio Baronian parlavano insieme si generava tra loro una specie di alchimia intellettuale che affascinava entrambi. Baronian, da parte sua, non riusciva a stare lontano da Elena troppo a lungo, aveva bisogno di quelle caste serate a casa della donna, parlando, bevendo, sognando le possibilità che quella storia conteneva in potenza. Era, per Baronian, il modo segreto di perpetuare l’eterno. Uno stato senza cambiamento, e dunque senza peggioramento.
Solo in quel momento Baronian si accorse del canto in latino che risuonava nell’aria.
– Dove siamo? –, disse lanciando il suo cappello grigio sul divano.
Elena si chinò sul monitor del portatile appoggiato sulla scrivania.
– Qui c’è scritto “Gerusalemme. Basilica del Santo Sepolcro. Marzo 2011”. È un bel canto, vero? Senti com’è dolce –.
Il Santo Sepolcro. Il luogo della Resurrezione. Baronian pensò a Riccardo Merz tornato sulla Terra. Per fare cosa? Punire i colpevoli? Piegare Sergio Ferreri? Portare Vito Manuppello alla disperazione?
Aurora caelum purpurat, aether resultat laudibus.
– Parlami di Google –, disse Baronian.
– Hanno il sushi bar al posto della mensa aziendale e dieci miliardi di dollari di fatturato –.
– Ma…? –
– Ma non sembrano particolarmente interessati alla mia idea –.
Da più di un anno, ormai, Elena stava lavorando a un ambizioso progetto di archiviazione su internet. Akusma, questo il nome di lavorazione. L’idea a prima vista poteva essere bollata come una scopiazzatura di YouTube. Così come lì venivano caricate ogni giorno ore e ore di video, su Akusma gli iscritti potevano caricare ore e ore di suoni. Ma l’idea di Elena prevedeva un particolare: i suoni caricati sulla piattaforma dovevano essere rigorosamente registrazioni ambientali, non manipolate. Quello che nel cinema viene chiamato “audio in presa diretta”: il vociare di un mercato, un comizio in piazza, amici che chiacchierano in un salotto, la sala d’attesa di una stazione ferroviaria di provincia, i rumori provenienti da uno scantinato, un rubinetto che gocciola nel cuore della notte, gli annunci dagli altoparlanti nel terminal di un aeroporto. Ogni file audio doveva essere caricato insieme a una scarna tag list: data e ora della registrazione, luogo e una breve descrizione facoltativa.
– A che quota sei arrivata? –, chiese Baronian.
– Mah – disse Elena leggendo una riga sul monitor – ho solo 239 giga di file audio fin ora, per un totale di 31 giorni, 13 ore, 29 minuti e 9 secondi di riproduzione. Non è tantissimo, ma considera che siamo solo in quattro per ora a caricare come beta-user –.
Attraverso Akusma Elena voleva realizzare una mappatura sempre più dettagliata di tutti i suoni del mondo. La voce della Terra. Elena immaginava il giorno in cui il suono di ogni punto dello spazio–tempo fosse archiviato su Akusma: sapere cosa si sentiva al mercato del pesce di Tokyo alle 5 e 30 del mattino del 29 maggio 2012. Quali voci provenivano dal cortile di una scuola elementare alle 11 e 40 del 3 ottobre 2015. Il rumore del traffico sull’interstatale 5 all’altezza di Elk Grove, California, nel cuore della notte del 16 agosto 2014.
– Perché la gente dovrebbe farlo? –.
– Cosa? –, fece Elena.
– Perché dovrebbero brandire il telefonino come un microfono per registrare il rumore del camion della spazzatura che li sveglia alle cinque del mattino, un cane che abbaia, lo scampanellio degli ascensori di un ospedale di Kinshasa? –.
– Perché no? Già lo fanno, già lo facciamo. Carichiamo su internet le foto dei nostri piedi, i video del nostro gatto che salta sul divano. Perché non anche questo? Siamo incantanti da tutto ciò che ci permette di dire la nostra. Sai qual è il principale punto di forza di Akusma? Il fatto che, come su qualunque altra piattaforma social, puoi commentare ciò che caricano gli altri. Dateci la possibilità di dire “I Like” e arriviamo tutti come mosche –.
– E a Google non interessa? –
– In ogni caso non farebbero il passo ora. Hanno tempi più lenti di quello che si crede. Ma hanno già sollevato molti problemi –.
– Tipo? –
– La privacy, intanto – rispose Elena – e poi dicono che è poco “social” e ancora non riescono a capire quali sbocchi commerciali possa avere un’idea del genere –.
Baronian aveva raggiunto il cassetto dove Elena teneva l’apribottiglie. Stappò il beaujolais e ne versò un po’ in due bicchieri.
– È una cosa inutile. È una cosa complessa. È una cosa meravigliosa –, disse Baronian alzando il suo bicchiere. – Mi piace! –, aggiunse poi calcando l’accento sull’ultima sillaba.
– Peccato che non sei tu quello che deve finanziarmi –, disse Elena guardando il vino nel suo bicchiere.
Il canto in latino era terminato. Adesso il computer era passato a riprodurre uno scrosciare di pioggia. In sottofondo era possibile distinguere il ronzio di un macchinario non meglio identificabile.
– E tu? – fece Elena – Che combini? –.
– Il solito. Vedo fantasmi, commercio con l’ultraterreno, cerco di capirne di più –.
Elena si voltò nervosamente verso il monitor del portatile. Guardò la barra di avanzamento del file audio in riproduzione. – Lo sai che mi disturbano questi argomenti –, disse.
Baronian si passò la lingua sui denti. Non resistette all’idea di chiedersi che sapore avesse la lingua di Elena. – Va bene – rispose – Cosa combino? Aiuto le aziende a continuare a illudersi che quello che fanno abbia un senso. Superconsulenze. Il mio mestiere –. Gli sembrava una risposta assurda tanto quanto la precedente. Mandò giù un sorso di beaujolais e subito si rimboccò il bicchiere. Sapore di ciliegia, di lampone, di fragola.
– Ti ricordi l’incidente alla Sebastiani? –.
Elena bevve un po’ di vino guardando il soffitto. Scosse la testa.
– Dai – disse Baronian – La Sebastiani. Cinque anni fa. Il gigantesco serbatoio di melassa esploso su in Veneto. Otto morti, venticinque feriti, duecento milioni di euro di danni –.
– Sì, me lo ricordo –.
– Sai, sono stato a fare un sopralluogo due mesi fa. La zona puzza ancora di melassa. È nauseante. Dicono che l’odore resterà lì per anni –.
– Impiegati caramellati –, disse Elena fissando il pavimento. A Baronian quella battuta macabra sembrò in contrasto con il fastidio che Elena provava nei confronti di certi argomenti, ma amava tutto di lei, anche le contraddizioni.
– Ma mi vuoi tenere a digiuno? – Disse Baronian – non hai un pezzo di formaggio, due crackers? –
– Guarda nel frigo –.
Baronian si spostò nella cucina. Prese una confezione aperta di affettato e alcuni avanzi di frittata conservati in un contenitore. Mise tutto su un piatto e tornò in salone.
– Sai? – disse Elena – questa pioggia l’ho registrata io. Non registro molto per Akusma, preferisco catalogare con attenzione quello che mi arriva dai beta-user, ma ieri notte sono stata sveglia tre ore per registrare tutto questo –.
– Notti brave –, disse Baronian sorridendo. Arrotolò una striscia di frittata intorno a una fetta di prosciutto cotto e cominciò a mordere il cilindretto farcito. – Voglio scoprire la verità –, disse masticando.
– Il senso della vita, certo –, fece Elena prendendo una fetta di prosciutto dal piatto.
– Sulla Sebastiani, dico. Forse non è stato un anarchico o un pazzo, ma un incidente sul lavoro che poteva essere evitato –.
– E che farai quando l’avrai scoperto? –
– Far confessare il colpevole. Ristabilire la giustizia –.
– Un lavoro per super Baronian. Chi te lo fa fare? –
– Parla quella che si sveglia alle tre di notte per registrare la pioggia –.
Restarono senza parlare per qualche secondo, assorbiti dal rumore acusmatico dell’acqua che fuoriusciva dagli altoparlanti del computer.
– Lo sai, no? – Disse Baronian finalmente – voglio salvare il mondo–.
Era una battuta da copione. Serviva a far sì che Elena potesse raccontare la storia delle grotte. Un loro piccolo rito che si rinnovava a ogni incontro.
Elena sorrise. Si alzò. Andò al computer e interruppe la riproduzione del suono della pioggia. Con due click fece partire un altro file audio. Voci di fondo, percussioni.
– Affascinante – commentò Baronian – cos’è? Africa? India? –.
– Macché. Festa dell’Unità a Testaccio, l’estate scorsa –.
Le percussioni galleggiarono nell’aria per meno di un minuto, poi Elena pensò che per quella sera avessero ascoltato abbastanza e spense l’audio.
– Dimmi un po’, ti ho mai raccontato la storia delle grotte? –.
Baronian bevve un po’ di vino, poi guardò il soffitto arricciando le labbra.
– La storia delle grotte? – Recitò – Mmmh… forse, una volta. Ma non ricordo, ti prego, raccontamela di nuovo –.
Per alcune estati di seguito Elena aveva lavorato come guida turistica nelle Grotte di Castellana. Più volte al giorno, durante la settimana, accompagnava gruppi di una ventina di persone lungo il percorso di circa un chilometro. A Baronian piaceva immaginare Elena che procedeva nella vastità sotterranea, tra quelle formazioni calcaree vecchie di cento milioni di anni. La Terra all’epoca del Cretaceo Superiore. I monsoni caldi che soffiavano costanti rendendo il clima più adatto alla vita. L’apparizione delle angiosperme, le prime piante in grado di generare un fiore. Elena.
– Il discorsetto introduttivo l’ho fatto così tante volte che l’ho imparato a memoria – continuò Elena – Portate un giubbetto perché anche se fuori è estate all’interno delle grotte fa freddo, attenti a non scivolare, parlate a bassa voce e, soprattutto, non toccate le formazioni rocciose, perché l’acidità della nostra pelle le danneggia. Ripeto: non toccate le rocce. Beh, vuoi sapere cosa succedeva ogni volta, ogni santa volta che portavo un gruppo in visita? –
– Fammi indovinare… c’era sempre almeno uno che toccava le rocce –.
– Sempre. Sempre. Non è mai successo, neanche una volta, che tutti quanti rispettassero il divieto. C’era sempre almeno uno che toccava le rocce –.
Baronian versò altro vino nei bicchieri. La testa gli girava leggermente. Quando arrivava a questo punto della serata si chiedeva sempre se la cosa più semplice non fosse quella di sporgersi verso Elena e baciarla, accadesse quel che doveva accadere. Ma al tempo stesso il torpore dell’alcol già lo saziava, quasi che desiderare, immaginare quel momento, fosse più che sufficiente per lui.
– L’umanità non può essere salvata, Alessio. Ci sarà sempre qualcuno che tocca ciò che non deve, che non sta a sentire. Non serve a niente indicare la via d’uscita se la gente non legge i segnali –.
– È che mi diverto. Non è idealismo, non solo almeno –.
– E quindi che farai? Andrai alla polizia e denuncerai il colpevole? –.
– Dovresti conoscermi ormai – disse Baronian – non sono così semplice –.
Elena sorrise. Poteva essere compassione o ammirazione, indifferentemente. Erano i momenti in cui Baronian si chiedeva se per caso fosse riuscito a farla avvicinare un po’ a lui, anche solo di un millimetro.
– Possiamo risentire quel canto in latino di prima? –, chiese.
Elena si alzò e andò al computer. Fece ripartire l’audio.
Aurora caelum purpurat, aether resultat laudibus, mundus triumphans iubilat, horrens Avernus infremit, rex ille dum fortissimus de mortis inferno specu patrum senatum liberum educit ad vitae iubar.
– Maledizione – disse Baronian – perché non abbiamo studiato il latino? Comunque è davvero un bel canto. Mandami il file, potrebbe tornarmi utile per tutto l’affare della Sebastiani –.
– Cosa? E come? –.
– Bé, è un po’ difficile spiegarti cosa voglio fare senza parlarti dei fantasmi –.
Elena sbuffò.
Baronian ripensò al suo armamentario. File di canti in latino dalla Basilica del Santo Sepolcro, Marylin Monroe, gli incidenti dello Shuttle, Lee Harvey Oswald, l’assassinio di JFK. Tanta America, come sempre, tantissima America.
– L’America –, mormorò a bassa voce.
– L’America? –, chiese Elena. Avevano bevuto molto, tutti e due.
– È un immaginario potente. Non so che farci, alla fine torno sempre lì –.
– Cosa ha che non va l’immaginario italiano? –.
Sat funeri, sat lacrimis, sat est datum doloribus! Surrexit exstinctor necis clamat coruscans angelu. Baronian si chiese se fosse possibile che un fantasma si materializzasse ora, tra lui ed Elena. Come avrebbe reagito lei, cosa avrebbe fatto? Poteva essere questo un modo per conquistarla. Un filtro d’amore. In passato, nel tentativo di capire di più a proposito delle sue facoltà, Baronian era finito anche su testi che trattavano i rituali per far innamorare di sé una persona. Non ricordava le procedure da seguire, ma i nomi sì. Legamento del pipistrello, legamento del sangue mestruale, legamento del passero. Incantesimi della tradizione popolare. L’immaginario italiano e l’immaginario americano.
– Che giorno è oggi? –, chiese Baronian.
– Mmh.. Il 16 marzo –.
– Tutto qui? –.
Elena fece segno di non capire.
– Ok – disse Baronian – Chi ha ucciso Kennedy? –
– Lee Harvey Oswald–.
– Risposta pronta, complimenti. Come mai sai chi ha ucciso Kennedy? Sei forse americana? –
Elena alzò le spalle. – Il film di Oliver Stone – disse – Uno degli ultimi romanzi di Stephen King, ricordo perfino un fumetto che leggevo da ragazza che girava intorno a Oswald, il complotto della CIA… –.
– Immaginario americano-immaginario italiano uno a zero –
– Non ne sono così sicura –.
– Ma dai. Ricordiamo esattamente cosa stavamo facendo quando gli aerei si schiantarono contro le torri, ma dimentichiamo con facilità la data in cui è stato rapito Aldo Moro –.
Elena guardò il bicchiere vuoto poi di colpo alzò lo sguardo verso Baronian.
– Cioè… – Disse – vuoi dire che…–
– Già, il 16 marzo, esattamente trentaquattro anni fa, oggi –.
Deo patri sit gloria et filio, qui a mortuis surrexit, ac paraclito in sempiterna saecula.
Il canto latino finì per la seconda volta. Baronian lo interpretò come un invito a chiudere lì la serata. Era ubriaco.
– Perché non sei la mia donna? –, disse alzandosi. Aveva davvero pronunciato quelle parole? Sembrava proprio che l’avesse fatto. – Perché tu sei un prete –, aveva risposto Elena.
Baronian la guardò inclinando il capo da un lato.
– Sei un prete – continuò lei – ti senti depositario della verità, vuoi salvare il mondo e non accetti consigli da nessuno –.
Quando era ormai sul pianerottolo, Baronian si voltò verso Elena, incorniciata dagli stipiti della porta d’ingresso.
– Le grotte ci sono ancora –.
– Cosa? –
– Le grotte – ripeté Baronian – ci sono ancora. Ogni volta c’era sempre qualcuno che le toccava. E nonostante questo sono ancora lì –.
Una volta in strada, Baronian respirò profondamente l’aria della notte. In un’automobile parcheggiata, poco distante, una coppia stava litigando. Baronian tirò fuori il suo cellulare e, senza farsene accorgere, registrò la loro conversazione per qualche minuto. Il mattino dopo avrebbe scrupolosamente aggiunto i tag al file audio e l’avrebbe inviato via mail ad Elena. Oggetto: il mio piccolo contributo per Akusma.
3.
Sergio Ferreri spinse il tasto per terminare la chiamata sul suo telefono da tavolo. Manuppello stava salendo nel suo ufficio. Così gli aveva detto la sua segretaria dopo aver ricevuto la segnalazione dalla reception. A Ferreri l’idea di incontrare Manuppello non piaceva per niente. Meno che mai nel suo ufficio, al quinto piano del palazzo dove aveva sede il quartier generale dell’azienda che dirigeva da quasi cinque anni. Qualche settimana prima un giornalista lo aveva intervistato per invitarlo a illustrare i buoni risultati di bilancio che la Lucarini stava conseguendo da quando Ferreri era al comando. Uno di quei pezzi dove convivono informazione pubblicitaria e commento giornalistico, con la connivenza di lettori distratti o semplicemente ingenui. – Cosa le piace di più del suo lavoro di amministratore delegato di uno dei più amati pastifici italiani? –, gli aveva chiesto al telefono il redattore del Sole 24 Ore alla fine dell’intervista. Ferreri aveva improvvisato una risposta, rimaneggiando i concetti della vision aziendale. Portare ogni giorno il meglio dell’Italia sulla tavola degli italiani. Tra pochi minuti Manuppello sarebbe entrato nel suo ufficio. Ferreri pensò che in qualche modo doveva aspettarsela, quella visita. Non gli piaceva l’idea di incontrare dopo tanto tempo l’uomo con il quale aveva condiviso tutto quello che era successo cinque anni prima. Qual è l’aspetto migliore del lavoro di amministratore delegato di un pastificio? Il fatto che i magazzini di spaghetti non esplodono come i serbatoi difettosi, aveva risposto mentalmente Ferreri.
La porta dell’ufficio si dischiuse leggermente.
– Dottore, c’è il dottor Manuppello –.
– Faccia entrare, grazie –.
Stretto nell’impermeabile chiaro, Vito Manuppello sembrava più pallido di quanto non fosse in genere. Si guardò intorno, quasi sperso nel luminoso ufficio di Ferreri. Solo dopo aver guardato per alcuni istanti l’orizzonte dalle vetrate, Manuppello sembrò accorgersi della presenza del suo vecchio collega al di là della scrivania.
– Sergio – disse – buongiorno –.
– Ciao Vito –, fece Ferreri alzandosi. Le mani si strinsero. Quella di Ferreri assorbì il lieve sudore dell’altra.
– Devo dirtelo – disse Ferreri – non hai un bell’aspetto –.
– Stanotte non ho dormito. E comunque non è un buon periodo –.
– Il lavoro? –.
– Il lavoro va bene –, disse Manuppello.
– Allora tutto va bene –.
Manuppello si accomodò nella poltroncina di fronte alla scrivania di Ferreri. Rifiutò l’invito a togliersi l’impermeabile. Non iniziò a parlare. Guardava la scrivania che aveva di fronte, così spaziosa e ordinata. Il vero indicatore del livello gerarchico in azienda, pensò Manuppello, non è dato dalla quantità di piante ornamentali o segretarie, come decenni di film ci hanno insegnato, ma dalla vastità desolata della scrivania. Tavoli aridi come il deserto di Atacama dove spiccano qua e là le oasi di un portapenne o di un carica–cellulare.
Ferreri fece scomparire dal monitor che aveva di lato una schermata con alcuni numeri e si alzò. A Manuppello venne in mente quella barzelletta. Un uomo entra in una libreria. – Avete testi di economia? –, chiede al commesso. – Sì – risponde quello – dopo la fantascienza –.
Il cellulare sulla scrivania di Ferreri vibrò ed emise una breve scala discendente. Il display si illuminò di azzurro per qualche secondo prima di tornare nel buio.
– Sai Vito, sinceramente non è una buona idea che tu venga qui –.
– Lo so, ma… –.
– Ne avevamo parlato, ti ricordi? L’ultima volta che ci eravamo visti. Quando è stato? –.
– L’ultima udienza, immagino –.
– Sì –, disse Ferreri guardando fuori dalla finestra.
Manuppello respirò. Non sapeva da che parte cominciare. Cominciò da Baronian.
– Sai chi ho visto ieri? –.
Ferreri deglutì.
– Baronian – disse Manuppello – lo conosci? –.
Ferreri sorrise. – Un mezzo matto – Disse – È una specie di figura mitica nel mondo delle consulenze aziendali –.
– Io, sai, era la seconda volta che lo vedevo –. Manuppello cercò anche di ricordare quella parola strana che Baronian aveva usato per se stesso, ma non gli venne in mente. Una figura mitica, aveva appena detto Ferreri. Uno stregone.
– Avete concluso qualcosa? –
– In realtà no. Cioè, ero quasi sul punto di comprare una consulenza da lui, ma poi… –.
– Lo sai che dicono? – Lo interruppe Ferreri – Che ha la fissazione per i morti. L’aldilà, roba del genere. Pare che nel suo studio abbia una specie di collezione di video su queste cose, libri. Un vero matto, insomma –.
Manuppello guardò Ferreri senza dire nulla. Cercò il fazzoletto nella tasca dell’impermeabile e si asciugò il sudore sopra il labbro superiore.
– È strano perché… –.
– Comunque nel suo lavoro pare sia in gamba – continuò Ferreri come se l’altro non avesse aperto bocca – anche alcune delle società di consulenza a cui ci rivolgiamo sono state formate da Baronian –.
– Senti Sergio, io devo dirti una cosa, è una cosa assurda, io… guarda, se tu la raccontassi a me, io non ci crederei, solo che te la devo dire se no esco di testa –.
– Dimmi. Madonna, ma sei pallido, vuoi un bicchiere d’acqua, qualcosa? –.
Manuppello non rispose alla domanda di Ferreri ma continuò. Non riusciva a guardare l’altro in faccia. Fissava la porzione di moquette che aveva tra le scarpe.
– Ieri è venuto da me Baronian, appunto, mi aveva chiesto un appuntamento. Io pensavo fosse per parlare di lavoro, consulenze, di cosa mai avremmo dovuto parlare, no? E invece, a un certo punto, siamo rimasti soli in sala riunioni e lui ha cominciato a fare allusioni a tutta la storia… alla Sebastiani, no? E… per dire, sapeva che io da quando è successa la cosa della Sebastiani non riesco più a bere niente di dolce, è pazzesco, no? –.
– Ma davvero? Cioè, ti dà fastidio il dolce perché ti ricorda… –.
– Capito? – Disse Manuppello – ma io questa cosa non l’ho mai detta a nessuno. Neanche a Claudia. A nessuno! Come faceva a saperlo Baronian, che era la seconda volta che lo vedevo? –.
Ferreri non disse nulla. Si appoggiò al bordo della scrivania, le braccia conserte.
– E insomma. Questa cosa mi urta, chiudo in fretta la riunione con Baronian e lo saluto. Torno nel mio ufficio, sono tutto nervoso. E non so neanche io perché, mi viene l’istinto di affacciarmi alla finestra. E… io lo so che tu adesso mi prendi per pazzo, guarda, magari è solo una cosa di suggestione, però ti giuro, Sergio, credimi, io l’ho visto –.
– Chi hai visto? –.
– Merz. Stava lì, in mezzo alla strada, di fronte al palazzo dove lavoro. E guardava verso di me –.
– Riccardo Merz? –.
Manuppello fece segno di sì con la testa. Ferreri tirò un lungo sospiro, poi deglutì di nuovo e girò intorno alla scrivania per sedersi sulla sua poltrona scura e imbottita.
– Senti – disse – io penso che sia normale –.
– Come normale? –.
– Ma sì. Voglio dire, quello che abbiamo attraversato non è mica una barzelletta. Tutti i processi, i nomi sui giornali, il rischio di buttare a mare tutto il mazzo che ci eravamo fatti nel corso degli anni, per non parlare della tragedia di chi ha perso la vita in questa storia, Merz compreso. Cioè, siamo stati sottoposti a uno stress non indifferente e può capitare che uno… la suggestione e tutto il resto… che uno insomma veda… creda di vedere… un fantasma. Magari l’incontro stesso con Baronian ti ha suggestionato –.
Manuppello si mise la testa fra le mani.
– Guarda Sergio, credimi, era vero. Io non so se era un’allucinazione, non so neanche se so esattamente cosa sia un’allucinazione, ma se lo era allora le allucinazioni sono davvero realistiche. Io ho visto Riccardo Merz come vedo te adesso –.
– Vito – disse Ferreri – Merz è morto –.
Manuppello fece di sì con la testa. Si alzò dalla poltroncina. Adesso che ne aveva parlato con Ferreri la cosa gli appariva in tutta la sua irrealtà. Sì, era stato lo stress, un’allucinazione, la suggestione, qualunque cosa, tutto tranne il fantasma di Riccardo Merz che torna dall’aldilà.
Il cellulare di Manuppello squillò. Era Daniela che lo chiamava dall’ufficio.
– Perdonami – disse Manuppello a Ferreri, poi parlò al telefono con la sua collaboratrice. Mentre parlava, Manuppello si accorgeva che Ferreri diventava sempre più cupo.
– Indovina un po’ – disse Manuppello dopo aver chiuso la chiamata – era la mia segretaria. Mi ha detto che Baronian ha già richiamato, ha mandato il preventivo. È così insistente. Quello mi mette i brividi, io non…
Ferreri non disse nulla. Guardava l’orizzonte dalle vetrate come se l’altro non stesse parlando con lui.
– Sergio – disse Manuppello – adesso sei tu quello che ha un brutto aspetto –.
– Sai qual è la cosa più assurda di tutta questa storia? Che il fantasma di Merz non ha la faccia di Merz, ma tu lo vedi e sai che è lui. Giusto? –.
Manuppello guardò Ferreri trattenendo il fiato. Lentamente si inarcò su se stesso fino a ritrovarsi seduto sulla poltroncina.
– L’hai visto anche tu –.
Ferreri non rispose nulla.
– L’hai visto anche tu! – ripeté Manuppello. Era quasi contento, ora. – Io questa cosa non volevo dirtela, perché già è tutto così assurdo, in più se ti dicevo pure che quello che ho visto neanche ci assomigliava lontanamente a Merz mi avresti preso per pazzo. E invece… Oddio Sergio, ma come è possibile? Che ci stanno facendo?–.
– Non lo so. Io l’ho visto tre giorni fa, sotto casa mia. Stavo salendo in macchina per venire qui. Mi vengono ancora i brividi –.
Manuppello cominciò a singhiozzare senza vergogna. – Proprio l’altro giorno – disse – proprio l’altro giorno mi dicevo, dai, alla fine ne sono venuto fuori, ho rimesso su una piccola società, sono ancora in piedi, e adesso…–.
– E adesso niente, Vito. Ma che vuoi che succeda? –.
– Ma come che vuoi che succeda? Oh, è Merz quello. Pensa se cominciasse a parlare… –.
Ferreri fece segno di abbassare la voce. – La gestiamo, Vito, gestiamo pure questa –, disse.
– Sì, il fantasma gestiamo… –, disse Manuppello con la voce rotta.
– Vito – disse Ferreri sottovoce, accucciandosi davanti all’altro – quando c’è stato l’incidente abbiamo gestito l’incidente, quando ci sono stati i processi abbiamo gestito i processi, adesso che c’è il fantasma, gestiamo il fantasma. Gestiamo pure questa, Vito. Dobbiamo gestirla –.
– E come? Come si gestiscono i fantasmi? –.
– Magari Baronian lo sa –, disse Ferreri tirandosi di nuovo in piedi.
Tag: Federico Platania
17 settembre 2015 alle 13:03
Appassionante.
17 settembre 2015 alle 21:08
Il primo esergo (quello dalla Summa Theologica, Supplementum tertiae partis, q.69, a.3, Sed contra 2) potrebbe suggerire a un lettore non pratico della struttura della Summa che la conclusione tratta dalla citazione di S. Girolamo, che i cattivi escano talvolta dalle loro dimore ecc., rispecchi l’opinione di S. Tommaso.
In realtà non è così. Si tratta, secondo il metodo della disputa scolastica, di un’opinione possibile, apparentemente sostenuta da un’autorità (S.Girolamo), che S. Tommaso però confuta (v. Ad secundum – Sed contra), interpretando correttamente S. Girolamo.
Questo non per fare esercizio di sottigliezza filologica su un esergo, ma perché mi dispiacerebbe che S. Tommaso, che era sì un teologo, ma prima di tutto un filosofo, finisse nelle immediate vicinanze di padre Amorth. O si abusasse della sua autorità per avallare delle scemenze.
17 settembre 2015 alle 22:50
È possibile che io scriva scemenze, Lucia. Ma usare un esergo per avallare ciò che scrivo è una scemenza che non mi verrebbe mai in mente.
18 settembre 2015 alle 07:17
Ah, ho capito, allora ce lo metti per bellezza. Rimane il fatto che la citazione, così com’è e per i motivi che ho detto, è un pelino disonesta, e su questo non hai risposto.
(Con le “scemenze” non mi riferivo a quello che scrivi, figurati, abbiamo appena cominciato a leggere, ma al fatto che i cattivi escano talvolta ecc.)
18 settembre 2015 alle 09:22
@Lucia
Tutto quello che ho messo in questo romanzo ce l’ho messo “per bellezza”. Almeno ci ho provato.
Io – e credo di non essere il solo a farlo – utilizzo le citazioni per indicare un immaginario di riferimento. Sono coordinate, non argomenti pro o contro qualcosa. In questo senso una citazione – almeno nel modo in cui la uso io – non può essere né onesta né disonesta.
18 settembre 2015 alle 10:45
“ Martedì 7 maggio 1996 – « Le citazioni letterali sono un segno di generosità spirituale. Esse non ottengono la considerazione che meriterebbero e questo è bene perché la generosità spirituale è appunto destinata ad essere misconosciuta. E significano un fatto incomprensibile per la maggior parte degli uomini: che tutti coloro dei quali siamo debitori spirituali, accompagnano il nostro pensiero in ogni suo cammino. Quando si possiede una certa organizzazione dello spirito, non solo non si evitano le citazioni, anzi, questo non sarebbe neppure possibile senza provare il senso di liquidare, con la più ingrata brutalità, proprio coloro alla cui lontana irradiazione dobbiamo di essere giunti a formulare quel pensiero appunto che tentiamo di esprimere. I rapporti con gli scrittori scomparsi in particolare, sono fra i più dolorosamente lancinanti, ma anche i più solenni, i più ricchi di conforto che uno spirito possa coltivare; io, comunque, per parte mia, non conosco alcun giorno in cui molti di essi non partecipino alla mia vita con un grado di intimità tale da commuovere sino alle lacrime. » (Charles Du Bos, Diario, 1922) “ [*]
[*] Lsds / 537
18 settembre 2015 alle 16:28
“Io non cito, io copio; e così accresco il valore di ciò che copio, perché ha meritato d’essere copiato non da chiunque, ma da me”. (Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, passim).
Ho riletto in questi giorni Soglie di Gérard Genette. Notavo, leggendo il capitolo dedicato alle citazioni inaugurali, che la pratica delle citazioni sbagliate, manipolate, strumentalizzate, false, apocrife, impertinenti, eccetera, sembra assai più diffusa di quella delle citazioni corrette e pertinenti.
Peraltro, forse è un mio errore di prospettiva. Le poche volte che ho messo delle citazioni a inaugurare testi miei, ho sempre fatto provveduto a far loro dire qualcosa di completamente diverso da ciò che volevano dire nel contesto dalle quali le ho prelevate.
(Ma Gabriele Amorth appartiene a una diversa da quella di Tommaso d’Aquino? A me pare di no).
18 settembre 2015 alle 17:15
Il primo capitolo mi e’ affine, poi la storia prende una piega vicina al fantastico con uno stile colloquiale. E’ un romanzo inedito in cerca di editore? In bocca al lupo!
18 settembre 2015 alle 19:53
Personalmente (e profondamente) credo che far dire a qualcuno, o suggerire che abbia detto, qualcosa che non ha detto (al di fuori di un contesto dichiaratamente finzionale, es. racconto di Borges) sia disonesto.
Platania e Mozzi ritengono che in determinati contesti (esergo, citazione, forse altri) la distinzione onesto-disonesto non sia pertinente e che quindi la pratica sia legittima o addrittura consigliata o consigliabile.
Benissimo.
L’importante è saperlo.
18 settembre 2015 alle 20:36
“ 21 aprile 1987 – Fa una certa impressione sentire il comico Pippo Franco citare il caso Proust-Gide nel catalogo degli errori d’autore. “ [*]
[*] Lsds / 538
18 settembre 2015 alle 22:10
Mi pare una lettura forzata, Lucia. Dovremmo al medesimo modo rimproverare al Pascoli e alla sua epigrafe “Arbusta iuvant humilesque myricae” una certa dose di disonestà nei confronti di Virgilio, il quale nel testo originale dice “non omnes arbusta iuvant humilesque myricae”.
18 settembre 2015 alle 22:42
Mi pare un caso un po’ diverso, Mat. Pascoli non scrive sotto la sua epigrafe Verg. Ecl.IV, vv 1-2.
Quando ho letto il primo esergo di Platania ho fatto quasi un salto e ho pensato: è impossibile che S. Tommaso abbia scritto una cosa del genere. Infatti non l’ha scritta. Come dire, non suonava da lui.
Mi sta a cuore S. Tommaso, mi sta a cuore il lumen rationis, quindi ho protestato. Poi, ognuno scrive quel che gli pare, tranquillamente e allegramente. In più, sono perfettamente disposta a ammettere che nell’economia del romanzo di Platania la citazione diciamo un po’ barocca occupa un posto minimo. Mi rimetto in tasca le mie rimostranze e attendo con impazienza le prossime puntate.
19 settembre 2015 alle 06:16
Un romanzo è un contesto dichiaratamente finzionale. O no?
19 settembre 2015 alle 06:43
Anzi, argomentiamo un po’. Lucia dice:
Affermazione accettabile, mi pare (al di là di quel “(e profondamente)”, espediente retorico per far balenare un’accusa di “non profondità” o “superficialità”; e di quel “personalmente”, che in genere si usa per far intendere che non si ha nessuna disponibilità a cambiare opinione: è, per così dire, una relativizzazione paradossale), ma con dei limiti. Ad esempio: pensate a quante volte lo scherzo si fonda sul fraintendimento deliberato: in quel caso non si ha un contesto dichiaratamente finzionale che precede (e, per così dire, autorizza eticamente) il fraintendimento deliberato; ma è il fraintendimento deliberato che (nel momento in cui viene percepito; cosa che spesso avviene dopo un’esitazione, e talvolta non avviene per niente) va a dichiarare la finzionalità del contesto.
Non so se ci sono altri casi in cui l’affermazione di Lucia risulta non vera o, almeno, non applicabile. Mi importa che ce ne sia uno, e che quindi l’affermazione non possa pretendere all’universalità.
(Mi vengono in mente, per esperienza recente, le “pie bugie” che si dicono nei corridoi degli ospedali; ma in quel caso sono più propenso a essere d’accordo con Lucia).
Qui, secondo me, il problema sta nell’intendersi su dove cominici e dove finisca il “contesto romanzo”, ovvero il contesto finzionale. Secondo Lucia, evidentemente, comincia dopo gli esergo: e quindi (pensate a come è fatto un libro) dopo il nome dell’autore, dopo il titolo, dopo il frontespizio, dopo l’eventuale occhiello recante un intertitolo.
Eh già. Perché le citazioni, qui, vengono dopo l’indicazione “Parte prima. L’archimandrita”. Direi che siamo piuttosto dentro al testo, e quindi al contesto finzionale.
Prendiamo un libro a caso, che so: I promessi sposi. Che si annunciano fin dal frontespizio (dico nell’edizione originale) come storia del Seicento “scoperta e rifatta” da Manzoni. Ora: se penso che il titolo sia già contesto finzionale, non c’è problema. Se penso che non lo sia ancora, devo dire che Manzoni mente. (Attenzione: a quell’epoca non si usava, come oggi, scrivere sulle copertine e sui frontespizi dei romanzi la parola: “romanzo”). Vado avanti, e trovo la famosa prefazione che comincia con l’estenuante citazione da un testo secentesco che sappiamo tutti essere inesistente. Se siamo già in contesto finzionale, non c’è problema; se non siamo ancora in contesto finzionale, Manzoni è un truffatore.
La questione s’aggrava se pensiamo che nello stesso frontespizio si annuncia anche La colonna infame, che opera di finzione dichiaratamente non è.
E non dico questo per dire che Manzoni è peggio di noi, o per dire che siamo – Platania e io – in buona compagnia. Lo dico per dire che esistono delle pratiche, nella letteratura, tranquillamente accettate da qualche secolo; accostarsi alla letteratura ignorandole deliberatamente può essere un utile atteggiamento scientifico per notarle e osservarle; non mi parrebbe però sensato (ovvero: mi farebbe un effetto del tipo cavoli a merenda) giudicare “onesta” o “disonesta” una persona perché in un romanzo fa ciò che solitamente si fa nei romanzi, ossia fa opera di finzione.
Quanto al “forse altri” di Lucia, tengo a precisare che io personalmente (e profondamente) ritengo non pertinente la distinzione onesto/disonesto ogniqualvolta provvedo a emettere fatture.
19 settembre 2015 alle 09:21
Lo sapevo che ti saresti attaccato lì, ho messo anche un esempio ma non è servito. Penso che “fare opera di finzione” sia una categoria molto ampia che, se non si fa qualche opportuna distinzione, rischia di diventare la notte dove tutti i gatti sono grigi.
Per venire a Manzoni, non mi risulta che attribuisca l'”estenuante citazione” che so, a Giovanni Ambrosio Marini o altro scrittore o storico barocco. Il punto (trascurabile fin che si vuole, ma per me punto è) è attribuire scientemente a qualcuno qualcosa che non ha detto (al di fuori del contesto Borges e affini, che naturalmente andrebbe definito e precisato, e magari potrei anche riuscirci, ma mi dispiace non adesso. Comunque non è il contesto di Platania, questo è abbastanza evidente leggendo già le prime pagine di Platania).
Per venire a me invece, posso solo ripetere che, personalmente l’esergo mi ha fatto una profonda e autentica impressione di mistificazione. L’impressione era fondata (nel senso che c’erano dei motivi oggettivi che ho fatto notare). Poi, se mi dici che l’obiettivo del romanzo è mistificare…
Quanto alle fatture del Mozzi, lui ovviamente si regola come vuole, e magari non ho neanche capito cosa voleva dire. Però mi pare che ci sia qualcuno che dice che chi è fedele nel piccolo è fedele anche nel grande. Lo stesso che diceva che bisogna pagare le tasse, credo.
19 settembre 2015 alle 10:00
“ Giovedì 12 dicembre 2002 – « Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise » (Umberto Eco, Epigrafe a Diario minimo, 1963) “ [*]
[*] Lsds / 539
19 settembre 2015 alle 21:28
Ecco, Lucia: se tu ci proponessi le tue “opportune distinzioni”, se tu “definissi e precisassi”, magari potremmo capire ciò che vuoi dire.
Se non ce le proponi, non possiamo capire.
La mia battuta sul “forse altri” serviva solo, nel mio intento, a suggerire come “forse altri” sia un’indicazione un tantino generica (e, in quanto generica, anche maliziosamente interpretabile).
Nessuno qui (mi pare) ha sostenuto che “l’obiettivo del romanzo” sia “mistificare”. Trovo che attribuire all’interlocutore opinioni idiote sia un modo di discutere poco pratico.
19 settembre 2015 alle 22:54
L’osservazione iniziale di Lucia non mi sembra campata in aria. Dato per scontato il fascino della citazione, soprattutto se la si usa per “aprire” ad un contesto del tutto diverso (beninteso, però, che anche in questo caso la citazione resta integra, altrimenti che citazione è?), se vogliamo dire qualcosa basta scriverlo… non per forza dobbiamo trovare una citazione, se non è calzante o se tocca distorcerla. A mio giudizio, prescindendo dal lavoro di Platania, in letteratura esiste questa “cattiva” abitudine.
La mia domanda a Federico Platania è un altra, e molto più terra terra: noto un continuo ricorrere dei cognomi, nel senso che Manuppello appare di continuo nel primo capitolo, come Baronian nel secondo. Posto che si potrebbero usare locuzioni come “l’uomo”, “lui”, “l’altro” (nella terza parte, quando dialogano due uomini), quale è la ragione che spinge a questa ripetizione?
Scusami la domanda forse banale, ma non arrivo a capirla.
19 settembre 2015 alle 23:12
Sono d’accordo, Rollo: l’osservazione iniziale di Lucia non è campata in aria. Il problema viene dopo, e cioè quando non si capisce perché mai un racconto di Borges sarebbe un “contesto finzionale” e il romanzo di Federico Platania no. Aspettiamo le “opportune distinzioni”.
19 settembre 2015 alle 23:32
Capisco, Giulio.
Credo che Lucia voglia riferirsi a un dato tipicamente borgesiano (che io trovo uno scrittore immenso): l’articolazione di una finzione nella finzione (quest’ultima è il romanzo). Qualcosa che a me – quando leggo Borges – viene in mente di definire come un diverso modo di proporre distopie. In tali frangenti il lettore non si scandalizza di leggere affermazioni “inautentiche” di personaggi noti.
In ogni caso, come dici, è meglio attendere l’interpretazione, stavolta autentica, di Lucia.
20 settembre 2015 alle 07:57
@GiuseppeC
Sì, è un romanzo inedito in cerca di editore. Crepi il lupo!
@Rollo Tommasi
Come dice una severa editor: «Non c’è niente di male a usare “disse”. Non si vince un premio se si scovano tutti i sinonimi di “dire”. È meglio una ripetizione piuttosto che un termine balordo»
Analogamente, mi sarebbe sembrato innaturale usare “l’uomo”, “lui”, “l’altro” al posto del nome proprio dei personaggi (in realtà, raramente, nel romanzo capiterà che ricorrerò a questo espediente per riferirmi a uno dei protagonisti).
Uso “l’uomo” o “la donna” solo quando mi riferisco a un personaggio secondario (nei capitoli fin qui pubblicati è un “uomo” e basta quello che consiglia a Baronian il beaujolais; a Daniela, la collaboratrice di Manuppello, personaggio secondario che tornerà solo di sfuggita in un capitolo successivo, mi riferisco spesso con “la donna”).
Mi sembra che ripetere i nomi propri dei protagonisti contribuisca a renderli più vivi, a scolpirli nell’immaginazione di chi sta leggendo. Inutile dire che è una scelta estetica che può incontrare o meno il favore del lettore.
20 settembre 2015 alle 08:43
D’altra parte, Rollo, al momento abbiamo a disposizione, del romanzo di Platania, una porzione di testo non sufficiente a decidere a quale “regime di finzione” il romanzo stesso appartenga. Più che scandalizzarsi per la citazione ingannevole, penso che un lettore potrebbe interpretare tale ingannevolità (oddio!) come un segnale o un’istruzione per la lettura del romanzo. Per quello che ne sappiamo al momento, il romanzo di Platania potrebbe essere parecchio borgesiano.
Faccio dell’autobiografia. Nel mio libro Fiction il racconto Del matrimonio porta questa citazione all’inizio: “Vero è che de tua morte non mi doglio, / perché ancora io più in vita star non voglio” (Boiardo, Innamorato, xii, xliv). Il racconto è costituito da una sorta di memoriale scritto da un marito che la moglie ha tentato di avvelenare con una sostanza ad azione lenta – dopo aver avvelenato sé stessa allo stesso modo. In un allegato al racconto (allegato che ha il tenore di una cronaca, o di un servizio giornalistico dettagliato) si spiega che fu invece il marito ad avvelenare la moglie, avvelenando poi sé stesso (ma poco, e recandosi per tempo al pronto soccorso). Un lettore potrebbe scandalizzarsi per la torsione di significato che do ai versi di Boiardo; un altro potrebbe cogliere l’ironia. Nel primo caso il lettore non ha capito il racconto (o io non sono riuscito a scrivere un racconto abbastanza buono da farsi capire), nel secondo avviene il contrario.
D’altra parte il tema del libro (vedi il titolo, direi piuttosto esplicito) è proprio questo: pressoché tutte le narrazioni che contiene risultano, alla fin fine, non credibili in quanto esplicitamente finzionali.
(E poi ho anche fatto un libro che nel titolo si dichiara pieno di “storie credibili”… Ciascuno ci ha le sue manie).
20 settembre 2015 alle 11:24
Credo che quello che voglio dire sia molto chiaro, infatti Rollo l’ha capito perfettamente. Lo ringrazio per l’espressione “l’articolazione di una finzione nella finzione” che trovo pregnate e corrisponde bene, mi pare, alla peculiarità della finzione narrativa in Borges.
Potrei aggiungere, riferendomi al nostro contesto, che un lettore di media cultura, avvicinandosi a un testo di Borges, magari dopo un’iniziale perplessità, si rende conto velocemente che ha di fronte delle citazioni fantastiche. Questo non è il caso di Platania. Lì la citazione viene presa per buona (e infatti in un senso letterale lo è), quindi, diciamo, “imbroglia” il lettore.
“Scandalizzarsi”. Sì, certi procedimenti mi scandalizzano un po’. Ciascuno ci ha le sue manie. D’altra parte mi pare che anche Rollo abbia espresso qualche perplessità nei confronti di questo genere di prassi.
In generale, per quello che riguarda Borges e la finzione e relative distinzioni: il cardinale di Bologna disse una volta (a sostegno di una tesi che io non condivido sic et simpliciter, ma la frase in sé mi è piaciuta molto) che ci sono delle cose che a doverle spiegare viene da piangere.
Apologo:
Un giorno Gesù disse: “Nella casa di mio padre ci sono molte stanze”.
Un discepolo che nessuno aveva mai visto alzò la mano: “Signore, ‘molte’ è vago. Precisa per favore, perché fin che non precisi come facciamo a parlarne?”
20 settembre 2015 alle 11:27
“Scandalizzarsi” nel contesto “Più che scandalizzarsi per la citazione ingannevole”. Nel contesto del racconto di Mozzi non si scandalizza nessuno.
20 settembre 2015 alle 14:31
Io non so più come fare a spiegare che un romanzo è un’opera di finzione.
Ma se “ciascuno ha le sue manie”, allora mi metto il cuore in pace.
24 settembre 2015 alle 12:14
Ho trovato splendide le parti del romanzo pubblicate fin qui, tra le cose più belle che mi sia capitato di leggere, non solo nei blog. Non mi sento di dire nulla sul resto non avendo competenze né in materia di critica letteraria né, tantomeno, di filosofia. Da lettrice ‘media’ e per quel che può valere, penso che il senso della letteratura sia nella sua bellezza e in quel patto di sospensione dell’incredulità per il quale ‘fingiamo’ in nome di qualcosa che colpisce profondamente delle parti di noi stessi che sono ‘vere’ in un altro senso. Da questo punto di vista, ho trovato lo scritto molto ‘vero’.
Un saluto
Alexandra