La formazione del fumettista, 3 / Paolo Martinello

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di Paolo Martinello

[Questa è la terza puntata della rubrica dedicata alla formazione di fumettiste e fumettisti, che esce in vibrisse il martedì. La rubrica è a cura di Matteo Bussola. Ringraziamo Paolo per la disponibilità].

paolo_martinelloLa bellezza. Ci sono alcuni che dicono si tratti di una questione matematica, di calcolo e pianificazione. Io stesso all’Accademia di Venezia ho citato Aristotele, Plotino, Dionigi l’Aeropagita con la sua Gerarchia Celeste per superare alcuni esami di Estetica. Il calcolo, la razionalità, la struttura degli angeli: siete cose estranee alla mia esistenza. E non lo dico per diffidenza o peggio per blasfemia. Non l’ho mai trovata là, dove i libri di filosofia mi dicevano che fosse.
Il lavoro del disegnatore di fumetti è difficile, chi non lo fa non riesce ad immaginare quanto. E’ un lavoro solitario e bisogna sempre essere sospesi in una sorta di annullamento autoindotto per riuscire a produrre la dose quotidiana di vignette e pagine. Gli altri non esistono, il tempo non esiste, quando si disegna. Si è li, in questa specie di luogo bizzarro, dove accade di tutto senza che nulla di ciò che succede, esista. Dietro un muro. Il privilegiato o i privilegiati che abitano questa città, hanno il dovere di descrivere ciò che vedono agli altri, a chi poi ne leggerà.
Lavorare, fare i muscoli, una vita per raggiungere l’obiettivo di sparire, perché questo è quello che succede, quando fai questo lavoro.
Penso che se questo è vero, oggi posso finalmente credere che fosse inevitabile per me fare il disegnatore di fumetti. Da piccoli si legge di nascosto, si disegna di nascosto a scuola e si cerca, lontani dagli occhi dei propri genitori, di rendere questo “nascondersi” così speciale, lo scopo della propria vita. In qualche modo, l’occultare me stesso agli occhi degli altri attraverso lo studio e la ricerca ossessivi del disegno e della narrazione attraverso immagini in sequenza, più che una “condizione attraverso la quale”, nel mio caso è in parte anche lo “scopo”, e solo pensando alla mia formazione riesco a capirlo.

Io i fumetti in casa mia non li potevo leggere, perché mio fratello, il mio superiore in grado, me lo impediva, temendo per l’incolumità degli stessi. Leggevo quelli che mio padre ammassava in garage, in una vecchia credenza ferita dalle infiltrazioni, temendo ogni volta che qualche topo mi salisse sul braccio: quelli più vecchi, che forse nemmeno papà si ricordava più di avere. Flash Gordon, Prince Valiant, Tarzan, L’uomo mascherato, tutte cose che il Signor Martinello leggeva prima di sposarsi. Ma la parte più voluminosa era occupata dai fumetti di guerra.
Mio padre, come molti dei Vicentini, aveva la fissazione dell’America e dei militari e gran parte della scorta di quella credenza, era occupata da fumetti di quel genere. Mio padre l’aveva vissuta la guerra, e per questo mi sono sempre chiesto di questa sua fissazione per i militari, gli aerei corazzati, le divise, senza mai capire perché un ragazzino che ha avuto la città bombardata dagli stessi aerei di cui leggeva in quei fumetti, che bene o male un paio di fucilazioni o impiccagioni di partigiani se l’era pure viste, che la paura della rovina umana e della sconfitta l’avrà pure notata sulla faccia dei suoi genitori, si appassionasse così tanto a quell’universo. A rigor di logica, avrebbe dovuto odiarli i militari.
A lui e ai Vicentini della sua generazione, probabilmente la guerra aveva fatto qualcosa di molto grave, profondo, che non capivo, e fu forse per questo che gli americani che la liberarono scelsero Vicenza, per costruire una delle basi Nato più grandi d’Europa.
Tutti i 4 luglio, da piccolo, si andava insieme nella caserma Ederle (così si chiamava la base) e grazie a dei pass che una parente che lavorava là dentro ci dava, riuscivamo ad accedere alle zone normalmente proibite ai civili. Questo mi permise di conoscere i “drugstore”,che erano a tutti gli effetti qualcosa di simile alle nostre edicole, ma con articoli di ogni genere. In quei luoghi, ho potuto esplorare “il giardino incantato” dei fumetti inediti in Italia e degli ArtBook dei film di fantascienza e fantasy che all’epoca popolavano i cinema (si parla degli anni 80). Cose che mi aprirono un mondo. Che mi fecero comprendere il “potere” del disegno e della creatività: scoprii che c’erano dei disegnatori di fumetti dietro la realizzazione dei film che avrebbero condizionato per sempre il mio “immaginario”. Forse per questo, dimenticai anch’io in modo colpevole che gli americani utilizzavano Vicenza come un immenso orinatoio dove fare i comodi loro, fuori dalla caserma, sapendo perfettamente che nessuno gliel’avrebbe mai impedito. Li perdonai, e li ringraziai come se in città, il giorno della liberazione dai nazi/fascisti, ci fossero entrati i disegnatori di fumetti americani invece dei soldati. Immaginare questo, è il massimo del contributo che posso offrire nei confronti dell’eredità che la guerra che colpì i miei, ha avuto su di me.
Questo anche perché dopo questa sommaria amnistia privata, i fogli cominciarono a volare sotto le mie dita. C’era qualcosa adesso: senza che ancora lo sapessi, avevo deciso.

Se è esistita una cosa nella mia vita che quasi è riuscita a farmi odiare il disegno e l’arte, quella è stata sempre la scuola.
Non fu raro incontrare professori che cercarono di dissuadermi dal fare il disegnatore. Almeno dalle mie parti, chi non intraprendeva un percorso di studi utile per ottenere un lavoro e (di conseguenza) una vita rispettabile (che significava fare i soldi), non valeva niente.
Il 95% degli amici che avevo ai tempi del liceo artistico, abbandonarono per rilevare l’attività di famiglia, relegando gli interessi artistici alla sfera degli hobby domenicali. Avere un artista in casa, all’inizio poteva anche essere divertente, ma col tempo diventava una cosa di cui sostanzialmente vergognarsi.
Per un senso di colpa nei confronti dei miei, accettai quello che in realtà era un madornale fraintendimento e mi obbligai a pensare che fosse vero, che la realtà andasse quantificata con dei lavori utili a sembrare una persona civile.
Dei vari lavori che decisi di svolgere dopo la scuola per mantenermi in vita (nell’ordine: pizzaiolo, distributore di volantini, magazziniere carico/scarico camion, falegname, impiegato in un lavasecco, facchino presso un fioraio, cameriere, amministrativo promosso poi a grafico in una ditta di pubblicità) non ce ne fu uno che ricordo con piacere. Questo perché tutti i miei colleghi o superiori, chi ammettendolo apertamente, chi facendo invece dei gran sorrisi a mo’ di deflettori contro chi potesse temerli infelici, lo odiavano il loro lavoro. Mi dissi che era questo ciò che mi aspettava: una sommessa, ma tutto sommato “bene accetta” rassegnazione ad abbandonare l’idea di uno scopo più alto, per quanto possa essere definita tale la normale pulsione verso ciò che ci è “davvero” più congeniale. A questo si aggiunse che, come per l’effetto malevolo di un’antenna cattiva che trasmetteva ovunque l’odio sotto forma di onde radio, questo riecheggiare di astio in qualche modo colpì la mia famiglia, distruggendola. Non fu tanto importante il modo in cui accadde, quanto il fatto che l’inevitabilità dell’evento, rese ancora più forte l’assunto che loro avevano sempre sostenuto nei miei confronti, per spronarmi a cercare la concretezza e la stabilità: “Non hai il potere di decidere tu, quello che ti deve accadere. Non puoi mai realmente scegliere, ma piuttosto imparare a saperti adeguare”.

Il rimanere da solo, in un certo senso rese ridicolo anche il senso stesso della parola “nascondersi”, visto che ormai non era più necessario.
Questo “sparire” mentre disegnavo, che mi rendeva così felice, assunse un significato completamente diverso, spingendomi altrove, fino al punto di mollare.
Lavoravo e studiavo Estetica, per capire quello che mi accadeva: in un impeto di coglionaggine post adolescenziale, pensai che la bellezza fosse qualcosa di assoluto. Capire la Bellezza forse mi avrebbe permesso di misurare adeguatamente la mia vita e la mia volontà e di dare forse un senso a quella crudele risacca.
Me lo dicevano tutti da sempre però, che la bellezza, quella vera, non ha nulla a che vedere con i fumetti. La bellezza ha un costo eccessivo, è un labirinto costruito da Dio, la trama inestricabile del rovescio degli arazzi.
I fumetti sono un gioco, non c’entrano nulla con l’assoluto. E i giochi più divertenti poi, costano poco.
Eppure l’unica cosa che ho sempre avuto, e che ancora rimaneva adesso che per davvero non avevo più niente, è stata questa.
Come un muro impossibile da superare.
Ma l’aver passato tanto tempo a rinnegare ed asciugare l’involto delle cose che mi erano necessarie per vivere, e riconoscermi, mi portò a non vederlo più come un muro, ma come una possibilità reale di scegliere. Al contrario di quello che ero sempre stato educato a pensare, la “scelta” ora mi si poneva davanti. Il muro che mi ero costruito, mi aveva sempre amorevolmente difeso da una realtà che ritenevo incomprensibile, permettendomi di correggerla e restituirla finalmente sopportabile, misurabile e accessibile, attraverso quello che facevo.
Nel momento in cui ottenni i primi lavori come disegnatore, mi resi conto che la ragione di tutto era lì, bastava aspettare, senza cercare il senso di tutta quell’attesa. Una delle prime cose che feci dopo aver ottenuto questo, fu andarmene dalla mia città.

Nonostante questo, non posso dire di non aver amato il luogo in cui sono nato. Parte di quello che sono è nella rappresentazione di tutto ciò che quella città mi ha sempre negato: ho amato quel posto soprattutto per avermi dato delle ottime ragioni per andarmene e in parte per avermi indotto a scoprire che senza l’ostinazione con cui il disegno, i fumetti le illustrazioni si sono imposte nella mia vita nonostante tutto, probabilmente non ce l’avrei fatta ad accettare tutto quello che mi è capitato.
Io ragiono sempre per contrari ed anche questo mi aiuta molto nel lavoro.
La “bellezza” che ho tanto cercato, che per tanto tempo ho pensato fosse estranea ai numeri e ai codici di una realtà non tanto ostile, ma quanto indifferente alla necessità di sottrarsi all’avvilente danza dell’apparire “rispettabile”, mi mostra sublimi anche quegli stessi codici, dopo averli per anni scrutati e con fare furtivo trascritti nella mia memoria. In qualche modo, li riporto ogni giorno, in ciascuno dei segni che metto sui fogli.
Fare fumetti ha rappresentato per me una silenziosa battaglia, portata avanti per anni, per riuscire a dimostrare di poter vivere rimanendo fedele a quello che sono. La parte più significativa del mio percorso dunque non a che fare con la raccolta delle informazioni “utili a”, col tragitto accademico, con l’addestramento quotidiano, ma sopratutto coll’arginare tutto ciò che questo comportava come reazione nel mondo esterno, attorno a questa silenzioso e ostinato accumulo privato.
Fortuna volle che aldilà dell’aspetto “compulsivo”, io fossi riuscito anche a lasciar trasparire nei miei disegni parte di quella bellezza che ho sempre cercato, che ancora non credo di aver trovato e che forse non troverò mai. L’unico percorso di formazione che riesco a vedere, non è che questo.

Paolo Martinello è nato a Vicenza nel 1975. Dopo essersi diplomato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, cominicia a lavorare per l’editoria per ragazzi, pubblicando come illustratore con Mondadori Ragazzi, Feltrinelli, Zanichelli, Lo scarabeo Editore e De Agostini. Contemporaneamente, comincia a realizzare fumetti per il mercato francese e italiano: pubblica Delethes, con Vittorio Pavesio , collabora con Dargaud per la serie La compagnie des Glaces, realizza per Glénat la serie in tre volumi 3 Souhaits, tradotta in olandese, e attualmente tradotta in italiano da Cosmo Editoriale con il titolo di 3 Leggende. Recentemente ha lavorato in qualità di copertinista, per le serie Valter Buio (Star Comics) e Mytico (Rcs). Da poco è entrato a far parte dello staff di disegnatori di Dylan Dog per Sergio Bonelli Editore, realizzando Addio Groucho (un episodio a colori, recentemente riproposto da Bao Publishing in un volume Speciale) e l’episodio Il calvario, uscito sulla serie regolare. È docente del corso di Colorazione digitale professionale presso l’associazione Giardini Margherita di Bologna e docente di un corso speciale di realizzazione “Cover”, presso la Scuola internazionale di Comics di Reggio Emilia. Vive a Bologna.

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4 Risposte to “La formazione del fumettista, 3 / Paolo Martinello”

  1. manu Says:

    “ho amato quel posto soprattutto per avermi dato delle ottime ragioni per andarmene” … wow che soddisfazione poterlo dire!

    considerazione personale a parte, visitato il tuo blog, paolo, voglio dirti che sei un disegnatore bravissimo, e in un certo senso ti auguro di non arrivare mai alla bellezza ‘definitiva’.

    questa rubrica mi piace assai.
    un saluto

  2. acabarra59 Says:

    “ 14 maggio 1995 – « Volpedo 23/2/1890 – ore 11 ½ pom – […] Ad ogni modo quantunque io mi esercito copiando figura conviene che non tralasci di far quegli studii di dettagli che mi sono imposto per venire più a conoscenza del disegno colore e rilievo. Un quadro anche grande si compone di tanti dettagli e se questi si sanno copiar bene riescirà poi anche più facile il coordinarli. » (Giuseppe Pellizza da Volpedo, Taccuino bergamasco) “. [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 85

  3. RobySan Says:

    “Il binomio di Newton è bello come la Venere di Milo. Il problema è che non tutti se ne accorgono.” [F. Pessoa]

  4. dm Says:

    (Visti i disegni. Che precisione. Che espressività. Questo viene da un altro pianeta, mi sono detto mentre li guardavo.)

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