TQ, qualche appunto sulla felicità

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di Demetrio Paolin

[Pubblico di seguito un breve intervento che riprende le cose che ho detto a Roma durante il seminario TQ, organizzato da Laterza. Al fondo ho preparato una breve “linkografia” così che tutti – anche chi non c’era – possano orientarsi. dp]

Aneddoti & citazioni. C’è una vignetta di Charlie Brown che io tengo sempre nel mio portafoglio, l’ho ritagliata parecchio tempo fa e ora è praticamente lisa e consunta, ma non ho bisogno di leggerla tanto l’ho imparata a memoria. Nella vignetta viene posta a Charlie Brown la seguente domanda: Cosa vuoi fare da grande?. E lui, senza neppure pensarci troppo, risponde: Essere vergognosamente felice.

Questa cosa mi è tornata in mente pochi giorni fa al lavoro. Io per lavoro mi occupo di immigrazione: lavoro in un ufficio che aiuta le persone straniere a compilare le domande di rinnovo dei permessi di soggiorno, li assiste nei passaggi complessi e astrusi delle leggi e dà consulenza per le vertenze del lavoro domestico.

Insomma, dicevo, un giorno nel mio lavoro sto finendo di compilare uno dei soliti permessi di soggiorno, quando alla ragazza che mi stava davanti dico: Ecco fatto, vedi? Non ci è voluto niente. Cosa vuoi di più?

Lei mi guarda. Forse è stufa o stanca, è pomeriggio tardi, certamente deve andare a fare la notte a qualche vecchietta e mi dice: Essere felice.

Sto pensando a questi due episodi mentre viaggio verso Roma per partecipare al seminario. Per passare le ore, ho deciso di portarmi nello zaino il Convivio di Dante (ogni tanto rileggo qualche classico). E succede che a un certo punto nel quarto capitolo del quarto trattato, Dante scrive una cosa del genere:

Lo fondamento radicale della imperiale maestà, secondo il vero, è la necessità della umana civiltà che è a uno fine ordinata, cioè la vita felice.

Il cortocircuito. Questi tre fatti nella mia testa si sono come condensati in una unica e lunga riflessione che non ha niente di logico nel modo di procedere, se non per sbalzi e salti. Parto da Dante. Nella sua frase sembra echeggiare una domanda, ovvero a cosa serve la politica, l’impegno nella vita politica? La risposta del Convivio è bellissima: la vita politica ha come suo fine ultimo quello di una vita felice.

La felicità è il risultato ultimo di una vita che si impegna nella politica. Già questa affermazione segna una discrasia con quello che quotidianamente ognuno di noi esperisce. Chi si preoccupa della felicità delle persone?

Andiamo avanti. C’è un’altra parola che a me colpisce nel giro di frase dantesco ovvero il lemma civiltà. Provate a mettere in fila queste parole per sentire l’effetto che fanno. Politica. Civiltà. Felicità. Le diciamo, le teniamo nella bocca, le ruminiamo. Non hanno un sapore stantio? Vecchio? Frusto?

Il problema non è tanto di trovare un nuovo vocabolario, quanto di ritrovare la carica originaria delle parole. La felicità deve perdere quel suo gusto “lialesco”, e tornare ad essere veramente il fine ultimo del nostro operare. Agire, impegnarsi perché a noi e agli altri sia garantito il diritto alla felicità.

(Certo c’è un problema di ri/definizione della felicità. Quando leggo le intercettazioni telefoniche, in cui le madri delle cosiddette olgettine chiedono alle figlie quanto hanno guadagnato dopo una serata, capisco che bisognerebbe intendersi sul significato di felicità. Mi chiedo, anche, quale felicità immaginasse la ragazza straniera. Se per caso lei, non sognasse qualcosa di più vicino alla consolazione plastificata desiderata dalle veline di turno).

Il diritto alla felicità si ottiene soltanto con un impegno, che diventi un fare, un agire specifico, culturale e, infine, politico. La politica non è qualcosa che riguarda altro da noi, o che è fuori, ma è – se premettete la forzatura – qualcosa di biologicamente connaturato in noi. Noi siamo animali politici, naturalmente politici. Il nostro stare nel mondo, le cose che scriviamo, le scelte che compiamo hanno una caduta di responsabilità. Non è possibile, credo, scindere la politica dalla parola responsabilità, ma prima di arrivare a trattare questo punto vorrei provare a fare un esempio di questa “cosa” che io chiamo felicità.

Cittadinanza/corpo. Mettiamo che il bisogno di felicità che la ragazza mi ha confidato fosse qualcosa di più profondo, come posso io avvicinarmi a quel suo bisogno? Io devo dare a quel bisogno cittadinanza, altra parola abusata e labile. Io tengo per buona la definizione che sociologi e giuslavoristi come Manghi e Giugni hanno elaborato negli anni ’70 ovvero che la cittadinanza è la somma di alcuni diritti inalienabili, ma nello stesso tempo compio una forzatura dicendo – una cosa che pare ovvia, ma forse non lo è – ovvero che il mio primo diritto è quello di avere un corpo e di poterne fare quello che voglio.

Io provo una profonda vergogna, uno sconsolante malessere nel vivere in uno stato, dove un Governo legifera decidendo sui confini della vita e della morte, dove la mia personale libertà viene asservita a logiche di potere. Il diritto alla felicità passa dal diritto ad avere un corpo e che questo sia rispettato. Io vivo in uno stato in cui vieni arrestato per droga, finisci in carcere e ne esci ammazzato di botte (Cucchi) o in cui vieni sottoposto a fermo di polizia e finisci pestato a morte (Aldrovandi). Senza contare i continui suicidi delle persone in carcere, chiuse nascoste, senza diritto di parola, senza la certezza di nulla.

Io penso che il nostro essere intellettuali, la responsabilità che ognuno di noi ha nel momento in cui scrive libri (o gira film o insegna a scuola/università) e diventa pubblico, debba muoversi anche in questo ambito di impegno civile. Io sono convinto che noi dobbiamo creare – per usare i termini di Giorgio Vasta – delle membrane che ci permettano di incontrare gli altri, che ci sono e che sono numerosi, e che spesso sono diversi da noi per idee, costumi, cultura e pensieri. Ci sono anche altri che sono da noi separati in maniera costretta e che credo dovremmo in qualche modo cercare di incontrare.

Materiale/immateriale. Come diamo sostanza a questo incontrarci? Sono d’accordo con molte delle proposte lanciate da Nicola Lagioia e anche con quella di una possibile rivista on line che tratteggiava Antonio Scurati nel suo intervento. Ma questo rimane, per me, una modalità sempre immateriale (liquida?) di andare incontro all’altro, ovvero è necessario che ci sia ma non basta. Credo che ci sia bisogno di qualcosa di concreto e materiale. Provare a pensare qualcosa che sia simile a un doposcuola, dove invece di aiutare i ragazzi a fare i compiti si possa provare a allestire gruppi di lettura, per provare insieme a creare un approccio diverso ai testi, ai film alle opere pittoriche. Io sono convinto che la felicità – la vita felice di cui parla Dante – sia un qualcosa che abbia a che fare con il vero e con il bello, proprio come la scrittura, l’arte, la cultura. Dare degli strumenti ai ragazzi per capire, creare e fare cultura credo che possa essere il nostro impegno pubblico e politico. Così come andare nelle carceri o in altri luoghi di costrizione per dire semplicemente che noi non li consideriamo separati e persi, ma che ciò che scriviamo e facciamo è anche per loro.

Ora lo so che le cose proposte finali sono poca cosa, piccole e pure modeste nella loro elaborazione, ma io personalmente non ho mai creduto nella possibilità di sovvertire un sistema, quanto di modificarlo a pezzi, a mozzichi, strappando una miglioria minima piuttosto che redigendo una palingenesi che non potrà essere attuata. Mi viene in mente una citazione da un libro di Federico Caffè, La solitudine del riformista, che lascio come chiusa:

Il riformista […]è tuttavia convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un «sistema», di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del «sistema».

***

Breve linkografia “per chi l’ha visto e per chi non c’era”

L’appello de Il sole 24ore

Corriere della sera

Intervento di Giorgio Vasta

Intervista a Nicola Lagioia

Una cronaca dell’incontro

Un intervento di Federica Sgaggio

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14 Risposte to “TQ, qualche appunto sulla felicità”

  1. Mario Bianco Says:

    Caro Demetrio questo mi va molto a genio:
    “Credo che ci sia bisogno di qualcosa di concreto e materiale. Provare a pensare qualcosa che sia simile a un doposcuola, dove invece di aiutare i ragazzi a fare i compiti si possa provare a allestire gruppi di lettura, per provare insieme a creare un approccio diverso ai testi, ai film alle opere pittoriche.”
    E’ la cosa migliore per me, è più realista e tangibile.
    Se uno vuole fare ricerca estetica, di stile, fa benissimo a farla, tuttavia se crede ancora di operare rivoluzioni morali, dicostume o politiche o di comportamento facendo narrativa, per me, è meglio che si tolga ogni illusione.
    Non credo a coloro, a quelle voci che dicono: quel romanzo, quel poema mi ha cambiato la vita.
    Vorrei sapere come era prima quella vita.
    Vorrei sapere se non c’era già un cambiamento in atto,
    o se è tutta una finzione.
    Tra l’altro c’è gente, qui vicino, tu sai, che fa proprio doposcuola, che insegna a leggere ai figli degli stranieri, che gli fa gustare magari un pezzo di poema, che gli spiega una fiaba italiana, che li aiuta a scrivere.
    Poi, magari, va a casa, e scrive, chesoio, un romanzo, un racconto, ma non pretende che…

  2. vbinaghi Says:

    Sono basito.
    Per passare da una postura spettatoriale ad unghiare la realtà (espressioni di Scurati) serve un nuovo giornale on line di scrittori trenta quarantenni?

    Vi lascio un commento a scelta:

    a. la montagna ha partorito il topolino
    b. andate a lavorare
    c. in un oceano di chiacchiere e simulacri che ha fatto abortire il significato e il senso del reale, l’unica forma di redenzione sarebbe il silenzio

  3. Giulio Mozzi Says:

    Ho aggiunta la striscia di Schultz al discorso di Demetrio. La differenza tra la vignetta quale è e il ricordo di Demetrio è, ovviamente, irrilevante ai fini del discorso.

  4. paolab Says:

    in effetti nemmeno io capisco tanto… forse colgo un’idea di “intellettuale” sconcertante, un po’ come quando si diceva dei preti che sono “meno e più d’un uomo” contemporaneamente. ecco a volte leggo cose che mi fanno pensare: “ma come, questa cosa la fa abitualmente qualsiasi persona che tenti di essere tale”. e per altre cose mi sembra che nell’immaginario di queste persone l’intellettuale diventi un po’ un guru dalla domanda/risposta pronta (e allora penso all’immenso montale che protestava di non chiedergli la parola). credo che il difetto stia nel pensare che qualcuno debba dare una patente (i lettori? la tv? i giornali? la politica?), che ci sia qualcosa (uno spazio, una tribuna) di dovuto. purtroppo l’autorevolezza del pensiero e dell’arte non è un diploma. e non bisogna confondere il diritto a uno stipendio con l’aspirazione a essere riconosciuti. ma capisco che banalizzare nel giudizio è facile. (certo su scurati ormai tendo a sospendere il beneficio del dubbio… sento irrefrenabile salire alle labbra l’opzione b di suggerita da valter: vada a lavorare, questo bel tenebroso…)

  5. federica sgaggio Says:

    Il Convivio in treno.
    Che bella immagine.

  6. megs Says:

    uno dei pochi interventi di quella sera che proponeva davvero qualcosa.

  7. dm Says:

    (provocazione)

    Secondo me in questo pezzo ci sono delle cose molto vere e dette anche nel modo giusto. Quello che un po’ mi stride nelle orecchie, sarà la distanza generazionale non so, è l’esibizione di questo carico di responsabilità dell’intellettuale moderno. E’ una mia valutazione, e al netto di tutto quel che ignoro e non capisco. Ma mi suona francamente un po’ grottesca. Se l’intellettuale avesse un ruolo e un’identità chiari e definiti in questa società, sarebbe sensato dire che l’intellettuale deve o può fare questo e quest’altro. La dichiarazione sarebbe a tutti gli effetti un’azione politica. Tipo la dichiarazione di un sindacalista. Ma se il sindacato non esiste e gli intellettuali non si capisce bene chi siano, dire che gli intellettuali dovrebbero (o potrebbero) far questo e quest’altro, personalmente, mi suona un po’ così, grottesco… Vasta è un intellettuale? Saviano è un intellettuale? Scurati è un intellettuale? Travaglio è un intellettuale? E Ammaniti? E Moresco, Mozzi, Veneziani e Sallusti sono intellettuali? Non è che qualcuno di questi si offende, se gli danno dell’intellettuale? Oppure si offende se si vede inserito nella stessa categoria di Veneziani, o di Travaglio? Poi: le persone che Demetrio Paolin considera intellettuali condividono la sua definizione di “intellettuale”? Oppure pensano di essere qualche cosa d’altro? E soprattutto: tutti quelli che ritengono di essere intellettuali sanno che, tra la gente, la parola intellettuale è spesso sinonimo di incomunicabile, di inintelligibile? Cioè: non ho dubbi che Vasta, per farsi comprendere, abbia bisogno di “membrane”. Nell’unica occasione in cui l’ho sentito dal vero non ho saputo cogliere penso almeno la metà dei riferimenti culturali, filosofici e sociologici, che ha sfornato. Ma per esempio non credo di aver avuto mai difficoltà a capire quel che scrive Mozzi qui dentro. E’ una questione di membrane? Oppure c’entrano il ruolo, la lingua e le modalità (cioè il contenuto della definizione di intellettuale) che uno si sceglie? Io non rimpiango i tempi in cui l’intellettuale era un attore dal ruolo troppo definito (anche perché non ero nato ancora). Quando sul terzo canale della radio nazionale passano le interviste agli intellettuali del secolo scorso, il sabato di solito, e io sto lì, ad ascoltare, mi sembra di assistere a una sorta di psicodramma. L’affettazione, il tono, gli schemi… fa tutto parte di una specie di codice dell’intellettuale. Mi sembra che, nonostante tutto, e questo a qualcuno potrebbe sembrar paradossale, “l’intellettuale” oggi sia più libero soprattutto per questo vuoto di definizione di spazio e di riconoscibilità sociale che si è venuto a creare nostro malgrado.

  8. vbinaghi Says:

    Se qualcuno avesse veramente voglia di mettersi in discussione anzichè campare su stereotipi da guerra fredda (intellettuale = politicamente engagé, necessariamente a sinistra) potrebbe leggersi questo e meditare.
    Ma dubito che gente che spadroneggia nell’editoria e sulla Rete e chiede per giunta altro spazio sia in grado di arrivare in fondo.

  9. demetrio Says:

    ciao.

    valter la proposta di scurati è stata una. E a me interessava farla vedere perché toccava il discorso dell’immateriale. In altre sede si stanno pronendo nuove cose e interessanti.
    Detto altrimenti la proposta di scurati è “una” delle proposte e non “la” proposta.

    dm, io credo che tu tocchi un punto fondamentale ovvero quello della lingua. Il discorso che faccio io sulle parole è proprio legato a questo.

  10. marialaura Says:

    Non credo di essere una riformista perchè non mi piace il ‘sistema’. Però mi è piaciuto il resto che hai scritto!

  11. demetrio Says:

    marialaura neppure al riformista piace il sistema, ecco perché lo cambia.

    d.

    ps. piccola riflessione linguistica. Caffè usa la parola “sistema” come termine neutro, mi immagino che dopo Gomorra la parola “sistema” abbia ormai un significato negativo.

  12. Antonio l'Eresiarca Says:

    Il mio obiettivo NON è assolutamente quello di essere felice.
    Così scrivo sulla mia pagina FB.

  13. Piero Pieri Says:

    Ho letto quanto ha scritto Demetrio e quel che è seguito al suo intervento. Poi sono andato ad aprire i link suggeriti da Demetrio per farmi una opinione non superficiale sui problemi posti dal gruppo di scrittori trenta-quarantenni che si sono riuniti nella sede di Laterza. Io credo che la loro iniziativa sia già in procinto di esaurirsi. E non sono affatto felice di dire questo. Come storico della letteratura contemporanea non ho motivo di credere che i problemi che hanno posto siano, appunto, un problema. Esistono da sempre, e li ha teorizzati per la prima volta Hegel guardando al rapporto vecchi-giovani. Poi sono continuati per tutto l”800 attraverso varie correnti antagoniste, nello spirito darwiniano dell’evoluzione o della struggle of life. E dopo Nietzsche è ripresa la querelle giovani di talento contro la gerontocrazia (Papini, Prezzolini, Slataper etc). Potrei andare avanti, ma il ‘900 è un secolo che dovremmo conoscere tutti abbastanza bene. Per lo meno a partire dalla categoria di intellettuale secondo Gramsci. Ora, purtroppo, e lo dico senza gioia, quando leggo un discorso teorico da parte di alcuni esponenti di TQ non vedo mai una formulazione nuova, un’idea rovesciante, una contrapposizione piena di futuro. E non per colpa loro. Mancano i maestri. I “grandi racconti”. E questo per me è un bene. Così ogni testa pensante è costretta a trovare da solo il suo sentiero. E poiché la testa pensante è soprattutto una testa scrivente, consiglio al gruppo di TQ di guardare alla propria rispettiva narrativa, perché solo quella è significativa per precisare la propria visione nel mondo attuale. Semplificando: “I demoni” e altre romanzi di Dostoeveskij per me sono l’opera filosofica più importante dell”800 (non mi sto dimenticando di Nietzsche, ovvio… ho aperto una finestra riflessiva). Ecco: partano gli scrittori di TQ dal riconoscere nelle loro stesse opere narrative le attuali forme di conoscenza. Si annullino come autori storici e facciano parlare il linguaggio dell’autore implicito che pulsa e vibra nella loro scrittura. Se lamentano di avere pochi lettori non pretendano l’assoluto. A Londra, la prima metropoli, nel ‘700 si vendeva l’80% della narrativa pubblicata in Inghilterra. E ieri come oggi l’80% dei lettori sono donne e l’80% dei romanzi si rivolgono alla sensibilità del pubblico femminile. Non sto facendo una distinzione sessista: è sociologia della letteratura. Per quel che mi riguarda vorrei tanto scrivere un romanzo che piaccia alle donne. Vorrebbe dire che la mia ruvida e nervosa scrittura s’è pacificata, rilassata, commossa, addolcita, che ora può toccare i cuori come fanno i film di Sofia Coppola, che scrive e dirige come io vorrei scrivere i romanzi. Perché ogni tanto, nei momenti di solitudine, mi vengono in mente scene di film di Sofia? Ecco perché alla fine il dibattito aperto dal gruppo TQ non mi appassiona: parla alla testa e non al cuore. Si rivolge ad un pubblico di studiosi, di critici, di colti, ad una repubblica delle lettere di arcadica memoria. E se anche alcuni di loro dicono cose intelligenti, non per questo dicono cose interessanti. Fra Diderot e Rousseau continuo a preferire Rousseau.

  14. enrico Says:

    ho spulciato interventi e commenti su questa nuova realtà tq, condividendo l’impulso che l’ha generata. Leggittima ogni considerazione o divagazione, letteraria, filosofica, sociale ecc.. Timore a parte per il rischio di una imprevedibile speculazione, resto dell’idea che oltre le parole, che provocano un certo incantamento sono necessari fatti concreti per dare corpo alle cose.
    enrico

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