Giorgio Falco, L’ubicazione del bene

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di Demetrio Paolin

Il libro di racconti di Giorgio Falco, L’ubicazione del bene, il suo secondo dopo l’esordio con Sironi (Pausa caffè), è certamente una delle uscite più interessanti del panorama letterario italiano. Mi piacerebbe quindi ragionarci, cercando di evidenziare quelli che a me sembrano i temi attuali e più stringenti.

Il titolo. Mi pare che il titolo possegga in sé una serie di notizie attorno ai temi del libro. L’ubicazione del bene è infatti un titolo polisemico, che si presta a diverse letture. In primo luogo rimanda ad un linguaggio notarile, soprattutto nell’ambito della compra-vendita di immobili. Il titolo quindi indicherebbe le coordinate catastali di un edificio che viene messo in vendita. In particolare nel libro di Falco si parla di una villetta messa all’asta (p. 17).
Il titolo, però, possiede altre suggestioni: ubicare il bene, situare il bene, Ovvero se il bene esiste dove lo trovo, come lo localizzo?

La narrativa, penso in particolare alla nostra tradizione, ha sempre cercato di localizzare il male. Così ha fatto Dante nella Commedia, quando ha fornito al lettore le coordinate dell’inferno e del sommo male. Petrarca invece ha descritto l’inferno dell’anima nel suo canzoniere e nel Secretum (ovvio che io non invento niente queste riflessioni si trovano nel libro di saggi La naturalezza del poeta, Garzanti, di Mario Luzi). Infine ai giorni nostri l’inferno non ha più una sede e diventa una sorta di gioco di specchi, che Manganelli descrive nel suo Inferno.

Falco segue un’altra strada: vuole cercare il bene, vuole ubicarlo, situarlo in un luogo preciso. La sua indagine si sofferma su una porzione di mondo, spersa tra Milano e la sua tangenziale. Un posto immaginario eppure reale:Cortesforza. Qui l’autore si sofferma per la sua inchiesta, ma Cortesforza è sorto come fungo malefico tra la città e la campagna e non vive di relazioni sociali, ma di impianti semaforici, non ha luoghi di aggregazione ma negozi, centri commerciali e capannoni. Qui il bene non c’è, letteralmente. Non c’è, non ci sta, non può essere situato perché Cortesforza è un non-luogo.

Viene in mente una parabola, il mercante trova un tesoro in un campo e per avere quel tesoro vende tutto e acquista il campo, dove stava il suo bene. Il mercante sapeva dove era ubicato e ha fatto di tutto per averlo. Nel racconto che apre il libro, Onde a bassa frequenza, abbiamo una situazione simile. Pietro ha capito quale è il suo bene: lasciare la multinazionale per la quale lavora e mettersi in proprio. Questo è il suo tesoro, lui individua anche un luogo, il capannone, dove la Top Service (è il nome dell’azienda) avrà sede. Siamo nel pieno della parabola, ma il fallimento è dietro l’angolo. Mentre il mercante ha venduto tutto e ha guadagnato il suo tesoro, Pietro vende tutto e fallisce miseramente, ma è una sconfitta che avviene senza rumori e sfracelli. Non c’è né uno schianto né un fracasso, perché il mondo a Cortesforza finisce in sordina.

Apocalisse minima. L’ubicazione del bene stando alla quarta di copertina non è un libro apocalittico, ma è il resoconto di “un’inevitabile, comune disfatta”. Credo, però, che ci si debba intendere meglio sul termine apocalisse, spogliandolo del suo retrogusto religioso. In particolare, nella mia avventura di lettore, ho incontrato in questi anni alcuni libri che hanno provato a dare al termine una diversa lettura. Oltre al libro di Falco mi riferisco a Sirene (Einaudi) di Laura Pugno e La ragazza di Vajont (Einaudi) di Tullio Avoledo, che hanno alcuni punti in comune in particolare la genitorialità (il rapporto genitori/figli) e il fatto di rappresentare un mondo alla fine.

L’apocalisse, senza scomodare la religione, potrebbe quindi essere una rappresentazione della fine, attraverso la quale Falco Avoledo e Pugno vogliono rispondere alla domanda: “Cosa rimane di questa vita?”. La risposta, che danno Avoledo e Pugno, è contenuta nel finale dei loro romanzi ed è rappresentata dalla possibilità di un’altra vita, simboleggiata dalla fuga dei “figli” dal mondo in sfacelo.

Proprio dove questi due romanzi finiscono, inizia il racconto di Falco, che se vogliamo è il resoconto di quella possibilità. Ed è la registrazione di un fallimento. Nei racconti de L’ubicazione del bene la possibilità di un’altra vita è minima, i personaggi di Falco si accontentano, hanno desideri meschini e misurati. In Essere sul punto la scelta di avere un bambino si trasforma nel giro di poche righe nel prendere un cane: “Un cane? Io voglio un figlio, non un cane, vorrebbe dire. Ma tace, sorpresa” (p. 65). Anche questa smilza pretesa è destinata al fallimento, il cane che verrà preso è malato e pieno di pulci e alla fine il protagonista è ipnotizzato da quegli insetti che sembrano “parti ormai invisibili del muro, che saltano” (p. 73). Questo è il massimo della disperazione consentita a Cortesforza. La disperazione come la speranza non sono ammesse, perché la loro presenza sarebbe in contrasto con le vite minimali a cui sono condannati i personaggi che vivono in questo borgo.

Quindi se in Avoledo e Pugno il disfacimento, la malattia del mondo, s’apre ad una speranza, in Falco si denuncia l’inanità di questa speranza, il non senso di questa scelta, perché ogni scelta è destinata a fallire.

Gli animali e il dolore. Una delle caratteristiche peculiari del testo di Falco è la lingua. E’ una lingua fredda, nitida, precisa, che non concede niente ai personaggi. Mentre leggiamo i racconti lo sguardo del narratore è impietoso, non indugia mai con sguardo benevolo sui protagonisti delle vicende che avvengono a Cortesforza. Diverso quando nei racconti compiano gli animali. In questi casi il tono del libro cambia: lo sguardo si fa pietoso, ma non compassionevole o caritatevole, quasi l’autore riconoscesse negli animali e nella loro sofferenza qualcosa di profondo e segreto. Gli unici essere viventi che soffrono dolori reali e concreti sono, ne L’ubicazione del bene, gli animali, gli uomini invece non soffrono che di dolori posticci, finti e autoindotti dalla pubblicità e dalle logiche del consumo.

Come nei bestiari medioevali, gli animali additano un oltre, un sovrasenso: sono questi ultimi i depositari dell’unica nota autentica del libro. In un luogo dove ogni cosa è regolata dai flussi di merci e di compravendite, la realtà è la sofferenza degli animali. Essa rimarrà.

Se dovessimo immaginare Cortesforza tra centinaia d’anni ecco quello che potremmo vedere: ruderi di villette a schiera ormai consumate dagli eventi atmosferici e grandi capannoni inghiottiti dalla foresta. L’occhio s’abituerebbe all’assenza di ogni traccia d’uomo, ormai estinto, e si soffermerebbe sulla vita ostinata continua e sorda degli animali, unici superstiti (e quindi testimoni) di questo mondo alla fine del mondo.

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3 Risposte to “Giorgio Falco, L’ubicazione del bene”

  1. patrizia patelli Says:

    Grazie, Demetrio. Di fronte a una lettura lucida e luminosa come questa io mi sento dal cuore di dirti “grazie”.

  2. cristiana alicata Says:

    L’ho detestato.

    L’ubicazione del Bene (come l’Eleganza del riccio)

  3. low Says:

    bellissimo pezzo!, grazie

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