Okay.
Il libro di Patrizia Patelli l’ho finito in meno di tre ore anche se dentro c’è un sacco di roba.
Niente che, a guardar bene, non si possa intravvedere – anche se confusamente, e senza la chiarezza di Gli ultimi occhi di mia madre – nello sguardo della sua autrice; nel modo dritto, selvatico e luminoso con cui, più che guardarti in faccia, ti scruta per capire chi sei.
La storia racconta di una madre condannata a muoversi in un’incessante sarabanda del tutto priva – sembrerebbe dire Patrizia, ma temo che sappia benissimo che non è così – di incidenza sentimentale, ma assolutamente decisiva sul piano della concreta conduzione di una famiglia che senza di lei parrebbe destinata a scivolare sul piano inclinato del niente.
La madre è malata, e questa malattia diventa l’unica cosa per la quale la sua identità sopravvive nel mosaico esistenziale di chi l’ama, mentre ogni cosa intorno si decompone nella generale perdita di senso di una vita domestica che ha smesso di domandarsi se e a cosa possa mai servire il calore di una pelle amorevole e vicina.
Ma il diavolo fa solo le pentole.
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