di Demetrio Paolin
Una volta, mi pare qualche anno fa, camminando per il paese che mi aveva visto bambino, ho incontrato la mia maestra delle elementari. Avevo pubblicato da poco Il mio nome è Legione e la donna, ormai anziana, si avvicinò e mi disse parole che suonavano più o meno così: “Io l’avevo sempre detto che tu avresti scritto dei libri”. Io in quel momento non dissi nulla, ma io avevo chiaro nella mia mente un altro ricordo. Una donna, simile a quella stava di fronte ma più giovane, diceva a mia madre che io non riuscivo a scrivere correttamente parole come “terra” e “rabbia”, che scrivevo le doppie scempie e viceversa; che tutte le “effe” diventavano “vu” e tutte le “vu” diventavano “effe”, che spesso mi distraevo e sembrava mi assentassi da quello che dicevano; senza contare una leggera balbuzie sulla “bi” e la “esse” che sibilava. Mi ricordo anche uno studio con una dottoressa che mi spiegava come non c’era niente di male in me, niente di sbagliato, solo che “avevo un cervello più veloce della mano”.
Ora questo episodio mi è tornato in mente leggendo La mia dislessia di Philip Schultz (Donzelli Editore, traduzione Paola Splendore), che non è il solito memoir in cui il malato parla della sua patologia, ma è la testimonianza di uno dei più importanti poeti americani (vincitore nel 2008 del premio Pulitzer per la poesia), che all’età di otto anni non era ancora in grado di leggere e di scrivere.
Nella pagine del testo, però, la dislessia non viene vista come una malattia, essa è in realtà una forza, a tratti feroce e bruta, che ha modellato l’uomo Schultz e il poeta. Più volte nelle pagine del libro l’autore torna sull’esperienza della scrittura e della lettura come fatica, come atto per nulla naturale e scontato. La letteratura, quindi, non è tanto legata alla bellezza, ma alla semplicità e chiarezza. La dislessia ha costretto Schultz a fare i conti con qualcosa di oscuro e ostico nella lingua, mettendolo in guardia da una possibile estetizzazione dell’atto della scrittura e della lettura. Le cose che vengono scritte e lette sono in primo luogo faticose, perché provengono da qualche luogo remoto della mente. Leggere e scrivere non sono attività gioiose, ma anzi sono una “sofferenza” (una parola che nel memoir di Schultz torna spesso).
Per imparare a leggere è necessario un lungo e complesso sforzo di estraniazione da sé. Per il dislessico è come se le singole lettere e le parole svanissero e venissero distorte da uno specchio deformante. I sentimenti più normali per un dislessico sono il panico che ti prende nel momento in cui vedi una parola, ma non la percepisci come tale, e l’angoscia, una sofferenza pungente e continua, che non ti abbandona mai. Ciò porta chi ne soffre a isolarsi e a vivere una vita di silenzio, perché ogni occasione può essere occasione di ansia e panico. Eppure questa capacità di razionalizzare la propria sofferenza è anche la capacità di creare un “altro da sé”. Non è un caso, dice Schultz, che molte delle sue poesie abbiano come protagonista un io lirico che non ha nulla a che vedere con l’autore stesso. Non c’è nulla di irrazionale nell’immaginazione, anzi l’immaginazione è ciò di più razionale il nostro cervello possa concepire.
Per un dislessico non esiste nulla di “indicibile”: egli vede con sospetto la mistica del non detto, dell’impossibile e della dismisura; perché ha una esperienza concreta di come ogni parola letta e scritta sia una conquista. Lo sforzo del dislessico è di dire chiaramente la parola, il dislessico pensa che l’oscurità di cui alcuni si ammantano sia solo una semplice posa, tipica di chi non ha mai visto realmente le lettere sparire da davanti agli propri occhi come un albero durante una tempesta di neve.
Mi rendo conto, mentre la scrivo, che questa non è una recensione canonica; alcuni potrebbero dire che in queste righe si registra più una sorta di autoanalisi personale che non una disamina critica puntuale. Inutile negare l’evidenza, è così: l’esperienza della scrittura e della lettura sono per me quotidiane, perché scrivere e leggere definiscono il mio luogo di esistenza e il mio ruolo nella società. Non posso, però, negare che l’origine di questa mia lunga militanza nasca da una situazione problematica, che molto ha influito sul mio atteggiamento di fronte ai testi miei e altrui.
Nel libro di Schultz ho sentito qualcosa di affine, uno stile e un modo di esprimersi che mi è consono. La scrittura del memoir è semplice, netta, non è ironica o sorniona, non indulge verso di sé o verso il lettore. Non è una scrittura furba, perché appunto l’autore prova fatica ogni volta che si mette davanti alla pagina. La mia dislessia è, però, un libro che ti permette di guardare alle tue paure, e di fare pace con quel ragazzo di otto anni ignaro di cosa gli capitasse, che sentiva le parole come un nemico e che ora prova a tenerle a bada come i demoni nella porcilaia.
Tag: Donzelli Editore, Il mio nome è legione, Leggere, Philip Schultz, Scrivere
21 settembre 2016 alle 09:40
Bellissimo viatico alla lettura del libro di Schultz, altro che “recensione canonica” . Bellissime le osservazioni sulla furbizia letteraria, cui molti indulgono. Ho pensato a me – le “recensioni dovrebbero servire anche a questo- e trovo che il pericolo di cadere nell’estetismo sia un avversario difficile da contrastare. Grazie per gli spunti forniti
21 settembre 2016 alle 10:09
…eppure continuo a temere che chi non “conosce” per esperienza diretta questa fatica non riesca a capire quanta sia, questa fatica. E la generalizzazione è spesso sintomo di questa mia affermazione. La dislessia (difficoltà di leggere, e so solo io quanta fatica mi è costata a iniziare e portare a termine la lettura del primo romanzo; avevo già 28 anni) è solo una dei quattro grandi disturbi di apprendimento (Dsa). Quella descritta da te, Demetrio, ad esempio è la disgrafia (pure io continuo ancora oggi a confondere le effe e le vu, cavoli); poi c’è la disortografia, che è un vero casino perché impedisce di tradurre per iscritto (ma pure oralmente) un pensiero, una risposta in modo chiaro (è la variante ereditata da mia nipote); e infine c’è la discalculia, che crea problemi con i numeri, e con il valore che essi hanno, ad esempio a livello monetario. E non raramente uno o più di questi disturbi si associano ad altri disturbi del linguaggio (Dsl). Questo per dire che, sì, qualcuno ce la fa poi a tirarsene fuori, ma più spesso succede che il setaccio della scuola li penalizzi a tal punto da non lasciar loro molte carte da giocare. E qui mi riallaccio al mio primo commento: nonostante le esperienze descritte dai più che ci sono riusciti, sono pochi i lettori che riescono a immedesimarsi con questo tipo di cervello, a capire come ragioniamo, come funzioniamo… al massimo serve per dare un po’ di speranza a chi ci si riconosce. Per cui ti ringrazio comunque per questa tua impressione se non vuoi chiamarla recensione.
21 settembre 2016 alle 10:29
è il problema che ho avuto io nel tentativo di raccontare questo libro; mi sono reso conto che non potevo prescindere dalla mia esperienza personale, per quanto minima, perché in me il libro echeggiava in un certo modo. Ecco perché la recensione scritta in questo modo.E grazie a tutti per la lettura.
21 settembre 2016 alle 10:34
“ Sabato 23 marzo 1996 – Anche se, come tutti i giornali, è scritto al presente, questo diario spesso preferisce parlare del passato. Che il passato esista è tutto da dimostrare, e dimostrarlo è piuttosto impossibile. Quello che esiste è, in certi individui, un disturbo della vista, per cui vedono le cose, le persone, i paesaggi, gli eventi come in sovraimpressione. Come un film già visto, e che si torna a vedere. Ma tutti i sensi soffrono un malessere analogo. Si vive nel già sentito, già annusato, già gustato, già toccato. Si vive nel già letto. Però, mentre la prima volta fu bello – anche se era doloroso, sgradevole, ripugnante, pauroso – questa seconda è penoso. Insipido – perché i sensi non funzionano veramente, ossia funzionano in astratto, come se non fossero più i tuoi, non fossero più te – e dunque penoso. (Per esempio, ieri sera non ho visto più di cinque minuti del Don Giovanni allestito al Palafenice, anche se mi sembrava, almeno per quanto riguarda l’allestimento, piuttosto bello. Però ho ripensato al Don Giovanni che vidi all’inizio degli anni Ottanta a Montepulciano, e ci feci anche una specie di poesia di cui non ricordo altro che un paio di versi che dicevano: « Donna Elvira gliene cantava quattro / a quello sciagurato di Don Giovanni ». Ieri sera Donna Elvira era vestita di rosso) “ [*]
[*] Lsds / 73…
21 settembre 2016 alle 11:41
Mi sento colmata dal tuo scritto, fa salire a galla le mie paure, tutto quello che scrivo mi sembra difficilmente accettabile dal lettore, incomprensibile e limitativo. Vorrei nascondermi e non far capire le lacune dei miei pochi studi. Eppure qualcosa mi spinge a continuare, a scrivere, anche se le righe si confondono e spariscono le parole.
21 settembre 2016 alle 23:04
(Da sempre mi affascina il legame tra una certa vocazione per la scrittura (propria degli scrittori coll’ossessione della forma) e gli impicci con il linguaggio (la balbuzie, la dislessia, la disgrafia eccetera). Sono intuitivamente convinto che dietro ogni arsenale linguistico da letteratura si nasconda una forte debolezza: che insomma questo scrittore tipo si sia buscato l’ossessione della forma per via d’una lacerazione della forma stessa: che il linguaggio tenda all’automedicamento… – È così chiaro il concetto se si ascolta la voce di Calvino registrata, avendo prima letto uno qualsiasi dei suoi testi… Per esempio).
22 settembre 2016 alle 09:08
Vera e precisa come una freccia scoccata da un maestro zen l’osservazione di dm.La forma assume il ruolo di quelle cellule che intervengono a suturare le lacerazioni e gli strappi prodottisi nel tessuto circostante.
22 settembre 2016 alle 09:21
Non sono dislessica ne gli altri dis…ho imparato a leggere a cinque anni e per me è sempre stato molto facile. Ora che sono adulta, anzi matura, e provo a scrivere e quindi provo a leggere “in un altro modo”, mi rendo conto che questa mia facilità e velocità non aiuta affatto. Anzi. Se voglio entrare nel testo devo impormi di rallentare la lettura, altrimenti rimango troppo in superficie.
Del tuo pezzo però mi ha colpito molto questa frase “La letteratura, quindi, non è tanto legata alla bellezza, ma alla semplicità e chiarezza.” E mi piacerebbe capire meglio che cosa intendi. Io ho mie distorsioni mentali, che derivano anche dalla mia educazione, professione e da come sono vissuta fino a qua. Mi fanno rabbia tutti gli scritti che usano un linguaggio difficile o oscuro o che tentano esperimenti e innovazioni molto ardite. Ne sto leggendo uno in questi giorni. A causa della mia distorsione democraticista mi chiedo spesso come faccia l’autore a far passare il suo messaggio sperimentale se lo capiscono solo in due. Il fatto di essere una dei due, a volte mi capita, non mi rallegra affatto.
22 settembre 2016 alle 10:06
Credo, per quanto mi riguarda, che si scambia l’oscurità con la complessità. Io credo di scrivere “robe” complesse per temi, costruzione della storia, per ricerca, ma in maniera che sia chiara. Se questo dipenda un parte delle mie difficoltà fanciullesche, beh penso proprio di sì. Anche se lo realizzo solo adesso. Ho sempre amato una scrittura chiara e limpida (Levi ad esempio), ma ad esempio anche Mozzi, il tenutario di tutto questo, è per me uno scrittore chiaro e cristallino, per dire che chiarezza e semplicità non sono da scambiare con uno stile basico elementare.
24 settembre 2016 alle 07:42
Grazie per questa recensione che è molto più di una recensione.
17 febbraio 2017 alle 19:47
(Ci riprovo, perché il primo invio non è funzionato)
Ho finito ora di leggere questo libro.
1. La prima cosa che ho pensato quando l’ho chiuso è stato: “Ma quanta rabbia ha ancora in corpo quest’uomo? Dovrebbe essere più indulgente verso di sé.
2. Poi mi sono detta: voglio leggere quello che scrisse Demetrio convincendomi a leggerlo.
3. Ho letto e ho trovato la tua recensione quasi un’interpretazione. Fatta benissimo: dici molte più cose tu di quante non ne dica il libro (che ho certo apprezzato, ma non come te).
4. E poi ho capito. E l’ho fatto grazie al tuo ultimo paragrafo: “Nel libro di Schultz ho sentito qualcosa di affine, uno stile e un modo di esprimersi che mi è consono. La scrittura del memoir (…) non indulge verso di sé o verso il lettore. ” , grazie a questo e grazie al fatto di aver letto il tuo Conforme alla gloria.
5. Ecco: ho capito che tu e l’autore di questo libro avete davvero molto in comune. Tu hai ragione: ho sentito uno stile di fondo che pare venire da uno stato d’animo simile. (Permettimi queste esagerazioni… parlo di raoba di pancia). Ma non è tanto la dislessia (se posso permettermi) ma forse di piu la reazione che avete avuto alla stessa (poi ci metto anche la “sottotrama” legata agli ebrei). In entrambi (anche quando ti leggo su fb, Demetrio) sento spesso una grande “serietà” nel trattare il tema stesso (ma un po’ tutto, insomma), un’assenza praticamente totale di indulgenza (e di ironia), un assolutismo, sento persino un pizzico di “rabbia” (spero di non venire fraintesa), o energia scaturita non da un “sorriso per voglia di riscatto” ma da “smorfie di cattiveria” che non guariscono davvero. Mi dirai: “dal dolore”; “dalla sofferenza”. Ma anche il “dolore”, la “sofferenza” può essere affrontata in modi diversi. Io potrei dire di aver trascorso lo stesso tipo di esperienza (anzi), ma non ho mai reagito con aggressività e nemmeno sento di doverlo fare oggi. Non so se mi spiego.
Questo anche per dire che ho un’unica critica (una miseria rispetto all’incredibile “recensione” che hai fatto a questo libro – molto più che una prefazione, direi quasi un capitolo a sé stante, quello fondamentale, per cui ti ringrazio), dicevo l’unica critica che smuovo si riferisce sempre all’ultimo paragrafo, al passaggio in cui dici: “La mia dislessia è, però, un libro che ti permette di guardare alle tue paure, e di fare pace con quel ragazzo di otto anni ignaro di cosa gli capitasse,…” Non credo sia così. Purtroppo. Non con questo tipo di approccio. Purtroppo. Anzi, forse, un modo, proprio non c’è. In un certo senso.