Giornali, razzismo e stupidità selettiva

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Esiste un soggetto di notizia «neutro»?
La mia risposta è no, non esiste.
E rivendico il diritto di identificare le persone con il loro contrassegno identitario rilevante.
Mi si obietta: rilevante per chi?
Rispondo: rilevante per me.
Io sono pagata apposta per decidere cos’è notizia e cosa no, cosa è rilevante e cosa no. […]
Io mi assumo la responsabilità di quel che scrivo, e del modo in cui lo scrivo, sottoponendomi non solo al giudizio dei lettori (che sarebbe ancora poco; sarebbe un principio aziendal-liberista che qui non mi interessa) ma anche al codice penale e al codice civile.

Questo articolo della giornalista Federica Sgaggio è, secondo me, molto interessante. gm

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39 Risposte to “Giornali, razzismo e stupidità selettiva”

  1. lesitaliens Says:

    Interessante, chissà se poi lo fa davvero. Nelle redazioni dei giornali ne ho viste di cotte e di crude.

  2. Alcor Says:

    Condivisibile, ovviamente, in termini generali, ma non così cristallino come sembra, a mio avviso, del resto è la materia a essere molto mobile, per esempio quando Federica Sgaggio, verso la fine, dice questo:

    «Se va a fuoco la baracca di un gruppo di persone straniere – mi domando – ha senso o no scrivere che a morire fra le fiamme sono state persone straniere?
    Certo che sì, perché quelle persone sono morte in ragione della loro condizione di precarietà abitativa.
    Nelle baracche, per esempio, non muoiono i figli dei notai.»

    Il nesso tra stranieri e precarietà abitativa è labile.
    E anche, dopotutto, il nesso tra precarietà abitativa e figli di notai.

    Questi due elementi, che qui sembrano dati per scontati, ovvi dati di fatto, dovrebbero essere sottoposti a critica pure loro, per coerenza con l’articolo.

    Per non essere fraintesa: giudicare perché uno scriva in un modo e uno invece nell’altro non è così facile e automatico, dipende anche dalla propria esperienza, dal proprio vissuto, dal momento storico e politico, non soltanto da indegnità etica o stupidità politicamente corretta.

  3. federica sgaggio Says:

    @lesiitaliens: ma che meraviglia scrivere delle cose e sentirsi commentare «chissà se lo fa davvero». No, naturalmente: non lo faccio. Ho scritto solo per far finta di essere molto figa. Stavo scherzando.

    Nelle redazioni dei giornali ne ho viste di cotte e di crude anch’io.
    Come dappertutto, peraltro. Non ne ho viste di meno cotte e di meno crude nemmeno fra scrittori e intellettuali, per dire.

    @alcor: l’esempio della baracca è intenzionalmente standard, non aveva la pretesa di andare in fondo.
    Intendeva dire questo: nessuno mai ha sollevato eccezione sul fatto che, ad esempio, quando una roulotte andava a fuoco i giornali riportassero la notizia che nell’incendio era morto un bambino rom.
    Eppure è la stessa cosa: la specificazione della nazionalità o della provenienza aggiunge informazioni a ciò che scrivo.
    Solo che quando si aggiungono informazioni su coloro che consideriamo vittime da compatire, o con cui solidarizzare da casina nostra ci va tutto bene; se aggiungiamo informazioni su persone che si ritiene abbiano commesso cose che non ci piacciono, allora, be’, è meglio se omettiamo la nazionalità sennò qualcuno vede in controluce che volevamo insinuare che fossero dei bastardi.

    Sul nesso fra precarietà abitativa e figli di notai, mi manca la prova scientifica, sì.
    Ma se una baracca va a fuoco e dentro ci sono persone straniere, è certamente possibile che quelle persone fossero lì nella pausa di un rave party o fossero andati a trovare i figli del notaio de’ Nobilissimis; ma per quel che ne ho visto in diciotto anni (non ho naturalmente la pretesa di abver visto tutto, ma il campione statistico mi sembra quantitativamente, se non qualitativamente, credibile), è capitato più frequentemente che le persone straniere fossero nella baracca per il fatto di abitarci.

    È ovvio che chiunque scrive scriva dentro i propri panni, dalla propria esperienza. Che differenza fa? Se scrivo «bastardo marocchino» perché un marocchino m’ha rubato la radio sono scusabile?

    Perché ti interessa dire che quel che ho scritto «non è così cristallino come sembra»?
    Perché ti devi porre il problema dell’ipotetica «opacità» (che immagino possa intendersi come contrario di «cristallinità»?)
    Cosa ti spinge a credere che ci sia qualcosa di non trasparente?

  4. Alcor Says:

    Non sentirti sotto attacco perché non era mia intenzione, quello che mi interessa dire è che è difficile sottrarsi a un meccanismo.

    Per esempio, anche nella tua risposta al mio commento, tu sembri dare per scontato, e così almeno arriva a me che leggo, che un bambino rom sia uno straniero, leggi qui:

    «Intendeva dire questo: nessuno mai ha sollevato eccezione sul fatto che, ad esempio, quando una roulotte andava a fuoco i giornali riportassero la notizia che nell’incendio era morto un bambino rom.
    Eppure è la stessa cosa: la specificazione della nazionalità o della provenienza aggiunge informazioni a ciò che scrivo.»

    Ora, non è vero che tutti i bambini rom sono stranieri.

    Mi pongo il problema dell’opacità, qui sopra evidenziata, perché riguarda tutti noi quando raccontiamo, sia i giornalisti che la gente in coda al supermercato.

    Se tu usi la baracca («l’esempio della baracca è intenzionalmente standard, non aveva la pretesa di andare in fondo.») senza andare a fondo, fai – o se preferisci rischi di fare – quella stessa operazione che sottoponi a critica.

  5. federica sgaggio Says:

    Sì.

  6. romulusletizia Says:

    Senza entrare nel merito della questione, su cui si può essere d’ accordo oppure no: non mi sembra che in questo momento in Italia ci sia un clima generale così ostile alle idee propugnate dalla signora sgaggio. Voglio dire: se lei dovesse entrare domani nella redazione del Tg5, o Tg4, o Tg2 , o Tg 1, etc. etc, non credo che troverebbe un direttore che le raccomanda: “Per carità di dio! Non nomini mai la nazionalità di questo o quell’ assassino.. di questo o quello stupratore! Non dica mai che è marocchino o rumeno!”
    Credo che lo stesso valga anche per buona parte della carta stampata, compresi giornali come “La repubblica” o “Il corriere della sera”. perlomeno a giudicare dal tipo di articoli che pubblicano quotidianamente.

    E’ un pò come rivendicare il diritto di essere mussulmani in Arabia Saudita. Non ci vuole un coraggio straordinario…

    Se lei definisse uno dei presunti assassini di Alba Adriatica come “Sante Spinelli, un Rom”… oppure “Sante Spinelli, un cittadino italiano di etnia rom” (invece di chiamarlo semplicemente Sante Spinelli, imputato di omicidio) credo nessuno le metterebbe i bastoni tra le ruote, qui in Italia.

  7. Marco Crestani Says:

    Articolo molto intelligente.

  8. federica sgaggio Says:

    Io a volte penso che ci dev’essere qualcosa nell’aria.
    Non so: un batterio, un polline.

    Qualcosa che mette le persone in condizione di non voler capire ciò che leggono; di voler prima di tutto irrigidirsi, trovare la maglia rotta, beccare in (presunta) castagna qualcuno a cui per motivi inconoscibili e certamente estranei al contesto in cui si dibatte han forse deciso che bisogna abbassare la cresta.

    Qualcosa che convinca le persone che ciò che scrivono loro non sia aggressivo, o insultante, o irritante; o che se anche lo fosse, sarebbe nel loro pieno diritto esserlo, perché lo fanno a occhi aperti, e con lo spirito del dotto polemista; ma che irritante sia, invece, qualunque risposta essi possano ricevere, di qualunque tono.

    Ci dev’essere nell’aria qualcosa che spinge le persone a buttarla sul personale e poi, quando l’interlocutore dice «ma veramente a me non piace tanto che la si butti sul personale», ecco che si preme il bottoncino della risposta mieloso-sussiegosa prestampata: «Il mio non è un attacco, è solo un’opinione» (sottotitolo: permalosina che sei).

    Qualcosa che fa credere alle persone che non entrar nel merito e limitarsi a far cesello del metodo sia un’operazione così deliziosamente elegante da dover essere considerata superiore a qualunque eccezione nel merito; il merito sta al metodo come i romanzetti del cappero con una trama che va da a a b stanno ai libri alati in cui respira l’aura del super-cosmo poetico e della storia non c’è bisogno.

    Qualcosa, un batterio, che spinge a rifiutar di argomentare.
    Un virus che mira prima di tutto a voler rendere poco credibile l’interlocutore: poco coraggioso ahiahiahi.

    O a scrivere «signora sgaggio» seguendo un procedimento comunicativo completamente sovrapponibile a quello di cui Berlusconi si serve ripetendo, per gocciolar stille di discredito in un modo che ipotizza pieno di grazia e sapienza, «i signori della sinistra».

    O a pensare e dire «oh santa pace, qui vedo un pochino di opacità, chissà cos’avrà voluto veramente indendere la signora in questione, chissà se le intenzioni»…

    O a darsi pena di spiegare all’ignaro interlocutore qual è l’automatismo che inconsapevolmente egli (o più spesso ella: va detto) ha fatto scattare, e meno male che ci sono io che gli/le apro gli occhi.

    O a domandare «chissà se le fa davvero», queste belle cosette, questa simpatica sapientina che scrive queste cose lunghe.

    Ci dev’essere un virus che spinge a cercare il baco negli argomenti degli altri senza mai realmente prenderli sul serio; né gli altri né gli argomenti, intendo.

    Tant’è che alla fine scopro che potrei ben mandare un curriculum vitae al Corriere o a Repubblica (come se non ne parlassi mai, sul mio blog! Non che ci sia, è chiaro, un obbligo a leggerlo; ma se prima di criticare nel metodo, ovvio, si tentasse di documentarsi potrebbe non essere sbagliato), o al Tg5, o al Tg4, o al Tg2, o al Tg1 (al Tg3 no, mai: troppo a destra, qui, la signora sgaggio?), e – quanto a garanzia di opinioni conformiste se non proprio francamente razziste – mi assumerebbero subito.

    Se non fosse, magari, per qualche dubbio sulla mia capacità professionale, o magari sulla suscettibilità…

    In fondo, a me «signora sgaggio» è solo stato eccepito:
    – che non si sa se mi comporti effettivamente come dico di fare;
    – che ciò che scrivo non è coraggioso (ma io volevo veramente essere coraggiosa o no? Chi se ne importa! Noi non siamo mica qua a entrare nel merito);
    – che sono vittima dei cortocircuiti che censuro, e dovrei fare un po’ di attenzione, poffarre;
    – che sono perfettamente in linea con il milieu culturale del mio Paese, e dunque in sostanza che diavolo scrivo a fare, se quel che scrivo è già così ben rappresentato e dominante;
    – che per il mio conformismo forse potrei trovar posto da Fede o Minzolini, o nei media mainstream.

    Chi mai potrebbe sentirsi infastidito per notazioni che, come quelle qui sopra elencate, non contengono nemmeno la più lontana ombra del giudizio, o – peggio – del pregiudizio?

    Cari saluti
    la signora sgaggio

    (P.s. Grazie, Marco Crestani)

  9. romulusletizia Says:

    sinceramente: non volevo offenderla.
    Non ci conosciamo, le do del lei.
    Non mi pareva che ci fossero degli insulti nei suoi confronti, nel mio intervento.
    In caso contrario me ne scuso. Buona serata.

  10. Alcor Says:

    capperi, neppure io volevo offendere nessuno, se viene proposto un articolo che fa nascere riflessioni, anche su se stessi, in questo caso sul raccontare anche comune, familiare, si offre a nostra volta un punto di vista, una contraddizione anche nostra, ma visto che in effetti non era necessario, me ne asterrò in futuro.

  11. adriana iacono Says:

    Mi scusi la piccola provocazione: nel caso di un marocchino italiano, per dire, lei quale contrassegno identitario rilevante sceglierebbe?

  12. stefano Says:

    si è vero la questione è interessante. A prima vista mi sembra un problema tipo le quote rosa, una via di mezzo, non per forza negativa però. Ora io immagino che in tutti i paesi tipo il nostro, nel momento in cui la presenza di stranieri diventa notevole e il paese non è molto organizzato a gestirla il razzismo diventa legittimo nella testa di molte persone già predisposte a non farsi domande quotidianamente, al punto che pochi razzisti semplici sanno di esserlo. La politica questo lo sa, in Italia dei partiti ci hanno fanno carriera, e i mezzi di informazione mainstream seguono a ruota. Ad un certo punto non si distingue più un capo-fila. Ad oggi non so neanche che differenza possa fare nominare o no la nazionalità del presunto criminale, tanto il razzismo si è già iniettato, abbiamo già un governo razzista e leggi razziali. la nuova razza è quella clandestina. per arrivare al punto, però ti chiedo: ad un certo punto scrivi, Obama ha nominato una donna transessuale…transessuale che c’entra? se lo scrivi immagino che tu voglia intenderci una nota positiva o negativa in questa caratteristica irrilevante ai fini del ruolo che la persona andrà a ricoprire, giusto?
    o anche la donna stuprata che indossava la gonna, o anche la minigonna, o anche niente. tu hai diritto di scriverlo, e le reazioni infami che si genereranno sono colpa solo della società e di gente stupida, però in qualche modo lo scrivi perché invece vuoi affermare che le donne hanno il diritto eccetera, dunque fai giustamente politica e polemica, però nel caso della nazionalità omessa la vedo più problematica. Nell’articolo ci scrivi quello che ti pare, ma nei titoli urlati e vistosi, ( io non pratico e non conosco il giornalismo) diventa una notizia che un qualsiasi ha commesso qualsiasi-cosa, che in un paese ovviamente ignorante e con dei sentimenti alterati nei confronti degli stranieri genera false credenze. credo di aver fatto confusione in qualche modo, magari discutendone si dirama il tutto, oppure no.

  13. lucia de angeli Says:

    Ma che te lo dico a fare: è RISAPUTO che gli svizzeri sono tutti dei maniaci investitori di ciclisti.

  14. Morgana Says:

    Io farei distinzione tra due categorie di informazioni:
    1) i dati che identificano la persona (sesso, età, nazionalità);
    2) altri dettagli (ad esempio il modo in cui era vestita la persona).

    Le informazioni del primo tipo vanno sempre riferite, sono d’accordo.
    Per quanto riguarda le informazioni del secondo tipo, vanno riferite solo se considerate rilevanti.
    Per me è un dettaglio irrilevante il modo in cui era vestita la ragazza inglese di 23 anni quando è stata stuprata, per questo motivo non dirò che cosa indossava. Chi lo riferisce lo considera rilevante. Quando un giornalista pensa che un dettaglio sia irrilevante dovrebbe ometterlo. Se lo riporta nella notizia significa che lo considera rilevante. Se lo riporta ma non lo considera rilevante dovrebbe imparare ad ometterlo. Io la penso così.

  15. federica sgaggio Says:

    @Adriana: lei come lo definisce, un piccolo essere umano di undici o dodici anni? Bambino o ragazzino? Non sembra anche a lei che il contrassegno rilevante dipenda dal contesto, dalla situazione?
    Io non sono sicura, tra l’altro, che esista un marocchino italiano. Esiste un italiano che viene dal Marocco, o un marocchino che viene dall’Italia, credo.

    @Stefano: nei titoli è più problematica, sì. In genere io mi regolo così: specificando ogni cosa nel pezzo e riportandolo nei titoli solo se rileva. Per esempio, se un israeliano ha ucciso un palestinese o viceversa, la notazione relativa alla loro appartenenza che qui nemmeno posso definir geografica (religiosa? Politica?) va senz’altro inserita, altrimenti la notizia è senza contesto.

    Sulla donna transessuale: scriverlo ha senso perché mi fa capire – come posso dire? – a che punto, per dir così, è l’America. Mi dà uno dei sensi dell’azione dell’amministrazione di Obama.
    Quanto alla gonna, ti racconto un episodio che mi accadde quando lavoravo a Forlì.
    Là, una donna venne violentata con un manico di scopa.
    Il giornale concorrente a quello in cui lavoravo io fece uscire una locandina in cui c’era scritto “donna violentata con un manico di scopa”.
    Una degli assessori della giunta organizzò una raccolta di firme contro quel giornale.
    La intervistai, e le chiesi perché.
    Perché non si doveva dire che era stata violentata con un manico di scopa, mi rispose.
    Le chiesi perché.
    Perché quando si tratta del corpo delle donne, disse, tutti son pronti a dir parole.
    Le chiesi se era vero o falso che la donna era stata violentata col manico di scopa.
    Mi disse che era vero, ma non era quello il punto.
    E allora, le chiesi, qual è il punto?
    Il punto, disse, è che le locandine le vedono anche i bambini.
    I bambini vedono un sacco di cose, le dissi. Lei crede che i giornalisti abbiano il compito di purgare la realtà per nasconderla ai bambini?
    Non dico questo, rispose.
    E cosa dice?, le chiesi.
    Dico che non dovevano scrivere tutti i dettagli.
    Ma lei non pensa che dire i dettagli sia il dovere di un giornalista?
    Sì, ma con dei limiti.
    E chi li fissa i limiti?
    Ma ci sono i bambini che vedono!, mi disse.
    Non crede, le chiesi, che a dover spiegare la realtà ai bambini siano i genitori?
    Eh, disse lei, ma non tutti ne sono in grado.
    E allora noi giornalisti dobbiamo togliere dal visibile ciò che alcuni non possono spiegare ai figli?, le domandai. E come facciamo a sapere qual è la ripartizione delle competenze fra noi e i genitori?
    Mah, mi rispose. Forse il punto è nel MODO in cui si scrive.

    Ecco.
    Il MODO fa la differenza.
    Il nodo è lì.

    @Lucia: soprattutto quelli del Canton Ticino. Ovvio.

  16. federica sgaggio Says:

    Morgana, cosa penso sulla cosa del dettaglio sulla gonna, per esempio, l’ho scritto sul post.

  17. stefano Says:

    @federica: che le informazioni circa l’identità e il resto abbiano il loro senso in un articolo o in un titolo, sono d’accordo, ma infatti il punto problematico del tuo scritto non è il senso, ma l’effetto. Nei due casi ( transessualità e Forlì ) che hai citato probabilmente positivo, nel senso di partecipare ad una educazione collettiva. nel caso della nazionalità, non so, e non so neanche se sia possibile fare in altri modi. per dire, da qualche anno si parla di rom, prima penso che venivano chiamati zingari, dovrei fare una ricerca, è giusto continuare a etichettare delle persone senza raccontare chi sarebbero i rom, da dove nasce questo nome, perché a volte si chiamano zingari, perché raramente si nominano sinti, insomma che valore ha il termine rom circa il rispetto identitario del rom, se chi legge sa solo che tizio è rom, senza sapere che vuol dire? sono anni che milioni di persone guardano inutilmente i telegiornali, e leggono i giornali, c’è una riflessione in atto fra giornalisti?
    quest’ultima è una cazzata vero?

  18. federica sgaggio Says:

    Sì che c’è una riflessione in atto, eccome.
    Non ci riflettono tutti, ma per esempio nel mio gruppo di lavoro ne parliamo spesso; ne discutiamo con fervore.
    Per spiegare cosa vuol dire “rom” si fa un pezzo piccolo a lato, magari.

    Io penso che se non ci riprendiamo noi le parole, ridando loro il senso che NOi riteniamo che abbiano, finisce che a dettare il senso del discorso pubblico sono solamente quelli che usano quelle parole annettendo loro un senso negativo, e creando nei fatti un tabù dopo l’altro.
    Ci stanno espropriando delle parole.

  19. stefano Says:

    ma infatti spazi come vibrisse e il tuo blog sono una vera fortuna.

  20. federica sgaggio Says:

    O mamma. Grazie.

  21. giorgio fontana Says:

    federica, grazie. mi sto interrogando da tempo sui metodi e modi di una “notizia” e l’etica dell’informazione. credo che il problema non coinvolga soltanto gli informatori ma anche, inevitabilmente, il pubblico cui un informatore si rivolge: se tale pubblico è stato in qualche modo plasmato da mezzi più forti e subdoli, le sue parole possono risultare (e in genere risultano) sempre piene di trabocchetti e doppi sensi.

    il problema semantico è molto forte. e la parte difficile è che se io vado a raccontare un evento con i presupposti da te indicati a una persona abituata a informarsi su determinati tg, probabilmente la prenderebbe istintivamente per cattiva fede (la famosa questione gonna sì / gonna no, tunisino sì / tunisino no).
    il problema semantico diventa innanzitutto problema politico – nel senso più reale e quotidiano del termine. nel senso, per dire, di amici miei che pensano che “rom” sia un’abbreviazione di “romeno”.

    ci sarebbe da scrivere una cosa strutturata. ci penso spesso.

    ciao

    giorgio

  22. vibrisse Says:

    Direi che i fraintendimenti (anche, ad esempio, quello di Michela Murgia, qui) sono interessanti quasi quanto l’articolo di Federica. gm

  23. vibrisse Says:

    Giorgio, a “una cosa strutturata” Federica e io stiamo pensando da un po’. gm

  24. adriana iacono Says:

    Marocchino italiano non è un ossimoro ma una realtà. Nell’articolo si parla di stranieri in senso generico ma molti di quelli che noi chiamiamo “stranieri” sono in realtà cittadini italiani tutti gli effetti. Le racconto un episodio personale: tempo fa mi trovavo in Australia (paese multietnico dove per legge non si può specificare l’etnia di una persona dando una notizia che la riguarda) per fare conversazione ho chiesto al tassista che mi accompagnava di che nazionalità fosse.“Australiano” mi rispose orgoglioso. Poiché i suoi tratti somatici erano tutt’altro che anglosassoni e pensando che non avesse capito la domanda mi permisi di insistere. “Australiano” fu ancora la sua risposta finché forzato dalla mia stupida curiosità ammise di essere di origini egiziane. A distanza di vent’anni ancora ricordo quel tassista e l’espressione umiliata e rassegnata di chi giorno dopo giorno lotta per entrare a far parte del club e giorno dopo giorno si vede sbattere la porta in faccia. Quando noi diciamo marocchino invece di italiano a prescindere dalla notizia facciamo comunque un danno al faticoso processo di integrazione. Considerando poi che in Italia esiste un problema di razzismo per un giornalista decidere se citare o meno l’etnia di origine dovrebbe essere una scelta di responsabilità etica piuttosto che di presunta ipocrisia sociale. A mio avviso dovremmo cercare di superare questo provincialismo tutto italiano che presta volentieri il fianco alle strumentalizzazioni e ai preconcetti.

  25. federica sgaggio Says:

    Come già scrivevo, poco sopra, Adriana, io credo che esista non un italiano marocchino, ma eventualmente un italiano che viene dal Marocco, o un marocchino che viene dall’Italia.

    È quel che diceva il suo tassista: di essere un australiano proveniente dall’Egitto.

  26. adriana iacono Says:

    No Federica, il tassista si considerava australiano. Il concetto di doppia nazionalità può essere ricchissimo di sfumature, non credo sia giusto arrogarsi il diritto di scegliere quale sia l’identità culturale, sociale, politica, o religiosa in cui una persona si riconosce di più. Appigliarsi alla neutralità della burocrazia può essere una sana via d’uscita.

  27. federica sgaggio Says:

    In effetti, Adriana, non ho scritto che io avrei definito quel tassista un egiziano.
    O l’italiano proveniente dal Marocco un marocchino, o il marocchino proveniente dall’Italia un italiano.

    Tra l’altro, ma è del tutto secondario, io ho molti dubbi sulla «neutralità della burocrazia»; ma questa non è una critica al suo punto, di cui ho capito il senso. È un’aggiunta collaterale.

  28. Morgana Says:

    Federica, non sono d’accordo con te sul dettaglio della minigonna in un caso di stupro. Se una ragazza viene investita da un’auto, voi giornalisti non scrivete com’era vestita. Non lo scrivete perché non importa a nessuno. Se io leggo un articolo in cui si dice che la ragazza violentata indossava la minigonna, penso che per il giornalista la “minigonna” sia un dettaglio rilevante… e m’incazzo. Una notizia non è un racconto. Chi? Dove? Quando? Che cosa? Perché?

  29. federica sgaggio Says:

    La notizia è un racconto, invece, ma senza invenzione.

    Io penso che sia mio dovere smascherare anche il sessismo, e trovare i modi per farlo, e risponderne se non l’ho fatto abbastanza bene, con sufficiente rispetto, con sufficiente chiarezza.
    Posso anche non farlo, per non crearmi noie; ma devo sapere che lo faccio per non crearmi il fastidio di spiegare, e non perchè sono corretta.

  30. Andrea D'Onofrio Says:

    Non sono assolutamente d’accordo con Adriana Iacono.

    Il danno al faticoso processo di integrazione si fa quando si mettono sotto il tappeto le differenze, quando si negano le evidenze. E’ nella conoscenza che matura una coscienza civile, democratica, non nell’ignoranza.

    Se l’integrazione si fonda sull’ipocrisia del “siamo tutti uguali” anche quando siamo tanto diversi, allora facciamo cosi: da oggi tette finte, tacchi a spillo e minigonne per tutti i maschi, così niente più discriminazioni sessiste.
    Poi, una bella mano di vernice bianca ai neri.

    Sia chiaro, quando leggo di “napoletani ladri” sui giornali non ne ricavo nessun piacere, preferirei leggere di “ladri” e basta. Ma è vero, ha ragione Federica Sgaggio, è il MODO che fa la differenza, non la notizia in se.

  31. adriana iacono Says:

    Non mi pare di avere detto da nessuna parte che siamo tutti uguali, anzi proprio perchè esistono le differenze e le sfumature nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di scegliere quale identità dare a una persona.

    L’etnia, la cultura di appartenenza sono aspetti delicati che riguardano la vita intima di ciascuno di noi e non etichette da distribuire a caso. Per questo sono contraria a titoli come “veneti razzisti” perchè rafforzano in me uno stereotipo che non voglio avere quando incontro una persona veneta.

    Che piaccia o no i giornalisti hanno una grossa responsabilità nella creazione di pregiudizi, un’informazione libera deve tenere conto anche di questo. Un cittadino italiano deve essere considerato tale a prescindere dalla sua etnia, dalla sua regione, dal suo campanile di provenienza.

  32. Andrea D'Onofrio Says:

    E’ ovvio che i giornalisti hanno una grossa responsabilità, ma a me pare che Federica Sgaggio abbia affermato proprio questo, che è responsabilità (anche penale) del singolo giornalista la notizia, meglio, come viene trasmessa.
    Invece tu stai proponendo un criterio deresponsabilizzante sia verso il fruitore sia verso l’utilizzatore. Certe cose non si dico e basta, perchè ne giornalista ne lettore possiedono (evidentemente) capacità di gestire una materia cosi delicata. Questo non lo hai detto, ma è la logica conseguenza dell’impostazione che hai dato al problema. Qui io non sono d’accordo, anche se comprendo i timori alla base del tuo ragionamento.

  33. Adriana Iacono Says:

    Federica Sgaggio, da giornalista, afferma un rispettabilissimo criterio di responsabilità personale. Io, da utente stufa di certi cliché, faccio appello alla deontologia professionale.
    Non credo ci sia nulla di irresponsabile nel desiderare un cambiamento nella tendenza giornalista attuale che a ritmi regolari impone la caccia allo straniero come sport nazionale. Certe cose non si dicono soprattutto perché nella stragrande maggioranza dei casi non hanno nessuna attinenza con la notizia. Inoltre, come hai ben detto, non è materia da gestire con leggerezza.

  34. federica sgaggio Says:

    Anch’io, Adriana, faccio appello alla deontologia, oltre che alla responsabilità.

    A latere di queste annotazioni, mi viene in mente una cosa: che il lavoro del giornalista somiglia per qualche apsetto a quello dell’allenatore di calcio: dato il supposto possesso di un certo numero di rudimenti appresi nella captazione atmosferica dei contenuti, moltissime persone pensano di poterlo svolgere.
    Esempio evidente di questa convinzione è, per dire, l’esistenza di una prova d’esame che alla maturità viene definito “articolo giornalistico”, mi pare, o “saggio giornalistico”: come se in assoluta assenza di professionalizzazione anche minima, qualunque diciottenne potesse essere seriamente valutato nella sua capacità di giornalista da docenti che non sono mai stati giornalisti.

    Ora: io so che molti giornalisti sono poco amabili (e userò intenzionalmente un eufemismo). Però non credo che il fatto che alcuni, molti, o perfino quasi tutti i giornalisti siano, ipotizziamo, insufficienti al compito sia una ragione sufficiente a concluderne che chiunque, solo a volerlo, può essere giornalista, basta che scriva.

    Tutto questo lungo discorsone per dire, Adriana, che esiste chi può e deve – per dovere professionale, non per investitura autocratica – stabilire se alcune circostanze hanno attinenza con la notizia. Quel tale si chiama giornalista. Il giornalista non può esimersi dal deciderlo. Se non lo fa, si comporta con ignavia. Si può fare, eh, intendiamoci. E non succede niente di capitale o decisivo.
    Però se lo fanno tutti succede quel che succede adesso: che le parole son sempre – per capirci – del “padrone”, e mai nostre. Il senso è sempre quello degli altri, e mai il nostro.

    Proprio come se Lippi cedesse alle pressioni dei tifosi e mettesse in nazionale Cassano. Non succede niente: al massimo la nazionale rimane senza un giocatore perché il tipo si fa ammonire un po’ troppo.
    Però Lippi smette di far l’allenatore e cede le sue mansioni alla curva, pur continuando a precepire ciò che chiamerò stipendio.

  35. Margherita Vischio Says:

    I più sinceri complimenti a Federica Sgaggio, per la chiarezza, la lucidità e la sensibilità di tutte le sue considerazioni. Ma soprattutto per la forza con cui sostiene la necessità di chiamare le cose con il loro nome. Per amor di verità, per amor di chiarezza. per rispetto alla Deontologia professionale.
    Magari tutti i giornalisti lavorassero così!
    Dalla parte del lettore, chi legge si aspetta informazioni precise e dettagliate, vere. Vuole sapere. Non apprezza e spesso riesce a riconoscere le notizie camuffate o distorte, spesso, ma non sempre e comunque parlo del lettore con senso critico.
    Questa società ha bisogno di coraggio e dire le cose come stanno è, appunto, una manifestazione di coraggio.
    Omettere dettagli importanti, quale nel caso in questione la specificazione della nazionalità dell’autore, o della vittima, di un fatto da divulgare a mezzo stampa è sbagliato.
    Ed è altrettanto sbagliato camuffare con eufemismi o giri di parole un’identità. O peggio ancora mistificarla.
    Perché? Dico qualcosa di ovvio: perché di deve dire quello che è: bello al bello, brutto al brutto, pane al pane. Ma soprattutto perché alla cronaca giungono fatti causati da persone che hanno ben precise identità. Giustamente da dichiarare. Con rispetto, certo.
    Non dichiararlo sarebbe pura ipocrisia, assimilabile all’inganno.
    Ho sentito alla radio raccontare una vicenda che ha suscitato l’indignazione dei genitori di bambini di una scuola elementare (non ricordo di dove) che recentemente, mentre preparavano il presepio a casa si sono sentiti dire dai bimbi: “No, non si può dire Gesù bambino. La maestra non vuole. Si deve dire il bambinello” e non si può dire Maria, ma la “signora” e poi non si può dire Giuseppe, ma il “falegname”. I genitori hanno reagito naturalmente. E giustamente.
    Ma che mondo ipocrita e falso vogliono coltivare quelli che distorcono la verità, la storia i nomi e le definizioni? E poi perché mascherare e nascondere? A quale scopo?
    Forse l’esempio non era calzante, ma mi bruciava dentro.
    Io amo, sostengo, difendo la verità e la chiarezza, basi della correttezza professionale.
    Ecco perché sono dalla parte di Federica Sgaggio.

  36. federica sgaggio Says:

    Grazie, Margherita e Andrea.

  37. Adriana Iacono Says:

    È ipocrisia e mistificazione definire straniero chiunque non si riconosca nel nostro quadro culturale di riferimento e identificare una persona in base alla sua nazionalità di origine piuttosto che per la sua cittadinanza attuale.

  38. federica sgaggio Says:

    Adriana, ma veramente le risulta che io abbia detto che se una persona è cittadino italiano, o svedese, o togolese, E HA UN’ORIGINE filippina, io scriverei che quella persona è un filippino?
    Mi scusi, dove l’ha letto?

    Già che son qui, un’altra cosa. Secondo me lei potrebbe assolversi per quel viaggio sul taxi australiano.
    Interessarsi alle storie delle persone che si incontrano è un fondamentale attributo dell’umanità, non una curiosità stupida.
    Essere curiosi dell’altro vuol dire vederlo, riconoscerlo.
    Lei ha il diritto di chiedere. L’altro ha ogni libertà di stizzirsi.
    Ve lo potete dire.
    Da cose come queste, Adriana, nascono le relazioni umane.
    Stare zitti ed evitare di domandare non mi sembra – ma il giudizio è totalmente personale – un bel modo per entrare in relazione con l’altro.

    Se qualcuno mi chiede perché mio fratello è in sedia a rotelle vuol dire che lo vede, che lo riconosce, che lo assume nel suo panorama emotivo. Io posso rispondere oppure no; ma quel che è certo è che quella è una domanda che crea una possibilità di relazione, anche – se proprio siam nervosi tutti e due – attraverso il conflitto.

    Anche il conflitto è riconoscimento dell’altro.

  39. federica sgaggio Says:

    Ah.
    Lei scrive: “È ipocrisia e mistificazione definire straniero chiunque non si riconosca nel nostro quadro culturale di riferimento e identificare una persona in base alla sua nazionalità di origine piuttosto che per la sua cittadinanza attuale”.

    Non ho scritto nemmeno che straniero è colui che non si riconosce nel “nostro quadro culturale di riferimento”.
    Anche perché francamente faticherei a definire “il nostro quadro culturale di riferimento”.

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