Dieci buoni motivi per pubblicare da sé il proprio libro piuttosto che affidarlo a un editore a pagamento

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Un'aspirante scrittrice, colta nel momento in cui decide di lasciar perdere gli editori a pagamento e di pubblicarsi da sé

Un’aspirante scrittrice, colta nel momento in cui decide di lasciar perdere gli editori a pagamento e di pubblicarsi da sé

di giuliomozzi

1. Poiché facendo da sé non si ottiene niente di meno di quanto si ottiene affidandosi a un esosissimo editore a pagamento: tanto vale.

2. Se ti affidi a un editore a pagamento, finirà che da questo editore ti aspetterai – avendo pagato fior di quattrini – qualcosa di più della pura e semplice stampa. Non arriverà invece nulla di più della pura e semplice stampa: ma nell’attesa e nella contesa, nell’incertezza e nell’illusione, tra lettere e telefonate, passerà inutilmente del tempo: e avrai dello stress. Ciò che puoi aspettarti da te stesso, invece, puoi immaginartelo correttamente fin da subito (= niente stress).

3. Essendo editore di te stesso, correggerai amorevolmente il nostro testo. Cosa che un editore a pagamento non farà.

4. Essendo editore di te stesso, sarai motivato a diffondere la nostra opera. Cosa che all’editore a pagamento non interessa: lui, i suoi soldi, li ha già presi.

5. Essendo editore di te stesso, saprai esattamente quanto costa (in soldi e lavoro) ogni singola fase di lavorazione del libro (intendo la distribuzione, la promozione, la vendita come “fasi di lavorazione” tanto quanto l’impaginazione eccetera). L’editore a pagamento che ti chiede una cifra forfetaria non ti spiegherà mai con precisione quanto costa questo e quanto costa quello: non gli conviene.

6. L’editore a pagamento ti chiede un tanto per tante copie. Essendo l’editore di te stesso puoi appoggiarti ai servizi di self-publihing, di print-on-demand: e spendere esattamente quanto vuoi.

7. Se spedirai a Claudio Magris una copia della tua opera stampata dall’editore a pagamento, si può facilmente prevedere che Claudio Magris – appena notato il marchio editoriale infame – getterà via il libro. E non si potrà dargli torto. Se spedirai a Claudio Magris una copia della tua opera autopubblicata, si può facilmente prevedere che Claudio Magris – appena notata l’assenza di un marchio editoriale – getterà via il libro. Ma in questo caso gli si potrà dar torto: perché ha senso gettar via senza neanche un’occhiata i libri degli editori di merda, non ha senso gettar via senza neanche un’occhiata un libro senza editore. (Nota: in base alla mia esperienza, le opere autopubblicate – pur non essendo generalmente gran che – tendono a essere quantomeno più leggibili di quelle pubblicate dagli editori a pagamento).

8. L’editore a pagamento tifarà firmare un contratto. Nel caso in cui un editore vero, e magari importante, si interessasse alla tua opera, l’editore a pagamento farà notare l’esistenza di certi codicilli in corpo 6 e reclamerà la sua fetta di torta. Se fai d te, sarai l’unico commensale.

9. L’editore a pagamento, finché gli dovrai dei soldi, mi coprirà di lodi stucchevoli. Poi mi maltratterà. Tu, avendo deciso di spendere i tuoi soldi, starai bene attento a non sopravvalutarti. Poi, vabbè, ti verranno magari dei rimorsi: ma almeno non sarà umiliante.

10. L’importante non è l’editore, non è il libro, non è il risultato economico, non è il successo, non è il fallimento, non è questo e non è quello, l’importante non sei nemmeno tu: l’importante è l’opera.

125 Risposte to “Dieci buoni motivi per pubblicare da sé il proprio libro piuttosto che affidarlo a un editore a pagamento”

  1. Matte Says:

    Oltre a ricevere ciarpame letterario il buon Magris è stato vittima di refuso nella tua prima citazione. Detto questo, tutto condivisibile. Ciao Giulio (pure tu getti tutto quello che ti viene inviato? )

  2. Giulio Mozzi Says:

    Grazie, ho corretto. Diversamente da Magris, io sono pagato apposta per leggere.

  3. Diego Caiazzo Says:

    Ottimo, Giulio. Sottoscrivo. Che senso ha l’editoria a pagamento? Se paghi puoi fare quello che vuoi, ma poi cosa rimane? Un vero editore deve rischiare con te, firma anche lui il tuo libro, pubblicandolo. E, se non hai pagato, si darà da fare per diffondere e vendere il tuo libro.

  4. DANTE TORRIERI Says:

    Giulio ma se uno pubblica un libro mediocre, con un editore a pagamento e nel corso degli anni, si rende conto della sua effettiva mediocrita’ … percio’ riscrive totalmente il libro: cambia tutto oltre ad aggiungere molte altre cose (persino il titolo cambia). Poi come dovra’ comportarsi, nel caso di una seconda (eventuale) pubblicazione?? Grazie

  5. Giulio Mozzi Says:

    Dipende da quello che è scritto nel contratto, Dante.

  6. Lucio Angelini Says:

    La realtà è che, oggi, tra pubblicare (anche con Grosso Editore) e non pubblicare non c’è molta differenza. Qualche decina di autori editi vive – spesso per misteriose e insondabili ragioni – dei diritti dei propri libri, per tutti gli altri la scrittura resta un puro hobby, cui è sempre bene affiancare un lavoro vero: se non altro, per non finire presto o tardi sul lastrico.

  7. massimo giuliani Says:

    D’accordo su tutt’e 10 e aggiungo:
    11. È divertente. Ti curi l’impaginazione, cerchi le immagini per la copertina, chiami l’amico disegnatore che ha illustrato copertine di dischi, gli dici come la vuoi e lui ti dice come la vede, ti scegli il font, scegli il formato che ti piace, scegli la carta che preferisci e impari un sacco di cose.

  8. Ma.Ma. Says:

    Posso spingermi un pochino più in là? Personalmente (dopo due o tre esperienze) ho stabilito che vale la pena autopubblicarsi non solo per evitare l’editore a pagamento, ma persino per schivare diversi editori seri, i quali purtroppo essendo però molto piccoli o medio-piccoli hanno comunque una limitata disponibilità di “mano d’opera” itnerna e nessuna capacità promozionale. E non sono, infatti, pentita di aver rifiutato, per un paio di miei libri, 2 contratti d’edizione di altrettanti editori (da 60 titoli l’anno). L’idea di sentirmi “bloccata” da un contratto a me “spaventa” ancor più di una richiesta di contributo. A partire dall’ultimo che ho scritto chiedo solo ai più noti. Se va, bene, altrimenti me li pubblico da sola testandoli sui lettori della mia regione per capire dove migliorare… sempre un po’ di più 😀

  9. Nadia Bertolani Says:

    Non avrei mai creduto che Giulio Mozzi fosse indulgente con gli autori che si autopubblicano, ma ha sicuramente ragione. Il mio primo libro è stato edito da una piccola CE grazie al sostegno di un Istituto Storico: l’editing, l’impaginazione e la veste tipografica sono state curate con professionalità, ma la distribuzione non è certo stata capillare. Più tardi ho autopubblicato altri due romanzi e non me ne pento dal momento che oltre alla mia cerchia di amici, non pochi altri sconosciuti hanno letto le mie pagine. L’unica osservazione che posso fare è questa: pubblicare in proprio sarà anche divertente, come dice Massimo Giuliani, ma promuovere il proprio libro richiede tempo, energie e convinzione, doti che mi mancano. Sono arrivata perciò alla conclusione che questi tempi moderni e questo bizzarro mercato dell’editoria non fanno per me. Sarò passatista, ma rimpiango il vecchio detto di un venditore della Einaudi: “Per -fare- un libro occorrono tre persone: chi lo scrive, chi lo edita e chi lo vende”. E, ahimè, mi sono rassegnata: se nessuna CE accoglie con favore quello che ho scritto, ciò significa che non vale poi molto.

  10. Giulio Mozzi Says:

    Ma.Ma.: direi che un editore da 60 titoli l’anno (quanti ne fa, per dire, Stile libero) non dovrebbe essere un piccolissimo editore.

    Nadia, quel promotore di Einaudi ha dimenticato qualcosa. Per fare un libro occorrono quattro persone: chi lo scrive, chi lo produce, chi lo vende, e chi lo compra.

  11. sassiscritti Says:

    nella mia esperienza, avere alcune pubblicazioni non a pagamento ma con piccoli o piccolissimi editori il cui comitato editoriale è però ritenuto serio e selettivo, e ottenere con questi primi libri un minimo di riscontro critico è la base per poi poter autopubblicare (come ho fatto con il mio ultimo libro) e far sì che il libro non venga, nel caso lo si spedisca a magris, per forza buttato. Parlo comunque della nicchia della nicchia, la poesia. azzurra d’agostino

  12. Ma.Ma. Says:

    Esatto, non erano (e non lo sono nemmeno oggi) piccolissimi, ma non erano Stile libero: altrimenti avrei firmato di corsa! Uno di loro comunque è pure distribuito bene (pde o messaggerie, non ricordo). Ma forse è meglio che mi spiego. Anzitutto per farmi vedere il contratto mi hanno chiamata in redazione (zona Milano) e mi hanno detto che volevano tutto ciò che avevo prodotto anche nel passato. Io gli ho spiegato subito che potevo cedere tutto, tranne i libri che avevano un determinato personatto. Infatti ho un contratto che mi lega con un altro piccolo editore (non a pagamento!) per un “personaggio”. Ebbene questi “sciacalli” mi hanno chiesto di “sguinzagliare” un avvocato per trovare una buona scusa, un cavillo che mi permettesse di liberarmi da quel legame. Io ho risposto che non avevo intenzione di tradire la fiducia di questo piccolo editore, ma che sarebbe bastato concedermi una liberatoria per il personaggio. In realtà il piccolo editore mi avrebbe anche “liberata” – è molto disponibile e comprensivo – ma il comportamento dell’altro mi aveva così disgustata che alla fine ho deciso di lasciar perdere. Contemporaneamente ho imparato una lezione importante: i contratti possono diventare delle palle ai piedi. E quindi ho deciso che firmerò solo se rieverò proposte di pubblicazione da editori “veri”. Nel frattempo – un paio di settimane fa – ho rinunciato a un’altra proposta: volevano pubblicare un mio racconto in un’antologia. Inizialmente ho accettato. Pubblicare non dovrebbe sempre significare cedere definitivamente i diritti per anni. Ho altri racconti in alcune antologie e mai ho dovuto firmare certi contratti… E così ho rinunciato anche questa volta. Sto sbagliando?

  13. dm Says:

    Copio qui questo commento scritto altrove nel blog.

    Dieci anni fa affidai un manoscritto a una casa editrice, una nota casa editrice a pagamento, perché, senza dirlo per esplicito ma con intenzioni assai poco onorevoli, questi signori mi avevano fatto credere di nutrire un interesse reale per le mie cose. Era un file con dentro brutte poesie, molto ignoranti e ingenue, scritte nel tempo libero e con l’intenzione di non recare danni a nessuno.
    Entrai nel circuito – con tanto di mailing list d’assistenza, prefatore, grafico e referente per la distribuzione – con molto entusiasmo e, qualche mese dopo, già cercavo nelle librerie il mio capolavoro. Ma niente. Nel frattempo sbirciavo in rete e vedevo che, a poco a poco, il titolo risultava dentro a un buon numero di siti, alcuni dei quali di librerie di catena. Ero persuaso di avere combinato il colpaccio.
    Mano mano l’intonaco della baracca però veniva via e, mese dopo mese, la baracca si svelava per la baracca che era. Sbagliarono perfino il titolo nel loro sito che, a ben vedere, pullulava di libri, alcuni dei quali avevano incipit che, persino al me ingenuo d’una decade fa, disgustavano e forse più. Alla fine, compresa la spietatezza dei masnadieri, mi sentivo in gran colpa soprattutto per i finanziatori: che due anime pie e motivatrici mi avevano spinto alla pubblicazione, finanziando il tutto. Nemmeno soldi miei…
    Finale triste. Parecchi anni dopo, venti quintali di poesie lette e qualche chilo di sale in zucca di più, mi sono adoperato per far sparire dalla vista di Google e dai luoghi – fisici o meno – ai quali avevo accesso, ogni traccia dello sgorbio editoriale, con grande spreco di vergogna. C’è una morale? E chi lo sa! A me resta un po’ di ruggine e un po’ di malumore, quando sento il nome – nuovo e trasformato, come fanno le società votate al crimine – della casa editrice a-ehm frodatrice.

  14. Roberto R. Corsi Says:

    L’ha ribloggato su Roberto R. Corsie ha commentato:
    non sempre mi riesce di razzolare di conseguenza, però sono d’accordo e trovo questa riflessione esauriente.

  15. RobySan Says:

    O scrittore: il far da sé, fa per te!

  16. Filomena scrive... Says:

    Discussione molto interessante ed educativa!

  17. Giovanni Says:

    Per la verità, Claudio Magris è uno dei rarissimi che risponde sempre, almeno per cortesia. (Spero che ora la sua cassetta di posta non sia invasa da quintali di carta)

  18. Guido Sperandio Says:

    Ottima analisi, Giulio Mozzi!
    Con gran finale: vedi punto 10.
    PS: buona l’aggiunta “compratore” ai tre must del venditore di libri 🙂

  19. gian marco griffi Says:

    11. Ancora più importante, a un certo punto, è metterci una pietra sopra.

  20. Nadia Bertolani Says:

    Giulio, ma nell’atto del vendere è implicita la presenza del compratore. O no? :*

  21. acabarra59 Says:

    “ Mercoledì 31 dicembre 2003 – Divertente è anche concludere l’anno trovando, assolutamente per caso, l’edizione Mondadori (Oscar, settembre 1995) di Una pietra sopra e scoprire, leggendo la presentazione, che Calvino scrisse due presentazioni, delle quali quella poi scartata, la più « analitica e storicizzante », fu pubblicata da Repubblica il 15 aprile 1980 con il titolo « Sotto quella pietra ». “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 151

  22. Giulio Mozzi Says:

    Nadia: serve qualcuno che venda, e serve che costui trovi chi compra (altrimenti si potrebbe dire che l’esistenza del venditore implica l’esistenza del produttore, e questa a sua volta l’esistenza dell’autore).

    Sul rispondere. Conosco:
    – un paio di autori che rispondono sempre; ma evitano accuratamente di leggere ciò che ricevono;
    – un autore che, guadagnando molto (non dai libri), paga una persona che ogni mercoledì gli guarda e smista la posta, rispondendo anche suo nome;
    – un autore che, essendo accademico, fa sbrigare la posta dal dottorando o dottorato o ricercatore di turno;
    – alcuni autori che pubblicamente dichiarano di essere autori, non funzionari o consulenti editoriali: e quindi non hanno voglia di leggere inediti;
    – una dozzina di autori che, se qualcuno si rivolge a loro, lo mandano a me (l’ultimo dei mandati da me è uno che da due settimane mi telefona tutte le notti, in un’ora compresa tra le 23.50 e le 02.35, per leggermi brani della sua opera: che peraltro si guarda bene, nonostante i miei inviti, dallo spedirmi);
    – funzionari o consulenti editoriali che ricevono centinaia di opere inedite, e rispondono solo se trovano qualcosa di interessante (anch’io, come noto, faccio così).

  23. deborahdonato Says:

    Scusa, Giulio, ma c’è anche quello che ti telefona dalle 23.50 alle 2.35? Mi ripeto: scrivere un romanzo sulla vita di un uomo perseguitato dagli aspiranti scrittori, non ti sembrerebbe interessante?

  24. DANTE TORRIERI Says:

    Giulio, il contratto aveva una durata di cinque anni, ma quando son passati i cinque anni, la pagina web dedicata all’opera, non e’ stata cancellata: ho chiesto spiegazioni sul motivo del fatto e mi hanno detto che, senza una mia comunicazione, il contratto rimane in atto e per cancellarlo, dovevo comprare le restanti copie… io non l’ho fatto e adesso sono passati la bellezza di 7 anni e la pagina web esiste ancora

  25. RobySan Says:

    11. Ancora più importante, a un certo punto, è metterci una pietra sopra.

    O provare a diventare scrittori di epigrafi (da porre sulle pietre).

  26. Niki Says:

    Gli editori a pagamento non sono peggiori di certi editori che, pur non facendoti pagare nulla, propongono un contratto con
    1) diritti d’autore irrisori (ordine del 7-5%)
    2) diritti d’autore che verranno elargiti solo al di là di un certo numero di copie vendute (trecento o cinquecento, in genere). Con questo sistema, sarà interesse dell’editore non a pagamento aumentare a dismisura il numero di scrittori pubblicati, senza curare l’aspetto della promozione. Che vendano tutti un poco, insomma. Per il vantaggio di uno solo (l’editore, ovvio).

  27. virginialess Says:

    Non c’è dubbio che l’autopubblicazione sia da preferire rispetto a quella a pagamento (esclusa per quanto mi riguarda a priori). I 10 punti che marcano la differenza sono divertenti e azzeccati.
    Trovo anche assennati alcuni commenti sui “lacci” che, in cambio di molto poco, bloccano l’autore sotto contratto con un piccolo editore. Chi fa da sè, è chiaro, si gestisce e amministra in autonomia.
    Tuttavia la grande maggioranza delle opere autopubblicate che mi è capitatto di leggere (un numero modesto, mi saranno sfuggite le migliori!) non rivelano l’amorevole cura sottintesa dalle regole e la loro permanenza nei cassetti non avrebbe arrecato danno alla narrativa. Si potrebbe affermarlo anche di molte etero, ma il livello almeno formale mi sembra più decoroso.
    L’editore free, quale sia la grandezza, non stampa qualunque cosa ed edita almeno un po’ ciò sceglie. Quanto all’autore, la sua opera ha superato comunque un “esamuccio”.
    L’incoraggiamento del self andrebbe sempre accompagnato da una grossa riserva nei confronti dell’autoreferenzialità, cui chi scrive è (purtroppo) naturaliter portato.

  28. Andy Says:

    @Ma. Ma.: ti offendi se ti dico che il tuo racconto mi sembra inquinato da una punta di mitomania?

  29. Ma.Ma. Says:

    Ci mancherebbe, non mi offendo di certo. Solo la verità – si dice – offende. Mi incuriosisce piuttosto il motivo per cui metti in dubbio quanto descrivo? Per la cronaca posso inviarti scambi, proposte non sottoscritte e quant’altro 😀

  30. acabarra59 Says:

    “ 11 maggio 1994 – Nei confronti di chi si sforza di pubblicare a proprie spese o quasi libri, libretti, libriccini – ce ne sono tanti, in provincia, e non solo – ho sempre provato un sovrano disprezzo. Mi sembravano esempi patetici di subalternità sociale, documenti grotteschi di ambizioni del tutto infondate, tragiche dimostrazioni di come il Weltgeist se ne fotta della maggior parte degli uomini preoccupandosi di ispirare soltanto i soliti pochi eletti. Questo pensavo; e lo penso ancora. Quello che è cambiato è che non ho più un’opinione così entusiastica e hollywoodiana del Weltgeist. Per quanto ne so può essere anche un grande coglione “. [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 152

  31. Andy Says:

    @Ma. Ma.: non metto in dubbio il fatto che i fatti si siano verosimilmente svolti come turiferisci. E’ piu’ l’interpretazione che ne dai tu che ne connota il racconto di mitomania.

    mi spiego:

    dici:
    “(…) e mi hanno detto che volevano tutto ciò che avevo prodotto anche nel passato. Io gli ho spiegato subito che potevo cedere tutto, tranne i libri che avevano un determinato personatto (…)”

    Al di la’ del fatto che la Cosa messa cosi’ rimane un po’ fumosa (immatino che per persponatto intendessi personaggio), mettendola chiara, sarebbe andata piu’ o meno cosi: tu sei autrice con un’altra casa editrice di un certo lavoro, rappresentato da un “personaggio”. Chiamiamolo Paperino.

    La seconda casa editrice- che ti fa venire in sede (non vedo l’azione sospetta in questo, anzi)- e’ interessata a Paperino, e porbabilmente pensa che potrebbe farne qualcosa di meglio e di piu’ di quanto non il tuo editore Numero 1. Se gli dai paperino, questi sono disposti a pubblicare anche quell’altro tuo lavoretto (il quale, senza Paperino, non viene ritenuto degno di pubblicazione)

    Tu, legata da un patto di fiducia all’editore Numero 1, non te la senti di andare avanti e non se ne fa niente.

    Poi.

    Inizi dicendo: “L’idea di sentirmi “bloccata” da un contratto a me “spaventa” ancor più di una richiesta di contributo.”

    In realta’, quanto e’ accaduto dice che non hai voluto- per ragioni personali che Hanno a che fare con la fiducia etc.-passare da un editore ad un altro per pubblicare Paperino.

    Ma se l’editore Numero 2 fosse stato, anziche’ un cattivone (“sciacalli”), Stile Libero,a quanto si capisce gli avresti dato, oltre a Paperino, anche Pippo e Pluto. Cosa peraltro condivisibile, beninteso.

    Ecco, direi che il tuo modo di rappresentare i fatti (una valutazione oggettiva sul cambio di editore che comprenda anche il sacrificio di Paperino sulla base delle dimensioni e del prestigio del suddetto nuovo editore) mettendo te in una luce di autrice libera e indipendente, misurata e leale, mi ha fatto sentire puzza di mitomania.

    Tutto qua.

  32. Giulio Mozzi Says:

    Dante, scrivi:

    …ho chiesto spiegazioni sul motivo del fatto e mi hanno detto che, senza una mia comunicazione, il contratto rimane in atto e per cancellarlo, dovevo comprare le restanti copie

    E’ scritto nel contratto?
    Se non è scritto nel contratto, non possono importi una cosa simile.
    Se è scritto nel contratto, dovevi a suo tempo leggerlo prima di firmarlo.

    Niki: diritti d’autore dell’ordine del 7% non sono irrisori.

  33. DANTE TORRIERI Says:

    No Giulio: il fatto di dover comprare le copie rimanenti in magazzino, per annullare il contratto, non e’ scritto nel contratto! Quindi credo proprio che il contratto, sia terminato allo scadere dei 5 anni.. e adesso (penso e spero) di non aver piu’ legami con la casa editrice. Anche perche’ il libro non e’ piu’ lo stesso libro

  34. Il fu GiusCo Says:

    Mi auto-pubblico per non cedere i diritti e perché le 100-150 persone interessate-interessanti ormai le conosco tutte e loro conoscono me. Adesso ho su Amazon l’e-book completo ventennale delle mie robe, quando arrivo a 100 euro faccio il cartaceo on-demand con codice ISBN su ilmiolibro.it, che non vuole i diritti. Pago per l’ISBN annuale e tre copie, due alle biblioteche nazionali per deposito ed una per me. Tutti contenti e pace.

  35. Pierluigi Lupo Says:

    Forse sarebbe meglio evitare i contatti con gli scrittori… (Erri De Luca ci ha scritto un libricino). Alcuni, come dice bene Giulio, rispondono e sono cordiali, ma spesso non leggono quello che uno gli manda e, se pure danno un’occhiata ai manoscritti, non fanno niente di concreto per instradarti. Naturalmente spero di potermi smentire.

  36. Ma.Ma. Says:

    Sì, confermo: “personatto“ doveva essere “personaggio“. E la fretta mi ha giocato contro anche nella spiegazione. È che non volevo dilungarmi troppo, ma già che ci sono cercherò di essere più precisa.

    Tempo fa mi sono inventata un personaggio, protagonista di due lunghi racconti, di uno breve e di tre romanzi. Un piccolo editore ha creduto nel personaggio e ha deciso di creare una sottocollana a lui dedicato. Al momento sono stati pubblicati due romanzi su tre, uno dei due lunghi racconti e quello breve. Gli altri seguiranno. A questo editore ho ceduto quindi i diritti sul personaggio. In pratica se scrivo un libro che ha per protagonista il succitato, non posso pubblicarlo con altri editori.

    Prima di allora avevo già scritto e “pubblicato“ altri tre libri con due piccoli editori, sempre non a pagamento, e ne avevo già autoprodotti altri due.

    Nel frattempo ho scritto due successivi romanzi. E più precisamente i primi due (da 400 pagine)di una trilogia. Ho ricevuto diversi riscontri anche lusinghieri e incoraggianti seppur negativi, da parte di veri editori (lo dico perché proprio questo mi dà speranza di riuscire forse un giorno ad arrivare a farmi pubblicare davvero). Inoltre mi sono arrivate due proposte di pubblicazione da altrettante case editrici di cui ho parlato nel post precedente.

    Una ha provato solo a insistere telefonicamente dopo avermi sottoposto il contratto via e-mail. È stata gentilissima, ma a quel punto avevo già deciso di non firmare più nulla, perché ero già passata dall’altra.

    La prima, infatti, mi ha invitata in sede e la singolarità del gesto sta nel fatto che non ha voluto spedirmi il contratto da visionare via e-mail. Siccome in dieci anni era la prima volta che per valutare una proposta mi obbligavano ad andare in redazione, la cosa mi ha fatto quantomeno insospettire.

    Chiamiamo questo editore Pinko.
    Pinko voleva in assoluto la trilogia (non Paperino, non almeno inizialmente). Ma nell’invito a recarmi da loro per firmare, mi chiesero anche di portare gli altri libri che avevo scritto ed eventuali contratti pre-esistenti. Quindi è esattamente il contrario di quanto dici (ovviamente sono io che mi sono spiegata male).

    In conclusione, come già detto, Pinko a un certo punto mi dice «o tutto o niente», tirando fuori la questione dell’avvocato e dei cavilli… ma non voglio dilungarmi troppo. Sta di fatto che stringere un contratto con una persona di questo genere non mi sembra un buon inizio basato sulla fiducia reciproca, al di là del rispetto che ho verso il primo editore e che resta più che valido. Come detto, tuttavia, l’editore numero 1 mi sarebbe venuto incontro se dall’altra parte al posto di un Pinko scorretto, ci sarebbe stato uno Stile Libero.

    Ma alla fine, il mio racconto voleva solo mettere in evidenza la difficoltà che viene a crearsi legandosi a dei contratti, e non mettere in luce la mia vocazione di autrice libera e leale: di fatto la rinuncia non si ascrive a una sorta di idealismo, bensì a un puro e schietto egoismo od opportunismo. Vorrei infatti essere libera di firmare un “vero“ contratto se e quando me ne verrà mai proposto uno da un editore “vero“.

    Tutto qua. 😀
    Puzza ancora?
    Comunque se non mi sono spiegata bene. Ci riprovo 😀

  37. Niki Says:

    Giulio, 7% in assoluto no. Ma relativamente alla prospettiva di vendite di una piccola casa editrice, sì.

  38. Andy Says:

    @Ma.Ma: niente puzza, direi che l’aria è cambiata. Rimango ugualmente un po’ perplesso dal tuo uso delle virgolette- che non posso fare a meno di visualizzare come gesto saldamente integrato nella tua esposizione in forma orale- ma insomma, sono dettagli.

  39. Ma.Ma. Says:

    Andy, in genere prediligo il corsivo, ma non so come si fa qui: sigh!

  40. Stefano Grossi Says:

    Il mio libro di esordio l’ha pubblicato Castelvecchi nel 1999, é un libro di racconti: ” I maschi son tornati”, quindi un editore, seppur piccolo, vero; il punto dolente é che mifece firmare un contratto in cui era scritto che mi avrebbe versato 1 milione di lire di anticipo e,successivamente, percentuali variabili a seconda delle copie vendute. Mi avevano anche affiancato un vero editor con il quale ho lavorato alcuni mesi per limare , correggere i racconti. Castelvecchi non mi ha mai versato una lira, così come tutti gli altri autori della sua casa editrice. All’uscita del libro, mi son sentito abbandonato: nessuna promozione, niente di niente; come se avesse gettato un sasso nelle acque del mare e fosse rimasto ad osservare i cerchi concentrici che si allungavano sulla pelle del mare fino a vanire del tutto. In seguito, ho appreso che han venduto tutte le 2500 copie della primo libro. Al telefono, lui negava o non si faceva trovare.

  41. acabarra59 Says:

    ” 10 febbraio 1986 – Il libro di Toni Negri, Le mie evasioni è dello stesso editore del fumetto Alan Ford. ” [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 153

  42. Giulio Mozzi Says:

    Niki: percentuali più alte se le possono permettere gli editori maggiori. Per i piccoli è più difficile.

  43. Giulio Mozzi Says:

    A questo punto, Ma.Ma., se tu dicessi anche come ti chiami, sarebbe una cosa carina.

  44. Ma.Ma. Says:

    😀 oh, dici? Ok, non ho problemi a farlo, tanto non mi conosce comunque nessuno. 😀 mi chiamo Manuela Mazzi da cui Ma.Ma.

  45. Simone Molinaroli Says:

    Io sottoscrivo tutti i 10 punti. Aggiungerei l’undicesimo che è quello che ha a che fare con la libertà.

  46. anna maer Says:

    I tempi sono veramente cambiati Giulio, non pensavo che l’autopubblicazione fosse la strada migliore per ogni aspirante scrittore/ice. Mi sono limitata ad una silloge di poesia, stampa accurata con la foto della mia raccolta ben riuscita ecc. ho ricevuto interessanti recensioni, ma alla fine invece di vendere, regalo. Incapace di autopromozione. Un salutone

  47. deborahdonato Says:

    Ma.Ma., credevo Ma.rgaret Ma.zzantini.

  48. Ma.Ma. Says:

    No, dai… ho dieci anni di meno 😉

  49. deborahdonato Says:

    Ad gni modo, il mio era un augurio (per il contratto e le vendite).

  50. Ma.Ma. Says:

    Magari ce la facessi: ti abbraccerei per questo augurio! (Come fatto?).

  51. Michele Nigro Says:

    Concordo con le motivazioni di Giulio Mozzi per esperienza diretta: è istruttivo perché fai esperienza sulla tua pelle delle varie fasi della nascita di un prodotto senza che l’editore a pagamento te le faccia passare come “magie” intraducibili al volgo; è divertente come qualcuno ha già detto… E poi, cosa da non sottovalutare, l’autopubblicazione può essere una vetrina per farsi vedere dal grande editore intelligente che esplora il sottobosco editoriale in cerca di qualche novità meritevole…

  52. Giulio Mozzi Says:

    Anna, scrivi:

    I tempi sono veramente cambiati Giulio, non pensavo che l’autopubblicazione fosse la strada migliore per ogni aspirante scrittore/ice.

    Dici? A me non pare che l’autopubblicazione sia la strada migliore per ogni aspirante scrittore/ice. Mi pare che l’editoria a pagamento sia la strada peggiore, tutto qui.

  53. Ma.Ma. Says:

    Già! accontentarsi dell’autopubblicazione sarebbe parecchio frustrante: un fallimento, direi.

  54. RobySan Says:

    Consigli disinteressati per giovani e promettenti scrittori.

  55. bruno corino Says:

    Scriverò un romanzo d’amore
    Scriverò un romanzo col cuore
    Scriverò un romanzo greve
    Scriverò un romanzo breve
    Scriverò un romanzo
    e me lo autopubblicherò!

  56. acabarra59 Says:

    “ Martedì 18 marzo 2014 – « Se tutti sono oggi in grado di autopubblicarsi, e si ingegnano a farlo nei modi più accattivanti e ruffiani, chi mai “ perderà tempo “ a leggere il proprio vicino di loculo virtuale? Si realizza davvero, col popolo sterminato degli autoproclamati poeti telematici, l’incubo dell’” autismo corale “ – come ha definito le pratiche della Rete un poeta autentico che della Rete abusa a sua volta, Franco Arminio. Todos caballeros e, dunque, nessuno più riconosciuto tale: perché nessuno più legge. O, più precisamente, nessuno è più in grado di leggere. L’arte del commento (arte si fa per dire) che proliferante infesta gli stessi cespugli telematici sta, a quella che una volta si chiamava critica, come l’ars rhetorica dei pellegrini verseggianti d’oggidì sta a quella di un Gottfried Benn. », scrive Andrea « Gargantua » Cortellessa. “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 154

  57. Il fu GiusCo Says:

    Er solito complotto, no? Meno Cortellessa, più Massimo Zampini.

  58. Carla Says:

    A me stupisce che ci sia ancora chi pubblica a pagamento. Da dove vengono, da Marte?

  59. Antonio Says:

    Ma.Ma. … Stai su IBS…

  60. Ma.Ma. Says:

    Sì, ma non ho capito: è una domanda o un’affermazione? 😀 Beh, in ogni caso, ci sono quasi tutti i miei “libri” e pure un paio in più scritti da una mia omonima. Perché?

  61. Nadia Bertolani Says:

    Marziani no, ma ingenui sì!

  62. acabarra59 Says:

    “ 4 maggio 1994 – Malerba invita su Repubblica a tenere un diario. Una volta tanto si sa che sono arrivato primo. (« Caro diario. Confessioni, emozioni, ambizioni e spifferi multipli, depositati sulla carta a futura memoria. Ma anche registrazione di eventi, referti di inquietudini e insieme esercizio di scrittura. Dico subito: questo non è un articolo ma una apologia del diario e un invito rivolto a tutti i lettori a entrare subito in una cartoleria e a scegliere un quaderno a cui affidare di tanto in tanto, meglio se ogni giorno, tutto ciò che riterranno meritevole di memoria. Attenzione, il diario non va sottoposto alla ipoteca della pubblicazione, ma al contrario va destinato a un cassetto, magari chiuso a chiave, e perciò la scrittura dovrà essere diretta, senza inibizioni e diaframmi culturali, soprattutto senza le bellurie che di solito si ritengono indispensabili quando si ha come obbiettivo la pubblicazione. » (Luigi Malerba, Una pagina al giorno)) “. [*] [**]
    [*] Vorrei, a questo punto, parteciparvi, cari, sconosciuti amici, il mio sommesso, pacato stupore. Del fatto che non uno di voi, nemmeno una volta, nemmeno per sbaglio, abbia sentito il bisogno di dire qualcosa del fatto che quelle opinabili, incongrue, intransitive note che vi occorre di leggere qua sopra sono tutte, con ogni evidenza, brani di un diario, ovvero che c’è uno – un tipo strano, un matto? – che, da quarant’anni, dico quaranta, scrive un diario. Lo so che voi, per lo più, vi “ occupate “ di romanzi, del come scriverli, del come riuscire a pubblicarli, lo so, l’ho capito, e non ci trovo niente di male. Eppure, poiché le vie della scrittura sono infinite, venire a sapere dell’esistenza di una così lunga, dissennata, immotivata fedeltà alla scrittura, sia pure nella forma “ minore “, clandestina, incommestibile del diario, dovrebbe suscitare, secondo me, almeno una certa curiosità. Invece, a quanto pare, no. Perché? Mi piacerebbe saperlo, solo per curiosità…
    [**] La s-formazione dello scrittore / 155

  63. Guido Sperandio Says:

    Nota di Acabarra /155.
    L’ho letta dalla prima all’ultima riga e apprezzata e condivisa, sia per l’acuta analisi di Malerba (e l’averlo riportato già diventa significativo) sia per la postilla e il quesito che lo stesso Acabarra pone.

  64. Paolo Says:

    AcabarraFiftyNine, ti contesto: noi ti leggiamo (alcuni almeno). A volte con più interesse, curiosità e coinvolgimento di altre, indeed. Di certo, però, non passi inosservato (anche solo per la costanza).
    “Quaranta… Minchia, quarant’anni!!!…” [** Da “la s-formazione del diarista Mediterraneo”] 😉

  65. Il fu GiusCo Says:

    Mah, fondamentalmente al potere ipnotico, intrattenitivo, predicatorio, affabulatorio, insomma “speciale” o “trasfigurante” della parola credono sempre in meno, nella fascia medio-alta di popolazione. Mi pare positivo: c’e’ piu’ gente libera. Se l’effetto collaterale di questa liberta’ e’ lo spaesamento o la solitudine, vada su facebook, trovera’ tutti questi disillusi spaventati a scrivere diari dalla mattina alla sera invece di crescere. La liberta’ e’ per pochi.

  66. Paolo Says:

    Il rapporto con il diario è personale, non divulgativo (così, recitando Malerba e il suo “cassetto chiuso a chiave”). Farne un blog o dei copia-incolla, ha ragione “Il fu…” è quantomeno contraddittorio. Direi che, come spesso facciamo, stiamo comparando mele con pere, o elementi ancor più divergenti accomunati dall’azione dello “scrivere”.
    Ma la chiave d’accesso al succitato diario (o al suo virtual cassetto) resta saldamente in mano di certo “acabarra59”, alla sua mente. Io, di tanto in tanto, mi faccio piacevolmente contaminare da qualche briciola, citazione, collegamento (per me spesso troppo esigenti, ma di certo curiosi…).
    Tuttavia, non credo quello di “acabarra59” fosse un grido di solitudine (né che i socialnetwork risolvano il problema).

  67. deborahdonato Says:

    Trovo interessante il diario solo quando mente, quando crea un io dietro la penna, quando trasfigura la biografia in cosmologia o, che è lo stesso, in letteratura. Ecco perché acabarra ti leggo con piacere. Altrimenti, mi soddisferei di facebook.

  68. fabriziocorselli Says:

    L’ha ribloggato su L'antro delle Musee ha commentato:
    Sotto scrivo il punto 10.

  69. acabarra59 Says:

    “ Lunedì 13 luglio 1998 – A leggere Sandro Briosi (Il rifiuto inutile. Interpretazione del romanzo italiano da Verga a Gadda, 1970, con un’introduzione di Gianni Scalia) […] si scopre anche, in epigrafe all’« Introduzione autocritica », un Gide che ci sembra opportuno tenere a mente – tanto più che l’abbiamo trovato anche ieri in Genette -: « L’art naît de contrainte, vit de lutte et meurt de liberté ». Ecco di che cosa sono morto io. “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 156

  70. Il fu GiusCo Says:

    Lei ha ragione, senza dubbio, ma una ragione parziale: l’altra origine dell’arte e’ lo stupore davanti al non conosciuto, in particolare rispetto a quello esperienziale. In questo senso, sarebbero interessanti le forme letterarie di AstroSamantha piu’ che quelle di Arminio, per stare all’oggi e se ne avesse pratica e talento. Voglio dire che alla funzione lenitiva o relazionale si dovrebbe aggiungere oggi quella cognitiva ed in effetti lo si fa gia’, si chiama letteratura scientifica, viene esaminata in peer-review e vale posti nelle universita’. Mozzi stesso assieme ai suoi colleghi qui dentro sta codificando quel che fra 15-20 anni sara’ il corso di scrittura e lettura istituzionale nelle universita’ italiane, sta letteralmente mettendo al mondo qualcosa che oggi non c’e’, codificato. Seguirli questo spazio e’ osservare la dinamica, il moto, lo spicchio di ragione che non guarda indietro ma avanti.

  71. acabarra59 Says:

    “ 9 febbraio 1986 – Il meraviglioso è lo stupore con ammirazione, diceva Moravia in tv. Ecco: da vent’anni io stupisco senza ammirare. “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 157

  72. Maria Luisa Mozzi Says:

    Acabarra59, leggo volentieri i suoi brani di diario. Una volta le ho anche scritto che sono il basso continuo delle conversazioni di Vibrisse. Però non mi stupisce affatto che lei abbia scritto per quarant’anni un diario. Mi sembra una situazione abbastanza frequente. Ho anch’io una pila di quaderni con vent’anni della mia storia scritta dentro. Mi stupisce invece che lei trovi sempre un vocabolo-ponte, tanto che mi è venuto da pensare che da quarant’anni si parli sempre degli stessi argomenti, cosa, mi pare, assai triste. Posso dirle anche che mi affatica di solito il fatto di interrompere la lettura degli interventi, che convergono su un tema definito, per leggere le sue parole, ma questo affaticamento, questa specie di straniamento, mi crea anche godimento. Alcuni suoi brani, infine, mi sono parsi belli, perchè non mi lasciano capire dove finisca l’ironia e cominci la serietà.

  73. Il fu GiusCo Says:

    Mi gioco un panettone che acabarra59 è Leonardo Colombati.

  74. acabarra59 Says:

    “ 1 luglio 1994 – « Domenica 30 dicembre 1934 – Siccome ho dimenticato di portare il quaderno, devo scrivere qui, su fogli sciolti. Finisce l’anno; quei maledetti cani abbaiano e io sono seduta nella mia casa nuova e sono nientemeno che le 3.10, e piove; e la mucca ha la sciatica e la portiamo a Lewes dove prenderemo il treno per Londra; dopo di che andremo a Charleston per il tè, reciteremo la commedia e pranzeremo lì. È stato il Natale più piovoso (dico azzardando) che si ricordi. Soltanto ieri sono riuscita a fare la mia passeggiata alla fattoria fantasma; ma voglia Iddio che passato il Natale la pioggia smetta di cadere e i cani di Miss Emery smettano di abbaiare. “ (Virginia Woolf, Diario di una scrittrice) » “ [*] [**]
    [*] Per il Il fu: hai perso un panettone.
    [**] La s-formazione dello scrittore / 158

  75. Giulio Mozzi Says:

    Ecco, per far troppo bene ho fatto un guaio. Ho corretto (come faccio spesso) due errori nell’intervento di Maria Luisa e ho cancellato il suo successivo intervento di autocorrezione. Per poi accorgermi che Acabarra giocava poi proprio sull’errore e e sull’autocorrezione (“abbaino / abbiano”).

  76. Perplessa (@Ivonne_Longhi) Says:

    Ma che le ha fatto Magris?

  77. Giulio Mozzi Says:

    Giuseppe (alias il fu GiusCo), scrivi:

    Mozzi stesso assieme ai suoi colleghi qui dentro sta codificando quel che fra 15-20 anni sara’ il corso di scrittura e lettura istituzionale nelle universita’ italiane, sta letteralmente mettendo al mondo qualcosa che oggi non c’e’, codificato.

    Ridico la cosa in un modo che mi va più a genio: a me piacerebbe che un certo tipo di formazione – la formazione in Teoria e tecnica della progettazione e redazione di testi narrativi, argomentativi, drammatici e poetici, o qualcosa del genere – facesse il salto dalla condizione di formazione “informale” a formazione “formale”. Salto bizzarro, devo dire, visto che tale formazione – sotto il nome di Retorica – è stata formalissima per secoli; e oggi viene invece respinta o con vecchi argomenti idealistici (“l’arte è intuizione”, quindi la tecnica non interessa) o con vecchissimi (e peggiori) argomenti romantici (“genio e sregolatezza”, quelle robe lì), o con meno vecchi (ma pessimi) argomenti beatnik (miti della spontaneità e cose simili), ecc., dove i secondi e terzi argomenti sono solo degradazione dei primi.

    Il guaio è che il disprezzo della formazione porta con sé anche il disprezzo della pedagogia. E questa è la perdita più grave.

  78. Giulio Mozzi Says:

    Ivonne: per chi è la domanda? A me Magris non ha fatto nulla di male, anzi. L’ho messo nell’esempio perché è noto come persona disponibile ecc.

  79. RobySan Says:

    Certo che uno vede una data in testa a ciascuna paginetta e dice: “questo è un diario”. Poi legge una paginetta e non è che ci trovi una puntuale descrizione di fatti personali (che so: “ho preso mezzo chilo di pomodori e li ho sbollentati per quattro minuti, poi li ho spellati”, oppure, “la carta igienica risultava introvabile e, nell’urgenza, ho dovuto sbrigarmela con due pagine del Giornale” o altre cronache minute). Allora si dice: “sembra un diario ma non lo è”. Che sarà mai? Una simulazione di diario? L’autore vuole convincerci di avere una intensa vita interiore? Non so. E’ più che un dilemma. Sicuro: chi chiami diario un diario meriterebbe di essere condannato a tenere un diario.

  80. acabarra59 Says:

    “ 21 luglio 1992 – C’è da dire che questo che scrivo è un diario sui generis. Nei diari della tradizione leggi la vita dell’autore. « Oggi ho comprato un libro », « Ieri sera sono stato a cena con… », etc. Io non scrivo niente di me se non considerazioni molto retrospettive. Il mio diario è molto reticente. E soprattutto molto ambiguo. Rimane l’idea originaria dei neretti che è un calcare su una parola che vuole essere « chiave ». Dato che ogni piccolo testo ambisce (o accetta) di essere fondamentalmente « ermetico ». (Questo diario è nato come esercizio di ascolto ed ha mantenuto questa caratteristica essenziale) “. [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 161

  81. acabarra59 Says:

    “ 9 marzo 1994 – Uno comincia un diario pensando che sarà un’esperienza come un’altra, un fatto transitorio, una parentesi. Ma l’esperienza non si conclude, il fatto si rivela tutt’altro che transitorio, la parentesi non si chiude. Condannato al diario perpetuo. “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 162

  82. RobySan Says:

    Precisazione: chi chiami diario un diario meriterebbe di essere condannato a tenere un diario, direbbe Wilde.

    P.S.: è, il diario perpetuo, l’alfa e l’omega del diario. Un diario archetipico e definitivo, a un tempo. Poi, non è più possibile aggiunger nulla di scritto. Resta in sottofondo quel fastidioso, ma tutto sommato innocuo, abbaiare dei cani di Miss Emery.

  83. manu Says:

    acabarra, la s-formazione dello scrittore / 161 è un’auto citazione, già apparsa in vibrisse (ma non so dove e quando). lo scrivo unicamente per segnalare, non certo per criticare.

    e poi.
    acabarra non è un tipo strano, nè uno matto che da quarant’anni scrive un diario. acabarra non esiste. vuole esistere come personaggio che parla attraverso un diario inventato perchè così vuole il suo ‘creatore’, autore a cui piace inventare personaggi che risultino credibili al pubblico.

    questo, penso.
    e ben venga

  84. acabarra59 Says:

    “ 4 febbraio 1991 – Il tempo non esiste. Esistono i calendari. “ [*] [**]
    [*] Purtroppo, cara – o caro? – Manu, acabarra, con il suo orribile elettronico nome, esiste davvero, povero lui.
    [**] La s-formazione dello scrittore / 163

  85. enrico ernst Says:

    Caro Giulio, ci sono tante pratiche che sono state “formalissime” per centinaia di anni, e poi hanno ceduto al “caos”… (come la poesia, con il verso libero). Per fortuna però, e inevitabilmente penso, i neoclassici hanno perso la loro partita. Siamo orfani dell’ “alto artigianato” e questa non è una condizione del tutto negativa.
    Ugualmente mi tocca, e mi sorprende, questo diffuso “neo-romanticismo” che serpeggia qui, e altrove: un ritorno in massa si direbbe a un’idea innatistica del Genio, all’imponderabilità e misteriosità dell’Arte. Manca, solo, la Mistica dell’Ispirazione, e poi ci siamo…
    Forse si tratta di un impressionante “ritorno del rimosso”. L’ombra dell’ampliarsi delle possibilità formative produce un’idea neo-aristocratica, o neo-mistica. Dà sicurezza pensare che “qualcuno sin dalla nascita sia portato” e qualcuno no. A volte, semplicemente non si vuole fare fatica, il talento è deciso altrove – e per sempre. Si tiri un bel sospiro di sollievo: quante responsabilità in meno…

  86. enrico ernst Says:

    Acabarra – mi pare – ha trovato un modo per ascoltare e non comunicare… per scrivere a partire da… ma senza parlare a… dunque: è furbo? è un artista? è un disadattato? è cechoviano? ci sarà qualcosa nella sua infanzia o adolescenza che gli ha fatto balenare alla mente la “coperta di Linus” del diario? comunicare è doloroso, infame, si fanno un sacco di sbagli, ci si espone al contraddittorio, l’altro ti può non comprendere, mangiare, attaccare, e tu stesso puoi non comprendere, mangiare, attaccare… eppure, il piccolo accabarra continua a stare alla tavola degli altri… ma come fare senza mettersi al loro gioco, mmh? senza provare il dolore delle parole altrui, che sono morsi? le loro ripulse… e senza arrischiare le proprie, di parole, magari piene di fiele, o di richieste d’aiuto (ancora peggio!)? ci deve pur essere un modo, no? in un attimo – non sarebbe bello un monologo? Da pazzo, sarebbe? Mi prenderanno per pazzo? Mi cacceranno? No, un monologo a partire dalle parole “del mercato”, del consesso sociale… quasi un “servizio” alle parole dell’altro… una sorta di parassitismo creativo, per esprimere quello che ho dentro, e che non saprei altrimenti – potrebbe funzionare?

  87. acabarra59 Says:

    “ Venerdì 18 settembre 1998 – « I modi narrativi vanno dal diario intimo al racconto, al monologo. Era il grande periodo della fortuna del monologo, da Charles Crois a Coquelin Cadet, con la loro galleria di seccatori, d’importuni, di chiacchieroni. Nel costante tentativo di far del diario un monologo, Henri viene seguito in quel che è, in quel che appare, in quel che vorrebbe essere. [… Henri] è lo stesso Jules Renard, e qualcuno è giunto ad affermare che L’écornifleur può essere definito il diario romanzato degli anni 1883-1888 di Renard, cioè dai suoi diciannove ai suoi ventisette anni. » (Giovanni Macchia, Lo scrittore come parassita, in «Il Corriere della Sera», 24 luglio 1974 [È la recensione all’edizione Adelphi de Lo scroccone (1892), traduzione di Anna Devoto, con una prefazione di Alfredo Giuliani]) (Macchia parla del « maniacale piacere di mentire » e dice che L’écornifleur nasce dal Baudelaire della « perte d’aurèole »: lo scrittore, che, sprofondato nel vuoto, « si aggrappa ai piccoli fatterelli della sua vita… ») “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 164

  88. enrico ernst Says:

    la vendetta dell’erudizione… un’altro velame alla cipolla…

  89. Ma.Ma. Says:

    …eppure qualcosa c’è di vero. Posso fare un paragone senza che i letterati si sentano insultati? Mi riferisco a quanto scritto da Enrico e, prima di lui, da Giulio. Nel giornalismo si distingue molto bene chi ha il “fuoco del giornalista” (come si chiama in gergo nel nostro ambiente la “dote innata”, il “talento”, l'”intuizione giusta”, senza andare a cercare paroloni esotici) e chi invece non ce l’ha. E di rado i laureati, quelli che sulla carta dovrebbero saperne di più, riescono a individuare la notizia giusta prima o meglio di chi ha semplicemente il “fuoco”. Si può imparare ad avere l’intuizione giusta? Non credo. In 15 anni non ho mai visto nessuno migliorare nell’intuizione, mentre ho visto giovani dotati a migliorare nella stesura degli articoli. Perché, chiaramente, sono d’accordo con il fatto che la tecnica è fondamentale per riuscire a trascrivere questa benedetta intuizione. E quelli che hanno l’orecchio musicale? Non hanno una dote? (io non ce l’ho per niente, a tal punto che non capisco nemmeno quando uno stona). Perché nella scrittura non può esistere “questa cosa”?
    A volte penso che a gridare che “l’uva è acerba” siano coloro che questa dote non sanno riconoscerla negli altri, perché loro stessi non ce l’hanno. E siccome, di solito, chi può permettersi di fare simili osservazioni sono solo i colti, o riconosciuti tali (come ad esempio i critici), vien da sé che i “semplici talentuosi” fanno sempre la figura degli sfigati che provano a giustificarsi al contrario.

  90. acabarra59 Says:

    “ Martedì 3 giugno 1997 – Ieri sera, vedendo la trasmissione di Michele Santoro dedicata al 2 giugno mi chiedevo: « Un diario intimo è un servizio pubblico? ». Evidentemente no. E poi, ascoltando il ministro Berlinguer che diceva agli studenti che « lo Stato è il superamento dell’egoismo » pensavo che un diario intimo non ha niente a che fare nemmeno con lo Stato, almeno con quello di una Repubblica che, se non si fonda esplicitamente, ci sono molte ragioni per pensare che sia stata fondata da un comico degli anni Trenta, Antonio De Curtis, in arte Totò. Perché, in generale, un diario intimo non fa ridere, e, se lo dessero in televisione, non lo guarderebbe nessuno. Perché in un diario intimo non c’è mai niente da vedere, per quanto uno si sforzi, e, in questo modo, addio audience. Un diario intimo non serve a nessuno, né a entrare in Europa, né a restarne fuori. E guai a chi non serve a nessuno, guai a chi resta fuori. (Per di più c’è il sospetto che il diario intimo sia un po’ un po’ privato, se non addirittura egoista, o addirittura egotista. Un po’ semipresidenziale, se non addirittura monarchico. Se non addirittura secessionista, con le inevitabili conseguenze penali e politiche. A continuare a scriverlo si rischia di finire in galera, dove del resto i diari intimi si scrivono spesso. E così s’imparano) “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 165

  91. enrico ernst Says:

    Ecco Ma.Ma. Con una battuta: i talenti esistono, alcuni avranno il fuoco altri non lo avranno, magari avranno però la costanza, la serietà, un bel “culo di piombo”, se non “l’intuizione”. Chi è “veloce” è più talentuoso di chi è più “lento”? Non è detto… magari sulla distanza…
    i talenti sono tanti, insospettabili, alcuni hanno “orecchio” altri meno (un amico musicista e insegnante di musica mi raccontava che nessuno è stonato, in realtà)…
    Però la formazione e l’educazione sia per tutti – per tutti. Un bambino che viene adottato dai lupi, impara a ululare e sentire il coniglio con il naso, non a scrivere, non a camminare eretto…
    E forse questo è ciò che mi preme. Dare il mio contributo alla espansione del “territorio” (delle “possibilità” si diceva un tempo) di ciascuno e di tutti; è nota la teoria delle previsioni che si autoavverano. Se tratto te come “talentuoso e genio” e un altro come “non talentuoso e grigio” rischierò seriamente di confermare e riconfermare delle proiezioni, una serie di aspettative. A rafforzare etichette. E – vedi – un docente (aggiungo: “di base”) io penso non sia chiamato a farlo.

  92. Ma.Ma. Says:

    A beh! Detta così mi piace molto. Concordo su tutto!

  93. acabarra59 Says:

    “ 19 dicembre 1985, Siena – « Il avait écrit une sì belle lettre, sì sincere, sì eloquente, que les larmes lui venaient aux yeux en l’écrivant. Quand il vit qu’elle n’avait servi à rien, il commença a douter de notre symphatie sur les coeurs qui n’en ont pas pour nous; au pouvoir de notre pensée et notre talent, sur les pensées et les talents qui ne rassemblent pas aux nôtres, il se la repetait cette lettre, il la trouvait si convainçante, si belle. » (Marcel Proust, Jean Santeuil) “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 166

  94. dm Says:

    Secondo me, quanto a talento e compagnia talentante, bisognerebbe assumere questa prospettiva, più sana e genuina: il talento non esiste; ci sono soltanto i blocchi le autolimitazioni le calcificazioni gli irrigidimenti le involuzioni le cancrene le paralisi gli avvelenamenti i freni inibitori le gabbie datate le antiche amputazioni immaginarie al talento. Cioè il talento è sì innato, ma riguarda tutti; e il fatto che alcuni non risentano di tutti questi freni che ho elencato, e che altri possano imparare a destituire di necessità psicofisica questi freni qui, non comporta che moltissime persone non avranno nella vita la fortuna o l’occasione di assistere alla manifestazione del proprio innato talento. Non so se da questa prospettiva la faccenda sia più deprimente o più entusiasmante.
    Chi sa.

  95. Ma.Ma. Says:

    Uhm, non è un po’ come dire che nasciamo tutti geneticamente uguali, poi uno diventa più alto mentre l’altro resta più basso (e via dicendo) solo per colpa di eventi esterni?

  96. dm Says:

    Ma.Ma, sembrerebbe che tu, per dimostrare che il talento è innato, stia facendo un’analogia tra il talento e una caratteristica corporea senz’altro innata. Come se io ti dicessi: ma la tua idea non è un po’ come un’idea totalmente sbagliata?…

  97. dm Says:

    (Ovviamente, in questo caso “il talento è innato” è da intendere in un modo non inclusivo.)

  98. Ma.Ma. Says:

    Ecco, secondo me è proprio così. Il Cervello è fisico. Le idee non cascano dal cielo. Alcuni adoperano maggiormente certe parti della mente, altri ne adoperano di altre e diverse, c’è chi è più pragmatico e chi più sognatore. Chi ha molta intuizione, chi non ne ha per niente. Chi memorizza e ripete senza creare. Chi non ricorda nulla, ma crea di continuo per riempire gli spazi mancanti. Chi impara velocemente e chi non ce la farà mai. Niente di mistico, niente di ascetico. Sta in questa la differenza: quando si parla di talento spesso lo si associa a un dono divino astratto, mentre per me è solo una caratteristica corporea alla quale gli scienziati non hanno ancora dato un nome scientifico (credo). Così come esistono ad esempio i dislessici, o i mancini… sempre di cervello parliamo. Mi sbaglio davvero tanto?

  99. Ma.Ma. Says:

    Per inciso: ho fatto parte per un anno di una corale (pure)… anche a me il maestro diceva che nessuno è stonato, ma alla fine ha dovuto ammettere che forse il canto non è nemmeno per tutti (in realtà nemmeno mi sarebbe piaciuto cantare, matrascinata da un’amica c’ho provato). Vorrei invece tantissimo sapere disegnare (fare fumetti). Sì, forse potrei imparare qualche tecnica (c’ho pure provato)… ma ho capito subito che non ho nessuna dote in merito. Se penso che Hugo Pratt sapeva disegnarre quello che voleva persino al contrario mi viene il mal di mare: il talento esiste e secondo me è innato in quanto si tratta di una predisposizione genetica.

  100. acabarra59 Says:

    “ 16 dicembre 1994 – « 22 settembre 1946 – La mia passione per i diari mi ha spinto a comprare il Journal di Ramuz. Ma mentre tagliavo le pagine, già me n’ero pentito. In fondo, tenere un diario interessante, significativo, non è alla portata di chiunque. Il talento dello scrittore non c’entra praticamente niente. Uno ha o non ha “ il bernoccolo “ del diario, così come ha o non ha quello della novella o del racconto fantastico. Julien Green, per esempio, è sempre interessante, anche quando annota particolari insignificanti. Egli è “ fatto “ per questo tipo di cose. Si intuisce la sua gioia nel passeggiare per le vie di Parigi, nel rivedere certi quadri del Louvre; o l’emozione con cui si ricorda di certi episodi dell’infanzia; soprattutto s’indovina il suo bisogno di salvare il tempo concreto, quei momenti irreversibili dei crepuscoli, delle ombre evanescenti cariche di rivelazioni. Gide anche mi affascina in tutto ciò che concerne il suo mestiere di scrittore. Anche le più vuote pagine del suo ultimo diario possono essere lette, sebbene non apportino niente di nuovo; una quantità di particolari banali e di osservazioni mediocri sembrano nobilitate dal semplice fatto di essere state registrate, di essere state “ scritte “. » (Mircea Eliade, Giornale) “. [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 167

  101. dm Says:

    Insinuo questo dubbio.
    Ci sono persone che scoprono il proprio talento a un’età anche avanzata. Ci sono cantanti che diventano tali dopo un evento traumatico (come per una terza muta vocale). Ci sono persone che imparano a dipingere tardissimo (ad esempio, esiste un metodo basato sulla composizione della figura a partire da un dettaglio, lasciando all’improvvisazione del momento le altre parti della figura, che serve per sviluppare una qualche facoltà di figurazione e di immaginazione incentrata sulla parte – o emisfero, come si diceva un tempo – del cervello in grado di lavorare sul dettaglio ma non sull’insieme dei dettagli, come invece normalmente fa chi disegna per professione o comunque bene. Questo metodo, che non ricordo ora come si chiami, serve proprio a scongelare, diciamo, delle potenzialità addormentate nella materia grigia da chissà quanto tempo). Ci sono musicisti, ballerini, danzatori della domenica e attori “nati” che improvvisamente scoprono di saper fare qualche cosa. E non lo scoprono dopo un training, o magari lo scoprono dopo un periodo di training ma non per via del training. È un’esperienza rimossa, nella nostra società, anche perché il luogo comune del carattere innato del talento, in senso non inclusivo, è dominante, e soprattutto è comodo psicologicamente visto che la rassegnazione è la cifra del nostro tempo (esagero, ma in sostanza è così).
    Ecco. Ti dico: se è possibile che il talento emerga dal nulla in una persona, come puoi essere certa che la possibilità del talento non risieda in tutti i corpi? Che poi questa tesi non è, negli effetti, lontanissima dal luogo comune che il talento è innato (in senso non inclusivo): in moltissimi casi l’emersione del talento chiederebbe un sacrificio troppo grande, in termini psicologici ed esperienziali, che di fatto, dico, risulta sicuramente negato.
    Scritto un po’ di fretta, non so se è chiaro.

  102. Ma.Ma. Says:

    No, no, si capisce benissimo, e in un certo senso la pensiamo allo stesso modo. In fondo la regola della rassegnazione forse vale per entrambi: sia per chi si dice talentuoso credendo di non aver bisogno di studiare, sia per chi crede che il “semplice” studio possa bastare e supplire il talento senza fare uno sforzo in più. Che non si riesca ancora a usare le potenzialità del nostro cervello in genere è così risaputo da sembrare preistoria. Ed ecco allora il mio pensiero conclusivo: il talentuoso non potrebbe essere un termine che definisca colui che ha quel qualcosa di già sbloccato, senza dover andare a raschiare sotto la superficie? Se ce l’hai senza dover faticare per trovarlo (come il classico orecchio musicale), beh, allora direi che sarebbe sprecato se tu non provassi a fare musica. E per correttezza ti dovrebbe venir riconosciuto. Poi che ci siano altri che magari un giorno riusciranno a scoprire il loro talento, ben venga per loro. Non mi sembra che una cosa danneggi o impedisca l’altra.

  103. dm Says:

    No, Ma.Ma, nel mio discorso lo studio proprio non c’entra. Cioè, la contrapposizione tra il talento-che-nasce-imparato e lo-sgobbone-che-studia-e-impara-la-materia è esattamente il luogo comune dal quale vorrei fuggire.
    L’opposizione Salieri-Mozart nell’ottica del senso comune non mi interessa. È solo uno stereotipo culturale che non dà profondità alle cose.
    Io vedo – detto in due parole – il talento come nascita o come resurrezione. Ecco.
    (Ma chiedo scusa per l’uso delle parole grosse. Ogni tanto mi faccio prendere la mano.)

  104. Ma.Ma. Says:

    Uhm… forte: ora ci penso 😀 (alla risurrezione). Mi scuso io che leggendo mentre lavoro, a volte mi sfuggono le sfumature.

  105. dm Says:

    Sì, capisco. Il lavoro è un emolliente.
    (Autorassicurazione di un fannullone.)

  106. acabarra59 Says:

    ” Giovedì 27 febbraio 1997 – Anche se è strano come quello che scrivo io, così strano da sembrare falso, così strano da sembrare inventato, un diario resta sempre un diario. E un diario è essenzialmente qualcosa che ha a che fare con la memoria, con la necessità di esercitare la memoria, con il timore di perdere la memoria, con la paura di perdere, smarrire, smarrirsi, e non potersi più trovare. Si perde qualcosa anche perché ce la portano via, ce la rubano, magari profittando della nostra disattenzione. La paura dei ladri è una nevrosi, è vero, ma è anche vero che i ladri ci sono e i derubati anche. Scrivere il diario non serve a niente di più che a constatare certe mancanze, come quelle denunce « contro ignoti » che nella maggior parte dei casi non hanno seguito. Sarebbe meglio non scriverlo e non pensarci più. Ma, quando non ci è restato niente se non quello scrivere, ci terrorizza l’idea di farci rubare anche quello. ” [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 169

  107. Giulio Mozzi Says:

    Daniele, scrivi:

    Ci sono persone che scoprono il proprio talento a un’età anche avanzata.

    Io non ho scritto nessun racconto decente prima dei 31 anni. Ma, soprattutto, prima dei 31 anni una volta sola avevo scritto un racconto: per gioco, ed era una sciocchezza orrenda di meno di due cartelle. E, per di più, la prima volta che a 31 anni scrissi un racconto, manco mi accorsi che era un racconto. Ecc.

    La cosa divertente è che per sette anni, tra i 22 e i 29, ero stato un professionista della scrittura (lavoravo in un ufficio stampa).

  108. enrico ernst Says:

    Hillman o Aristotele dicono che, comunque vada, il pulcino diventerà gallina, che la foto del piccolo Picasso fa vedere chiaramente che “quello scugnizzo” sarebbe diventato Picasso. Forse anche Giulio Mozzi infante mostrava negli occhi, in una sfumatura dell’iride, un futuro da scrittore… Possibile.
    Nessuno di noi è un laboratorio asettico, mi sa che non è possibile “prendere” Picasso e vedere se – con un’altra storia, anche minima, con altri incontri – non mi diventava Picasso. Ma un medico, o un piccolo farabutto analfabeta.
    Certo il “ragazzo selvaggio” adottato dalla leonessa non diventerà un pianista… geni o non geni, cervello o non cervello…
    Ieri a Rai3 in radio ho sentito parlare anche di “vocazione del territorio”: per l’uva, in Friuli. La vocazione dipende dalla composizione chimica del terreno. Diceva una cosa bella un viticoltore: “il territorio parla, se non lo ascolti, chiudi dopo poco”.
    Mi sono visto come un territorio. Mi sono chiesto se coltivare uva per vino rosso o per vino bianco. A valle o a monte.
    Mah. Mi sa che funziona per prova ed errore, come per Ma.Ma. corista… e allo stesso tempo, già, ci sono degli impedimenti: là, magari sotto la superficie (come dice dm, se ho capito bene)… chissà che non debba levare qualche lastra d’amianto… qualche profonda disistima e qualche dolore… oppure “trasformarli”. Di fare il vino, ho voglia… questo cambia…

  109. Ma.Ma. Says:

    Io conosco una persona che non ha mai letto nessun libro fino ai 21-23 anni (c’ha provato spesso, ma non è mai riuscita a finire nemmeno un Topolino). Appassionata di filosofia e psicologia (per quanto facesse la segretaria) si è pappata diversi (6 o 7?) libri in tema fino ai 28. Ma, fino a quell’età, non aveva ancora mai letto un romanzo e nemmeno un articolo di giornale (neanche quelli che parlavano di lei, dato che nel frattempo faceva parecchio sport agonistico ottenendo qualche risultato). In realtà non per pigrizia o perché non le piacesse farlo, bensì per “fatica” (oggi, ultra quarantenne ritiene che con molta probabilità sia sempre stata fortemente dislessia). Fuori dalla scuola non ha mai scritto un racconto (ma le è sempre piaciuto un sacco scrivere il proprio diario; in quel periodo prova persino a lanciarsi nell’inizio di un libro, un saggio-sentimentale, che poi abbandona). A 28 anni decide di provare a fare la giornalista. Quando il caporedattore di un giornale locale le chiede attraverso una mezza affermazione se lei, quindi, è ovviamente appassionata di lettura e si legge tutti i giornali (perché altrimenti non avrebbe senso), lei mente facendo un sorriso per confermare il suo: “ovviamente!”.
    Messa alla prova ci mette tre giorni a scrivere mezza pagina, terrorizzata, su un tema di cronaca banalissimo (l’apertura di un rifugio per animali). Ce la fa. Non ha mai letto un articolo di giornale per interno, ma riesce scriverne uno tanto da convincere un caporedattore a darle spazio. Consapevole delle sue lacune e insicurezze chiede a un collega un consiglio per migliorare nella scrittura e lui le risponde: “Continua a leggere: leggi tanti romanzi”. A quel punto prova ad affrontarne uno: “Maccaronì” di Macchiavelli e Guccini. Ci mette un sacco e poi passa al successivo e così via. Cerca di imparare tutto quello che riesce, e a un certo punto si rende conto che scrivere riportando semplicemente dei fatti è molto frustrante perché non ti permette di metterci qualcosa di tuo. In tre anni si legge 4 o 5 romanzi e per lei è già un grande successo, poi le capita tra le mani I promessi sposi e quando finisce di leggerlo, meravigliata di quel mondo parallelo, decide di provare a scrivere romanzi. Chiede a una collega (che lavora nel settore culturale e scrive racconti sebbene non riesca a trovare nessun editore che glieli pubblichi) e super-laureata con tesi in letteratura inglese su Shakespeare che cosa ne pensa e lei molto ironica le dice: “Comincia a farlo: non arriverai nemmeno alla fine”.
    La “forse dislessica” lo ha fatto e poi ne ha scritto un altro e… non si è più fermata. Ancora oggi continua a “studiare” leggendo gli altri più che per piacere per capire e… continua a scrivere.
    Il punto è che se non esistesse il talento, come minimo almeno in teoria, i suoi libri dovrebbero fare perlomeno schifo visto il backgraound, e invece anche se non ha raggiunto ancora il suo obiettivo, nel suo piccolo qualcuno apprezza.

  110. Giulio Mozzi Says:

    Ma.Ma., scrivi.

    …scrivere riportando semplicemente dei fatti è molto frustrante perché non ti permette di metterci qualcosa di tuo…

    A me pare che scrivere riportando semplicemente dei fatti sia una delle cose più belle; nonché una delle più difficili.

  111. Ma.Ma. Says:

    In un giornale di cronaca locale? Non so. Se lo si potesse fare scrivendo anche il proprio pensiero almeno un po’ (ma questo non lo fa il giornalista bensì l’opinionista: cioè il giornalista super-navigato che può permetterselo), potrebbe avere senso. E poi quando devi essere stringatissimo e la maggior parte delle cose che avresti da dire non ci stanno (e preciso non che puoi scriverle sintetizzandole, ma proprio devi toglierle perché lo spazio è ridotto quando un’apertura è di sole 2000 battute che in un approfondimento servono per l’incipit) secondo me può essere frustrante. Così come lo è ogni volta che devi stare attento a non lasciar trasparire il tuo pensiero né se sei d’accordo né se sei contrario e guai usare sinonimi un pizzichino ricercati: “Deve capirlo anche la signora Pina!”. O ancora quando vorresti scrivere che il mercato del tuo paese fa pena, ma sei costretto a farlo dire al politico di turno (perché tu non puoi esprimere un’opinione) il quale però ti dice che di fatto è il salotto d’incontro dei cittadini. Beh, io credo che farlo per tre anni di seguito forse diventa anche frustrante. Mentre in un settimanale d’approfondimento è già tutta un’altra cosa, ovviamente.

  112. acabarra59 Says:

    “ 9 dicembre 1987 – C’è sempre qualcosa di patetico, di scolastico, di penoso, di un po’ schifoso nel giornale, solo a saperlo leggere. Quel titolo che suona strano perché non si è potuto usare quella parola già usata nel titolo accanto, quel dire « nostro servizio » quando è evidente che è lo stesso che hanno anche gli altri giornali perché si tratta di un’agenzia, quel punto interrogativo, quel punto esclamativo interdetti anche dov’erano indispensabili, quelle firme, quelle siglette, quelle faccine. Mezzi di comunicazione di massa? Facciamo mezzucci. “ [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 170

  113. Nadia Bertolani Says:

    Se parliamo di età avanzata io batto tutti i record, per lo meno qui, perché ho cominciato a scrivere a 48 anni, ma, per favore, non indaghiamo sui risultati: sarebbe imbarazzante. (Eppure…)

  114. dm Says:

    (Mi è venuta in mente una cosa stamattina. Non so se può essere utile o interessante, ma la scrivo. A me piace considerare il talento – cioè l’agilità nel fare una determinata cosa – come una caratteristica del corpo, che sta in tutti i corpi, che è per tutti. Mi piace quindi considerare la rigidità – o l’assenza di un talento – come un blocco corporeo: una tensione strutturale che ci governa da quando abbiamo coscienza. Ma credo che in questa prospettiva il cosiddetto blocco corporeo non sia per nulla accessorio, credo anzi che il blocco corporeo rappresenti, nella quasi totalità dei casi, una struttura portante, come un pilastro o delle fondamenta su cui la persona acquista solidità. Il blocco corporeo è, secondo me, tra gli elementi indispensabili per l’equilibrio di un corpo di una persona… Perché il talento assoluto mi pare coincida con l’assoluta libertà, e la libertà del corpo – o della volontà in senso schopenhaueriano – è una forza distruttiva; va contenuta perché si preservi l’identità, o meglio l’io. Il talento assoluto è una spinta all’autodistruzione. E l’individuo legittimamente si trova e sedimenta inevitabili difese. Il blocco corporeo è questa cosa qua, cioè la possibilità di dire io.)

  115. acabarra59 Says:

    ” 2 giugno 1995 – Stamani il giornale diceva che con la carta straccia si diventa ricchi. Naturalmente si riferiva al riciclaggio di rifiuti cartacei gestito da singoli o organizzati esploratori dei cassonetti della nettezza urbana, ma il sospetto che si trattasse di un’allegra metafora – i giornalisti fanno soldi con la carta antonomasicamente straccia dei giornali – è più che un sospetto. Penso che il mio diario è tutto dentro questa « linea di pensiero ». Anch’io frugo, trovo, riciclo carta che, se non era straccia fin dall’inizio, sicuramente lo è diventata poi. Una specie di arte povera, alla Beuys, anzi pezzente, alla Scalfari. ” [*]
    [*] La s-formazione dello scrittore / 171

  116. Ma.Ma. Says:

    acabarra59 😀

  117. enrico ernst Says:

    mmm daniele (dm) dillo alla mia schiena che il “blocco corporeo” (la rigdità) è… la possibilità di dire io… a me pare piuttosto che tu ti stia avvicinando alla individuazione della pratica corporea (scioglimento delle tensioni) come pratica di scoperta delle potenzialità creative, e mi sembra un percorso interessante, fruttuoso… qualche arte orientale… sbaglio?

  118. dm Says:

    Enrico, nel mio passato c’è lo studio del canto (e quindi la liberazione del respiro e del fiato), c’è lo yoga e la meditazione, ma soprattutto c’è la scoperta della stretta relazione fra l’attività del corpo e le potenzialità della persona. Certo che poi, se considero il corpo, non penso solo ai muscoli, ai nervi, ai vasi sanguigni etc. Penso soprattutto al riflesso dell’inconscio sul corpo: al fatto che se è vero che siamo parlati dall’inconscio, allora il corpo è il prodotto di questo parlare. Cioè per praticità, e per puntare all’approssimazione astratta sempre per difetto, guardo al corpo piuttosto che all’inconscio. E interrogo anche le tensioni, sì. Perché il corpo è una macchina che tende sempre all’economia degli sforzi, e ogni tensione ha un suo scopo e un suo senso. Ma non credo che si possa liberare la creatività facendo ginnastica, ecco. Penso però che si possa guardare ai propri limiti abbracciando il corpo in questa comprensione. O che ci si debba rassegnare all’estraneità con il potenziale (anche creativo) che nei momenti migliori prova a comunicare con noi nei modi più strani.

  119. enrico ernst Says:

    quello che mi veniva da pensare, facendo eco alle tue riflessioni, è all’idealismo nostro: la pratica della scrittura come una pratica che non riguarda “il corpo”, alla fine nemmeno il “gesto grafico” (standardizzazione della tastiera). Ma solo la mente.
    I limiti, dici. E le potenzialità? Cosa succede se sciolgo dei blocchi fisici, o psicologici, e poi scrivo?
    Queste sono domande che ci stimolano a immaginare “nuove cose”… cioè dm, dài stimoli rivoluzionari, e poi ti nascondi nel carapace della teoria…
    Facciamo un esempio. Di recente mi hanno accompagnato a una messa cattolica. Quanti corpi.
    Assisti alla messa – a parte inginocchiarsi, alzarsi, incamminarsi, il corpo è lì che ascolta le parole del “latore della parola” – il corpo quasi non è interpellato –
    incredibile quando però si chiede di “dare un segno di pace”, e stringere la mano anche di perfetti sconosciuti… lì veramente si adombra qualcosa di nuovo…
    il canto è risultato solo una cosa un po’ floscia, poco convinta… le ugole mi parevano “strette”… ah altro che! lì può succedere qualcosa… e non accade…

  120. dm Says:

    (Credo di aver assistito alla liturgia cattolica tre o quattro volte, in vita mia, e in tutti i casi per via della morte di qualcuno. E l’impressione è stata che la presenza della massa di persone e di nervi muscoli vene secrezioni avesse un senso più immediato e profondo che le parole del prete.
    Ma si trattava appunto di funerali.
    Sul resto, mica mi nascondo. Cerco solo di non eccedere in questa cosa. Ma di mio, ad esempio, ho sperimentato come l’educazione della voce possa incidere e parecchio sulla voce scritta. Ma poi ciascuno è a modo proprio, non credo sia sensato fare di quest’esperienza una teoria…).

  121. Giulio Mozzi Says:

    Diciamo che la liturgia cattolica – alla quale partecipo regolarmente – è per lo più una tristezza. Corpi assenti o impacciati, formule biascicate, canti (spesso bruttissimi) strascicati, omelie trivialmente moralistiche.
    Capisco, Daniele, che quando ci si trova alla messa funebre – cioè difronte alla speranza dell’insperabile, al credere o non credere all’incredibile: la resurrezione dei corpi, “nervi muscoli vene secrezioni” – lì il corpo dei viventi, dei superstiti, è più presente.
    Il fatto, Enrico, che dare la mano a chi ti sta accanto tu lo racconti come un dare la mano “a uno sconosciuto”, la dice lunga. Nessuno è sconosciuto, nella liturgia, tutti sono uniti dal credere all’incredibile (che quel dischetto di cialda, che è veramente dura chiamare “pane”, è veramente il corpo di Gesù di Nazareth, persona vissuta un paio di millenni fa ecc.
    Quando si condivide la credenza in cose del genere, come si può essere “sconosciuti”? Si è piuttosto tutti parte di una società di folli…

  122. Giulio Mozzi Says:

    Enrico, scrivi:

    …Hillman o Aristotele dicono che, comunque vada, il pulcino diventerà gallina…

    Si vede che Hillman o Aristotele (o forse entrambi) avevano un vicino che non teneva cani.

    In quel comunque vada mi pare ci sia il puro e semplice rifiuto di prendere in considerazione le condizioni economiche, sociali, culturali, eccetera, nelle quali una persona nasce e vive.

  123. Il fu GiusCo Says:

    Tornando alla formalizzazione di questi insegnamenti, possibile non ci sia gia’ almeno un modulo con esame a scienze della comunicazione, al dams o a lettere moderne, corsi orientati alla pratica del mestiere?

  124. Giulio Mozzi Says:

    Magari c’è, caro fu. A me non risulta. (Intendi, immagino, un esame non di “scrittura creativa” ma di “insegnamento della scrittura creativa”).

  125. Benedetta Saglietti Says:

    Ogni volta che ripasso di qui, penso quanto il Mozzi abbia ragione. E che il n. 11 sia l’unico comandamento da seguire.

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