di Livio Romano
[Chi volesse proporsi per questa rubrica – che dovrebbe uscire il giovedì mattina presto, ma è già in ritardo di un giorno e mezzo – mi scriva, mettendo nell’oggetto il titolo della rubrica stessa. Ringrazio Livio per la disponibilità. gm]
Le signore che per la prima volta mi invitarono insistevano a volerlo chiamare ciclo di conferenze, ma in quell’epoca non mi sentivo all’altezza di intrattenere alcuno intorno a quella che anche per me restava una materia misteriosa, ambigua, tutta da imparare: la scrittura creativa. Non che oggigiorno, dopo anni e anni di corsi, seminari, laboratori, interventi, e davanti agli uditori più variegati, dai bambini della scuola materna all’associazione professori di italiano della Confederazione Elvetica; non che oggi, dicevo, mi sia facile dare una definizione di ciò che è scrivere in maniera creativa e di ciò che non lo è. Voglio dire, non è questo il punto. Ho continuato a chiamare così i miei incontri – di scrittura, appunto, creativa- perché questo si aspetta la gente, perché da una ventina di anni questa espressione connota una disciplina che aiuti coloro i quali abbiano la passione di scrivere, e più spesso anche l’ambizione di pubblicare, a migliorare la propria prosa narrativa. Ecco: prosa. Perché quando vengono a dirmi «scrivo poesie», li scoraggio subito. So nulla di poesia, io, tantomeno di come si aiuti qualcuno a scriverne. Ma negli ultimi tempi ho abbandonato quest’espressione sfocata e ho preso a chiamare i miei cicli di lezioni con il loro nome: corsi di narrazione. Tuttavia torniamo alle signore. Colte ex professoresse perlopiù di materie letterarie le quali, subito dopo la pubblicazione di un mio raccontino in un’antologia per l’Einaudi, con grandissimo entusiasmo mi chiesero di tenere queste conferenze che io mi battei fossero denominate «Percorsi di lettura con incursioni nella scrittura» così abbandonando il vicolo cieco della creatività. Fu un’esperienza faticosissima.
Avrei fatto meglio a metterle a scrivere per due ore e amen. Mi bacchettavano, mi correggevano, mi ricordavano che tal personaggio non è opera di Boccaccio bensì del plebeo Bandello, e io a difendermi facendo notare che un terzo novelliere, stavamo leggendo, nostro contemporaneo, il quale stava solo citando, maestro o epigono che fosse. Come ogni tanto racconto, ebbi presto modo di affrancarmi dal tiro incrociato delle letterate, io che provenivo da studi giuridici, nel momento in cui, a casa, lessi le loro produzioni scritte. A dispetto dell’erudizione, i raccontini che le signore mi consegnarono si rivelarono sciatti, banali, retorici, stracolmi di luoghi comuni. Iniziò la mia lunga fase eufemistica. Da lì in poi, per un buon lustro, presi a evidenziare le righe ben riuscite, a esultare per aggettivi azzeccati, a rintracciare, rigorosamente in nuce, possibilità brillanti per l’evoluzione della capacità affabulatoria di corsisti ed estensori di manoscritti. Perché, a fianco ai corsi, ho sempre letto una gran quantità di inediti. Qualcuno lo ha fatto per me, e gliene sarò grato a vita. Lo faccio anch’io, sperando di trovare perle (tre, per l’esattezza, in sedici anni: in seguito pubblicati e uno di loro anche tradotto in Francia). Fu lo scrittore Gaetano Cappelli ad ammonirmi. «Tu scrivi queste prefazioni e ti capisco perché è difficile sottrarsi, ma sappi che quei libretti a pagamento prima o poi finiscono nelle mani di qualcuno che vede bene quanto tu sia stato falso». Capii che dovevo smetterla, e per il bene degli aspiranti scrittori, di evitare i giudizi negativi. Nel frattempo avevo letto una grandissima quantità di manuali di scrittura creativa e imparato un mucchio di dritte che avrei potuto trasmettere agli allievi e giochini ché ci si divertisse un po’ durante i miei “corsi” (ho quasi sempre schivato le proposte di chiamarli “laboratori” perché nei laboratori non fai altro che scrivere, da solo, in gruppetti, tutti insieme riuniti, e spesso mi raccontano anche di questa specie di autocoscienza per cui ognuno esprime un parere sulle prosette dell’altro e si tira avanti così fino allo scadere delle due ore: ecco, io non ci riesco, mi pare di non meritare il compenso se non trasmetto agli iscritti una qual quantità di nozioni non dico di narratologia, ma almeno di tecniche efficaci su come gestire al meglio un plot, su come delineare un personaggio e via dicendo). Col passare degli anni, insomma, un format tipico di dieci incontri prendeva forma sempre più interessante.
Quel che maggiormente ho sempre privilegiato è la lettura di esempi. Arrivavo a lezione con buste di libri e, parlando, poni caso, di discorso libero indiretto, facevo notare come l’avessero affrontato tre o quattro scrittori, grandi o piccoli – mai fatto distinzione fra alta e bassa letteratura, sempre dichiarato che ogni narrazione ben congegnata ha diritto di cittadinanza durante le mie lezioni. Notavo che si divertivano moltissimo. Che raramente calava l’attenzione. Notavo anche che, sforzandomi moltissimo per evitare di citarmi addosso, quel che trovavano più affascinante erano i racconti di com’era nata una mia idea, di come s’era evoluta, come avesse preso forma e come fosse stata eventualmente modificata dagli editor. Tutt’oggi mi suona incredibile come la gran parte di coloro i quali si cimentano con la narrativa trovino così difficile scrivere dei dialoghi che siano credibili, veri, mimetici. Mi pareva l’ultimo dei problemi e invece chiunque usi leggere opere inedite nota che gli aspiranti narratori fanno parlare i personaggi in maniera del tutto artificiosa. O fanno loro pronunciare delle conferenze in stile aulico, oppure mettono loro in bocca un linguaggio da verbale dei Carabinieri, e comunque raramente riescono davvero a interrompere lo stile della narrazione, in prima o terza persona che sia, e continuano a instillarlo nella voce dei personaggi, di tutti i personaggi. È per questo che mi son fatto consigliare dalla mia amica sceneggiatrice. Ho inserito, all’interno dei dieci incontri, una massiccia dose di riflessione sul come si parla nella prosa narrativa. Sceneggiamo soggetti e ci esercitiamo sul botta e risposta. Vestiamo i panni di un interlocutore diversissimo da noi e proviamo a imitare il più possibile una lingua parlata viva e veritiera. Ci immedesimiamo, insomma. Che è un modo per scrivere, oltre che buoni dialoghi, anche buoni disastri, avventure, viaggi, amori, tradimenti e il resto delle umane occupazioni.
Quel che di più bello ho sentito dire agli allievi è che «abbiamo trascorso venti ore a sentir parlare argutamente di letteratura». Perché di questo si tratta, alla fine dei conti: di riflettere su come sono fatti dei romanzi ben riusciti. Quando poi, in pizzeria, scopri che la corsista più intimidita e restia a intervenire ha una laurea in lettere classiche e una in lettere straniere oltre che un dottorato in italianistica: tu che hai studiato trattati immani di diritto societario ma non hai ancora letto Musil, tu te ne torni a casa assai impensierito, riflettendo sulle moltissime sciocchezze che devi aver detto anche in quest’ultimo corso.
Tag: Gaetano Cappelli, Giovanni Boccaccio, Livio Romano, Matteo Bandello, Robert Musil
12 dicembre 2014 alle 17:40
Chissà quanti commenti”leggeri”Lei ha raccolto nel corso del suo insegnamento.Nascondo il mio fra questi:ho sempre creduto alle doti innate nello scrivere,poi ho scoperto che i grandi scrittori sono anche grandi lettori,quindi sicuramente c’è una formazione che si può ricevere(come Lei fa capire ai suoi allievi)ma rimane sempre quell’inspiegabile” genio” che sfugge a tutte le spiegazioni.
12 dicembre 2014 alle 17:44
Condivido al 100%. Perché anch’io – evoluzionista e refrattario a tutte le religioni, soprattutto se creazioniste – ho sempre evitato di parlare di “creatività” nell’insegnare Progettazione agli aspiranti architetti e designer, preferendo avviarli su dei «percorsi di lettura di edifici e oggetti, con incursioni nel progetto». Il quale in sede didattica considero non possa essere che “manieristico con variazioni”, insomma evolutivo e non creativo…
12 dicembre 2014 alle 18:37
In letteratura, così come in natura, nulla si crea e nulla si distrugge. Quella che chiamiamo creatività altro non è che capacità di gestire in forma scritta informazioni che abbiamo dentro di noi e che prendiamo dal mondo esterno, non c’è nessuna “creazione”, credo. Quando scrivi si legge tra le righe quello che hai letto e soprattutto quello che non hai letto, non puoi scrivere di cose che non ti hanno mai attraversato, a meno che tu non attinga alla fonte dove solo i geni attingono, ma quanti sono i geni? Quanto alla vanity press, vorrei non sentirne più parlare per il resto della mia vita. 🙂
13 dicembre 2014 alle 12:13
Un saluto a Livio, ringraziandolo di questo contributo. Le differenze di impostazioni e di sensibilità riguardo alla “materia” della scrittura creativa rendono questo territorio interessante e ancora pieno di sorprese e di interrogativi, di vie percorse e da percorrere.
Una criticità mi pare questa: se il corso corrisponde a un sentire parlare argutamente di letteratura («abbiamo trascorso venti ore a sentir parlare argutamente di letteratura»), non si rischia di proporre una conferenza “ampia” piuttosto che un “corso”?
“Sentir parlare” poi… non è un po’ troppo passivo per gli allievi?
Personalmente sono legato a una idea pedagogica che combina teoria e pratica.
A me pare che – se spiego l’indiretto libero per esempio – ma non lo faccio “usare” concretamente, una parte importante (se non decisiva) manca.
Lo constato quasi tutti i giorni. Perdonerai la banalità Livio e la sommarietà della “gnome” ma… chi non fa non impara. Si può insegnare a nuotare mostrando, all’asciutto, dei movimenti di braccia e gambe, e non provare a “buttare” l’allievo in acqua?
Sul genio, a Maria: che non diventi una scusa per abbandonare l’impegno formativo, in tuttti i campi, o peggio eleggere i “geni” e i “non geni”, quelli nati con il dono e quelli no, con storture evidenti, ripulse, giudizi affrettati, ingiustizie, stigmatizzazioni…
A Bettini: non ho ben capito perché proporre percorsi di lettura, con incursioni (cioè con esercitazioni, deduco io), non sia propriamente un metodo pedagogico creativo – con che non afferro pienamente il concetto di “evolutivo” (cioè non creativo). Il suo discorso mi pare interessante, forse può tornarci sopra, con qualche esempio, la ringrazio anticipatamente…
13 dicembre 2014 alle 15:25
Grande Livio. Corsi di narrazione, certo.
13 dicembre 2014 alle 15:37
un “corso di narrazione” potrebbe benissimo fare a meno della scrittura, in fondo
13 dicembre 2014 alle 18:57
Cari commentatori del caro Livio, avete tutti ragione, in un modo o nell’altro, ma più di tutti ha ragione Livio che parla per esperienza. Naturalmente non credo nella possibilità di “insegnare” la creatività. Ma credo nel piacere di capire e godere meglio, in maniera più approfondita, dell’altrui creatività… e forse a questo serve
realmente un “corso di scrittura creativa”. Inoltre, come si dice in francese, un corso di questo tipo serve a mettere du “beurre dans les épinards” di chi tiene il corso, cioè serve ad offrirgli un piccolo introito supplementare… magari in Italia si direbbe “aggiungere dell’olio d’oliva nell’insalata”. Così per Nabokov a New York.
Certo, quasi tutti i grandi, grandissimi scrittori hanno letto e riletto, magari anche coscientemente imitato per farsi la mano (vedi Proust e suoi meravigliosi “pastiches”.) Dopo di che, ognuno di questi grandi ha posato i libri e ha cercato i suoi temi, scavato nel suo passato o nel suo subconscio, osservato il mondo che lo circonda e costruito il suo stile. Stile indissociabile da tutto ciò che si è qui sopra elencato. È dalla fusione originale e personale tra fondo e
forma che nasce il capolavoro. “Et tout le reste est littérature”, secondo la formula provocatoria di Paul Verlaine che predicava la leggerezza. Cioè la vera letteratura è vera creazione, pertanto personale e inimitabile. In quanto tale non “insegnabile”.
Per agganciarmi al pensiero dell’architetto neoevoluzionista Paolo Bettini, vorrei citare il novantenne Charles Aznavour, poeta nel suo campo come creatore di canzoni popolari. In occasione del suo prossimo spettacolo che andrà in scena all’Arena di Ginevra domani 12 dicembre, Aznavour dice all’intervistatore che sì, riceve molte domande da giovani artisti, ma no, non dà mai consigli “perché darne a qualcuno che non mi assomiglia ? E se mi assomiglia, la cosa mi dà sui nervi, quindi non ne val la pena…” Non è un saggio questo intramontabile artista ?
E un ultimo pensierino dedicato proprio a Livio : la distanza tra critico e scrittore è e resta incolmabile e tutti i titoli di studio e / o dottorati del mondo non suppliscono la mancanza di una vera vena creatrice, fermo restando che un grande prosatore è da annoverare tra i grandi poeti. La scelta di un genere letterario piuttosto che un altro non è dovuta al caso ma ad una inclinazione profonda e spontanea; non dimentichiamo che un grande critico è ANCHE un grande scrittore in chiave diversa, soprattutto se non gioca all’erudito. (Il che, permettetemelo. è sovente una sciagurata mania italiana !)
13 dicembre 2014 alle 19:26
A enrico ernst: creare, creatore, creato, creatura, creatività sono parole inventate dalle religioni. Presuppongono che un Creatore abbia dato inizio a tutto dal NULLA. Ma questa “spiegazione” sposta solo il problema più a monte: il Creatore, chi l’ha creato? Nessuno l’ha creato, ci dicono i religiosi, esiste “da sempre”, è “eterno”.
Poi c’è la scienza che non ha bisogno di ipotizzare alcun Creatore oltremondano. Ci dice che è la MATERIA a essere eterna. E che tutto quel che c’è – compresi noi, la cultura, la morale, le leggi, la letteratura, l’architettura… – è il risultato di una serie di successive trasformazioni da qualcosa di preesistente. Trasformazioni con MUTAZIONI, alcune delle quali – riconosciute più utili, più valide, più efficaci, più sexy, più economiche… – vengono riprodotte più numerose di altre: questo viene chiamato EVOLUZIONE. Non si può creare nulla, al massimo si può far evolvere quel che c’è già.
Ne deriva una pedagogia mirante innanzitutto – fase uno – a far conoscere allo studente QUEL CHE ESISTE nel campo d’interesse specifico.
Per chi vuol imparate a scrivere si tratta ovviamente di leggere e interpretare con lui prose, poesie, lettere, etichette, slogan pubblicitari, testi teatrali, sceneggiature, testi di canzoni, bugiardini, ricette di cucina, curriculum vitae…
E poi – fase due – si tratta di fargli introdurre delle MUTAZIONI in quel che gli abbiamo appena fatto conoscere, facendolo esercitare
in scritture “alla maniera di”, contaminazioni di testi, pastiche, riscritture di prose in poesia e viceversa, fecondazioni incrociate (riscrivendo ad es una ricetta di cucina come se fosse un testo di legge, o un annuncio funebre; oppure una critica letteraria come se fosse il bugiardino di un farmaco).
Facendo esercizi di questo tipo alcuni studenti acquisiranno più agilità mentale (=capacità di introdurre mutazioni) di altri. Qualcuno forse diventerà scrittore, qualcuno scriverà body-copy e pay-off più intriganti, qualcuno scriverà dei commenti ai blog e delle mail più leggibili. D’altronde non tutti quelli cui insegniamo il calcio diventano dei Maradona…
13 dicembre 2014 alle 20:07
Il dialogo, l’aspetto cruciale della narrazione. Livio l’ha colto. Non avevo dubbi.
14 dicembre 2014 alle 08:26
Gabriella scrive tra le altre cose:
Io sbalordisco difronte a quel “naturalmente”. Ma, dico: davvero crediamo che le persone “creative” siano tali solo grazie al loro patrimonio genetico? O non le avrà educate qualcuno? O non ci avranno avuto dei genitori, dei maestri, dei fratelli maggiori, degli amici, dei vicini di casa? (Domanda alternativa: che cosa significano quelle virgolette attorno alla parola insegnare?).
14 dicembre 2014 alle 09:54
Sbalordisco anche io per questa idolatria della genetica.
14 dicembre 2014 alle 09:58
Chiedo scusa per il ritardo con cui intervengo per commentare: che ci crediate o meno ieri stavo per fare un incidente mortale, e mentre andavo a fare una Tac.
Argomento scivoloso, questo della creatività, davvero. Restando al raccontare, uno può essere un meraviglioso affabulatore orale, può esser capace di inventare intrecci ricchi di suspense e colpi di scena, personaggi straordinariamente icastici e dialoghi verosimili, finali memorabili e attacchi da prendere il lettore per la colletta e trascinarlo fino all’ultima parola. Quest’uno può aver letto tutti i classici di tutte le letterature mondiali e guardati duemila film d’autore e ascoltato la migliore musica e goduto dei quadri e delle sculture più belli. Ma poi si mette a scrivere e proprio inciampa, tentenna, non ha ritmo, non trova una lingua sua, una voce originale, oppure prende in prestito una delle tante che ha amato ma non è capace di tenerla a lungo, diciamo per almeno cento pagine. Al contrario, un altro può avere una cultura media, scolastica, aver fatto studi scientifici, o non averne fatti proprio, ma poi quando scrive una storia trova un passo, un incedere, una grazia che fanno di quella narrazione un pezzo di letteratura. Il secondo, poi, può non avere un grande intreccio per la testa ma solo un’immagine, uno spunto, un sentimento attorno al quale muoversi. Ed è su questi squarci di “insight” che di solito lavorano gli editor. Le possibilità son tante. Può anche darsi il coltissimo che abbia quest’illuminazione, e il mediamente istruito che invece abbia per la testa una storia memorabile, una fabula che non è capace di trasformare in plot efficace, seppur per costruire un racconto breve. La differenza sostanziale, sapete qual è Gabriella, Pasquale, Paolo, Maria? Nella CONSAPEVOLEZZA. Il discrimine sta tutto lì. Nel senso del ridicolo. Nel capire da sé quando si pensi d’aver fatto una roba buona e quando no. E questa consapevolezza, come dice Giulio, non può che venire dagli insegnamenti d’ogni genere che noi tutti abbiamo avuto nella vita.
Enrico, hai ragione. Concordo totalmente. Io di mestiere faccio il maestro di scuola, e ho sempre e solo insegnato inglese. E son sempre passato per matto perché non faccio scriver quasi nulla sui quaderni, odio le schede didattiche e tutto ciò che sia “strutturato” dal momento che entro in classe e trascino i bambini in un sabba (faticosissimo) di lingua parlata, adoperata per la comunicazione d’ogni giorno. Nei corsi di scrittura, come dicevo, faccio molto sperimentare le possibilità infinite di mettersi nei panni di qualcuno e provare a parlare come questi parlerebbe. Tu sai bene che in un corso-base gli argomenti son tantissimi. Lo scopo è di mostrare come il narrare non sia tutto e solo istinto e intuizione, quanta quota di sudorazione c’è, quanto labor limae, si diceva un tempo, quanta furbizia, per esempio, nel seminare metonimie. Se dovessimo far sperimentare ogni singolo argomento occorrerebbe un semestre di lezioni, dieci ore settimanali, e si può pensare di (vado a caso) far produrre racconti in prima, seconda, terza onnisciente, terza impropria, terza iper-realistica, oppure far loro scrivere discorsi diretti, liberi indiretti, narrativizzati, autodiegetici, eterodiegetici, flussi di coscienza e via dicendo. Tuttavia, importa davvero agli allievi di prodursi in un monologo interiore senza punti e senza virgole? Intendo: gli importa, se il suo scopo è dare ordine a un po’ di idee sì da scrivere belle fiabe per bambini? Non so, io quel che osservo è una sorta di sorpresa da parte degli allievi a vedere quanto mestiere vi sia dietro alle cose che abbiamo letto e amato. Una sorta di presa di consapevolezza che esistono vari modi per narrare la stessa storia, e che esiste in sostanze un numero estremamente modesto di storie raccontabili. Ecco, credimi, questo benedetto stream of consciousness che a noi, ad ogni lettore di Vibrisse, poni, può sembrare la summa delle banalità, ecco: io spesso noto che gente anche molto istruita non l’ha mai sentito nominare, e lo osserva con diffidenza. (Non rileggo, non siamo a un convivio fra filosofi del linguaggio, ma chiacchieriamo amenamente mentre fuori c’è il sole -qui nel Salento, almeno).
14 dicembre 2014 alle 10:11
“ Domenica 6 giugno 1999 – La prima cosa che vedo sulla prima spiaggia di quest’anno è una gentile signora o signorina che legge un libro. Leggo il titolo, anzi non è un titolo, è un nome: « Joyce ». Penso che, non so ancora perché, Joyce si addice alla spiaggia. Sarà un fatto di stream…« Stream of consciousness? » Stream basta e avanza. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 159
14 dicembre 2014 alle 11:23
Gabriella ciao. Anch’io parlo per esperienza, e poi… non si tratta di capire chi ha “più ragione” ma di dialogare, di “chiacchierare” come dice Livio. Del tuo intervento, mi ha colpito la pretesa di sapere come nasce un capolavoro. In confronto la piccola pretesa di un docente di scrittura creativa (“fare” consapevolezza, far sperimentare strumenti e dare stimoli di scrittura, leggere i testi degli allievi ed evidenziarne punti forti e deboli ecc.) è davvero umile e mondana, “al di qua” del guado.
a Paolo B. Non mi spingerei così lontano – cioè nella dimensione del dibattito creazionisti-evoluzionisti – per interrogarsi su metodi pedagogici e fenomeni (terrestri) simili. Eppure… facendo il docente mi pare di poter dire che – di tempo in tempo – devo essere attento alle modificazioni, ma anche allo sconvolgente “nuovo” portato dall’allievo (la sua specifica creatività, la sua “visione del mondo”). Perché se non si è come quel personaggio di Borges che riscrive con precisione millimetrica il Chisciotte, in realtà si è sempre originali e unici, anche quando si compone qualcosa di non particolarmente originale (perdoni il bisticcio).
Questa dimensione dello sconvolgente unico, da cogliere, è fondamentale perché io possa aprire le orecchie, e i sensi in genere, come docente. Perché io non divenga cinico – le confesso: ho incontrato insegnanti che schiacciavano il presente su un passato nostalgicamente rievocato: non evoluzionisti, ma sostenitori della “decadenza della specie”: gli allievi erano preventivamente “inferiori” rispetto ai grandi del passato; vede Paolo, io devo avvertire la “rottura” tra il passato e il presente dell’allievo, come qualcosa di straordinario, persino miracoloso, bello. (Col che ci tengo a dire ai miei allievi, per esempio, che per scrivere poesia, bisogna leggerne – e tanta…)
Chiedi Livio: “Tuttavia, importa davvero agli allievi di prodursi in un monologo interiore senza punti e senza virgole? Intendo: gli importa, se il suo scopo è dare ordine a un po’ di idee sì da scrivere belle fiabe per bambini?” Parliamo di un laboratorio (io preferisco alla dicitura “corso”) generalista per così dire. Il discorso non è facile. Cerco di essere breve. Hai ragione: i temi da affrontare sono mille e duecento… di solito, personalmente, non voglio “far tutto”, introdurre a tutto, proporre il “quadro completo”, nemmeno in un percorso annuale… sarebbe anche un po’ improbabile firmare un “contratto educativo” esaustivo. Per un laboratorio di 10/12 incontri, voglio fare assaggiare diversi piatti (un piatto ogni due incontri?). E devo dire che gli allievi, assaggiando, succede che cambino… ho incontrato allievi che “volevano” scrivere poesie (o fiabe), e quando ho fatto scrivere loro teatro, be’, hanno scoperto altri colori della loro tavolozza, si sono stupiti, si pensavano lirici e melanconici (idea anche stereotipata della poesia se si vuole) e si sono scoperti con insospettabile vis comica. Dunque, come docente, ho esercizi per far fare “flussi di coscienza”, dialoghi, fiabe, “petites” biografie… alla “centratura” su progetti singoli (vuoi fare un libro di fiabe? bene! lavoriamoci!) riservo laboratori “avanzati” in cui – anche – do per scontate alcune acquisizioni teoriche e intellettuali, e se parlo di “indiretto libero” tendenzialmente l’allievo sa di cosa parlo, e se non lo sa, bene, posso richiamerlo – in breve…
14 dicembre 2014 alle 11:33
Poscritto: non so se sei d’accordo Livio, ma nel campo della narrazione letteraria mi pare che 3 siano i punti base (non tanti di più: certo ciascuno piuttosto complesso): narratore; punti di vista; composizione.
14 dicembre 2014 alle 13:07
Paolo Bettini:
.
Certo che no. Si può discutere sulla esatta definizione di materia, ma qualunque definizione si voglia prendere (atomi, barioni, oppure fermioni) essa ha origine nel processo cosmologico iniziato col big bang (secondo le stime attuali 13,8 miliardi di anni fa).
14 dicembre 2014 alle 14:01
Se si “vola alto”…
Anche che le religioni “inventino” (creino? o le tovano già “pronte”? e dove?) le parole, ci andrei piano… dove, per esempio, creare deriva dal sanscrito “kr-” presente anche nel greco kraino, che vuol dire “faccio, realizzo”…
mi sa Paolo che attribuire questa “creazione (invenzione?) linguistica” a una parte dell’attività umana è un filo semplicistico… che invece non sia la lingua stessa e il suo meraviglioso strutturarsi, cambiare, metamorfizzarsi ad accogliere e trasformare le religioni? (Noi e le religioni, diciamolo con Heidegger, abitiamo nel linguaggio).
E d’altra parte, le religioni (ma anche: la politica, la letteratura, la comunicatività quotidiana ecc.) come fenomeni spirituali/creativi va da sé che prendono la lingua (che già “trovano” lì, nel mondo), la deformano, la modificano, la ri-creano per dare voce/luce a nuove, inconsuete esperienze, nel contesto aperto e continuamente in divenire di gesti che sono sempre di interazione e di gioco…
14 dicembre 2014 alle 14:34
Dimenticavo, oltre al dialogo l’aspetto ancor più cruciale in narrativa, e per diversi aspetti ad esso collegato, è avere accesso al personale inferno. Se madre natura te lo impedisce o se non hai il coraggio di esplorarlo a fondo, è meglio che levi mano.
Poi, per la carità, la scuola di scrittura ci vuole, per apprendere (o incuriosirsi a) gli items classici dei corsi e soprattutto per acquistare in consapevolezza. Senza i debiti maestri Mohamed Alì le avrebbe prese da chiunque, per dire. Eppure era un Dio nato.
14 dicembre 2014 alle 14:56
Chiedo venia a tutti se non ho argomentato i temi che ho soltanto accennato nei miei due commenti al post. Avrei da scriverci sopra pagine e pagine, ma purtroppo anche oggi domenica sono impegnato in altre cose (accidenti). Semplicemente non ho saputo resistere all’urgenza. Del che mi scuso ancora.
14 dicembre 2014 alle 15:44
Carlo ciao. Facciamo finta che ti chiamano e ti dicono: senta, abbiamo letto che pensa che il dialogo ecc. lei è uno scrittore – può venire a fare una lezione sul dialogo, o addirittura un ciclo di inconti su questo tema: come ti prepareresti? come e cosa “insegneresti”?
14 dicembre 2014 alle 16:27
Ciao Enrico, le domande che per gioco mi poni mi attizzano. E poichè intrigano richiedono il tempo e lo spazio dovuti. Riguardo al primo, non avendone adesso a sufficienza, e per rispetto nei tuoi confronti, non riesco a risponderti. Circa il secondo, che poi si ricollega al primo, l’argomento è così articolato da non rendere questa sede la più adatta. Ti sembrerà una bizzarria, ma scrivere oltre un certo numero di parole o concetti in queste scatole destinate al commento, mi fa venire la claustrofobia descrittiva. Certo, potrei andarmene a gloppare nelle praterie di una pagina Word e poi incollare, ma mi appare esagerato, ecco.
14 dicembre 2014 alle 17:52
Carlo, assolutamente d’accordo con te! Devo averlo scritto da qualche parte. Nessuna buona narrazione vien fuori se non si mette mano al personale inferno interiore. Che poi lo si sublimi in humour o fantascienza o canzonette non importa.
Enrico, sì se per “composizione” intendi manipolazione del plot. Sullo stile è arduo intervenire, dar dritte. Ci provo eh. Di solito dedico una lezione alle figure retoriche che rendono la prosa più accattivante, agli aggettivi, agli avverbi, alle trappole da evitare. Però lì si gioca tutto il gusto personale di chi scrive, non so se c’è insegnante che riesca a raddrizzare rami che si son formati storti.
14 dicembre 2014 alle 19:48
Livio, il discorso dell’inferno personale sono anni che lo vado predicando anche io, ma non so mai se sia ben afferrato. Il fatto è che ai pochissimi frequentatori della propria caienna viene talmente spontaneo discendervi da non accorgersene neppure. Dunque non ne parlano. O forse non lo fanno per pudore, o vattelapesca perchè tacciono.
In tutti i modi mi fa piacere che il concetto venga posto nella puntata dedicata a te. E non è un caso, spesso Il tuo io narrante è un anguilla che sfugge di mano e ti spiazza (cito alcune storie di Mistandivò). Credi di averla stretta nel pugno ma lei si gira e t’ha già fatto fesso. Leggetelo, Livio Romano, per cortesia.
PS circa lo scampato pericolo automobilistico: non farmi stare preoccupato.
15 dicembre 2014 alle 07:40
Non so che diavolo sia l’ “accesso al personale inferno”. Ma qualunque cosa si voglia indicare, o far venire in mente, con questa metafora – credo sia cosa che non rientra tra le insegnabili.
Insisto, ancora una volta su questa distinzione. C’è qualcosa che può essere oggetto di una didattica: ed è tutto ciò che possiamo catalogare come tecnica. Come si fa un buon dialogo? Eh, un buon dialogo si può fare così e così, oppure cosà e cosà (la tecnica non propone soluzioni uniche e esclusive; propone modi per trovare soluzioni). Questo si può insegnare.
E poi c’è tutto ciò che non può essere oggetto di una didattica (se non, forse, temo, per finta). Il che non significa che non sia trasmissibile. Ma una cosa è la lezione, una cosa è la relazione pedagogica.
15 dicembre 2014 alle 08:55
… e piuttosto: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (Calvino).
15 dicembre 2014 alle 09:08
“ 18 agosto 1987 – A scuola più di ogni altro sapevo stare fermo nel banco. In quel vero e proprio delirio d’immobilità c’era un piacere strano, speciale. “ [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 160
15 dicembre 2014 alle 15:52
Il personale inferno ce l’abbiamo tutti, tanto per gradire, ma non tutti ne sappiamo o vogliamo saperne. Penso, ad esempio, alle quote di omosessualità che sono proprie di chiunque, maschio o femmina, pur dichiaratamente eterosessuale. Però, vaglielo a dire a un bel mascolone o a una bonazza, e vedi che ti tirano appresso. Eppure quelle quote ce l’hanno, ma non l’ammetteranno mai. E mica è una colpa, chiariamoci bene.
Ora, sempre per restare nell’esempio, se vogliamo descrivere con la dovuta verosimiglianza una relazione tra due omosessuali e non sappiamo/vogliamo discendere in quelle regioni dell’Io in cui si annidano gli impulsi, quei desideri inconfessabili che la ragione respinge, come diavolo la rendiamo questa relazione omosessuale? prendendo spunto dalle rubriche dei giornaletti? ma è così difficile da capire e dunque da trasmettere? questo non vuol dire che, comunicando l’esistenza di questa prerogativa, tipica del vero artista, chi ascolta recepisca, sono meccanismi naturali. O li sai adoperare, anche a tua insaputa, o ciccia. L’importante, credo io, è che facciano parte di una lezione di un corso di scrittura. Insomma che l’allievo sappia. Punto.
Vengo per un secondo al dialogo. Livio Romano ha ben descritto lo stupore nell’essersi ritrovato a leggere i racconti di gente coltissima, a volte insegnanti o esperti letterari di degnissimo rilievo, e di aver rilevato che i dialoghi lasciavano molto a desiderare. Si vedeva subito, afferma, che le parole riproducevano la voce personale di chi aveva scritto, non la peculiarità che si esige da quel certo personaggio. Ora, è tanto sconveniente farlo osservare? E’ così arduo, da scoraggiare l’impresa, smuovere l’apatia emotiva dell’apprendista e spingerlo a fuoriuscire da se stesso? beh, io credo che questa roba qui debba far parte del buon insegnare tecnica di scrittura. Insieme a tanti trucchi, espedienti, furbizie o sa il diavolo quali altri, si capisce.
15 dicembre 2014 alle 17:24
“Il personale inferno ce l’abbiamo tutti, tanto per gradire, ma non tutti ne sappiamo o vogliamo saperne. Penso, ad esempio, alle quote di omosessualità che sono proprie di chiunque, maschio o femmina, pur dichiaratamente eterosessuale. Però, vaglielo a dire a un bel mascolone o a una bonazza, e vedi che ti tirano appresso. Eppure quelle quote ce l’hanno, ma non l’ammetteranno mai. E mica è una colpa, chiariamoci bene.”
Che è come dire che siccome siamo composti per la maggior parte di acqua, siamo degli acquari.
15 dicembre 2014 alle 17:37
Forse un’esperienza vissuta rende meglio le idee su esposte.
Nove anni fa, quando scrivevo, ero alle prese con un signore dalla doppia vita. Era un professore universitario, cui piaceva far notte al pub e, al rientro in casa alle prime luci dell’alba, mettersi a suonare il flauto traverso. Un bizzarro e innocuo individuo, peccato fosse un terrorista. Nella prima scena in cui appare nei suoi panni reali, si trova in uno squallido monolocale della periferia londinese. Parla con un compagno che si è stufato della clandestinità e della lotta armata, al quale hanno fatto la plastica facciale pe tragittarlo dall’Italia all’Inghilterra.
Voglio che sia una scena di solo o quasi dialogo.
Sì, un momento. Come posso trasformare sto caspito di professore in un freddo assassino dopo che gli ho fatto suonare il flauto traverso e raccontare barzellette al pub? scrivo, riscrivo, scrivo ancora, non sono convinto. E vabbene che questa è la sua vera natura ma qualcosa che lo ricolleghi alla sua figura di facciata ci deve essere, se no non funziona. Mentre ci penso, senza trovare una soluzione adatta, mi sale la pressione, non me ne importa. E’ uno sforzo che chiedo a nervi e arterie, e adesso sudo anche freddo. Niente, vado avanti, se no mi intossico serata e mattino successivo quando sarò al lavoro. Poi, va a capire perchè e per come, l’intuizione. Lo si può modellare solo se gli creo un minimo di contorno, non c’è altra uscita, almeno per me. Un sobborgo londinese, questo lo sapevo, tipo anni 70 (a Londra ci ho lavorato e conosco bene le ambientazioni del tempo). Insomma almeno un tocco che renda verosimile l’enviroment e così forzi “l’altro da me” a entrare nella scena e impadronirsi del personaggio. E’ qui che affiora il birrificio, una triste fabbrica dai mattoni rossi e sbeccati, visibile dall’unica finestra, da cui giunge il puzzo dolciastro del mosto in fermentazione. La scena si muove, mi convince. Il compagno del professore protesta, si agita, si lamenta per i postumi dell’operazione al viso. Allora il professore scatta, lo prende per il bavero e lo issa contro il muro. Gli sussurra cose infami, minaccia di strozzarlo ma poi lo rimette in terra. A questo punto il dialogo scivola spedito e congruente, il professore alterna parole dure con lo stesso sorrisetto da impunito che gli ho visto fare quando era al pub.
Finito, più di così non riesco. Termino di scrivere e mi sento male, mi viene il capogiro e sto per vomitare. Così non mi era mai successo. Chiudo gli occhi e penso al buio, grazie a Dio pian piano mi ripendo. E rileggo. Sullo schermo scorrono le parole di un farabbutto che non mi appartiene.
15 dicembre 2014 alle 17:45
Leggo solo adesso il commento di Andrea D’Onofrio, che mi cita: “Che è come dire che siccome siamo composti per la maggior parte di acqua, siamo degli acquari.”
Andrè, lo dico simpaticamente e senza polemica: lascia sta’, pensa alla cultura.
15 dicembre 2014 alle 17:56
ec: farabutto.
15 dicembre 2014 alle 18:17
“ Giovedì 17 settembre 2009 – « Del tempo farabuttescamente fluente ». « Ma non era “ travettescamente »? Magari è la stessa cosa, chissà… [*]
[*] La s-formazione dello scrittore / 168
15 dicembre 2014 alle 18:45
a Pensieri Oziosi faccio notare che il Big Bang non è l’inizio della “materia”, come pensa lui (e come sperava Pio XII nel 1951, identificando il Big Bang con la Creazione divina), ma solo l’esplosione – la trasformazione – d’una “materia” preesistente…
16 dicembre 2014 alle 07:27
Carlo, guarda che l’amore omosessuale non è inconfessabile.
16 dicembre 2014 alle 07:35
Paolo, P. O. è una lei (tu non potevi saperlo). Ma: secondo l’ipotesi del Grande botto, ciò che c’era prima del Grande botto, che cosa si ipotizza che fosse? Qualcosa di corrispondente alla definizione di “materia” che adoperiamo per la “materia” attualmente conosciuta? Il Grande botto non è forse una singolarità?
16 dicembre 2014 alle 09:33
Carlo abbi pazienza, simpaticamente o meno trovo senza senso affermazioni del tipo “Il personale inferno ce l’abbiamo tutti”.
Sulla strada dell’iperbole si può affermare tutto e il contrario di tutto.
Se, per usare le tue parole ci sono “..quote di omosessualità che sono proprie di chiunque” non per tutti sono un inferno.
Io avrò anche una quota di impulsi omicidi, ma questo non fa di me un assassino e non ho nessun inferno da affrontare.
16 dicembre 2014 alle 12:28
Scusate, in due parole, per sdrammatizzare quell’espressione forte, un po’ esagerata: intendevo dire -e credo pure Carlo- che 1. generalmente le persone che hanno avuto una vita travagliata, piene di drammi, o anche solo di drammi immaginari, frutto di una sensibilità sviluppatissima: son tendenzialmente più ricche interiormente rispetto a chi è cresciuto nella serenità più totale, si è poi realizzato come persona e vive un’esistenza di soddisfazioni (ricordo che la moglie di Giuseppe Caliceti diceva sempre, e concordo: “Tutto quelli che scrivono hanno qualche rotella fuori posto”), ergo: se son bravi pure a scrivere, potranno fare una narrativa più interessante; 2. si deve insegnare a rompere le barriere interiori, le autocensure, a dire: “Ok, vuoi raccontare [dico a caso] di tuo padre che ti violentava: sei sicuro/a che non ti faccia male? E se no, se pensi anzi che ti sia terapeutico, o se comunque lo vuoi mettere per iscritto, non sottacere, non glissare, sii spietato”. Son generalizzazione un po’ balorde, m rendono il senso di quel mio “inferno interiore”.
16 dicembre 2014 alle 12:55
Bettini, cambiando a sufficienza il significato di materia (o di eterno, se per questo) si riesce ad affermare di tutto naturalmente.
Quando si parla di materia, nelle scienze, la si più intendere in vari modi: forma di aggregazione di atomi e molecole, tutto ciò che è formato da barioni (particelle costituite da tre quark, come protoni e neutroni), oppure tutto ciò che è formato da particelle subatomiche che sottostanno al principio di esclusione di Pauli (fermioni). Quello che è importante notare è che in nessuno di questi casi la scienza considera come materia i fotoni (e quindi nemmeno la luce), né gli altri bosoni (particelle che non sottostanno al principio di esclusione) che mediano le forze fondamentali.
Anche senza scomodare il big-bang, a questo punto si può già dire che la materia non è eterna: dall’incontro tra un protone ed un positrone si ottengono soltanto fotoni. Allo stesso modo, dall’incontro dall’incontro tra materia ed anti-materia, una parte della materia si annichila, producendo fotoni nel processo (il resto della materia ed anti-materia schizza via e non ha quindi modo di annichilarsi).
Il caso sarebbe già chiuso qui, la materia non è eterna, si può annichilare, e cosa ancora più interessante, la si può creare con il processo opposto, noto in inglese come pair production o pair generation.
Ora, il big bang è interessante in questa discussione per due cose:
1. La prima è che non è detto che la materia si sia formata istantaneamente con il big-bang: attualmente si pensa che i protoni, ad esempio, si siano formati un microsecondo dopo il big bang.
2. La seconda è che dal punto di vista della fisica non ha senso parlare di “prima del big bang” – Stephen Hawking ha esposto bene questo principio nel suo libro di divulgazione “Dal big bang ai buchi neri: breve storia del tempo”. Il tempo, come grandezza fisica, inizia col Big Bang. Nulla è eterno, nemmeno il tempo.
Bettini, un’ultima cosa: non vorrei che tu pensassi che io abbia un’agenda filo-religiosa in quello che scrivo. Nulla di tutto ciò, anzi. Ma il fatto che io non sbandieri il mio ateismo (o il fatto di esser donna), non dovrebbe portare nessuno ad assumere che io sia religiosa (o che sia un “lui”).
16 dicembre 2014 alle 13:58
Solo due appunti, forse fuori tema:
…elettrone e positrone scontrandosi danno origine a due fotoni…
Il significato accreditato della ipotesi teorica del big-bang è nell’espansione e raffreddamento dell’universo. Il costrutto teorico stesso NON è in grado di dire nulla circa “l’istante iniziale” cioè sull’intervallo minore del “tempo di Planck” che decorre dall’inizio (e già il termine “inizio” appare grottescamente inadeguato). Figuriamoci cosa può dire sul “prima” (fuorché scontate e consolatorie ipotesi di “simmetria speculare”). Né può, tale costrutto teorico, dire alcunché sull’eternità, o non-eternità, di nulla.
P.S.: i libri divulgativi di Hawkings saranno pure affascinanti, ma io starei in guardia dalle “divulgazioni affascinanti”. Già ce ne sono in giro troppe (peraltro, ben adatte a Hollywood).
@Livio Romano:
“…le persone che hanno avuto una vita travagliata … son tendenzialmente più ricche interiormente rispetto a chi è cresciuto nella serenità più totale…”
E che diamine: non si può avere tutto dalla vita!
16 dicembre 2014 alle 14:06
Livio, concordo pienamente, sia per lo sprone a non sottacere e alla spietatezza verso se stessi, se davvero si vuol scrivere decentemente, sia riguardo la mancanza di qualche rotella in chi scrive (ma estenderei l’attributo a chiunque operi nel campo dell’arte).
Quanto alla faccende dell’inferno personale sì, concorderei anche su questo, anche essendo persuaso che poche righe su un sia pur ottimo sito letterario non possono essere esaustive, del che me ne scuso. E’ lo stesso problema sorto con Enrico Ernst quando mi chiedeva di esporre il programma di una ipotetica lezione, se non proprio di un corso, dedicato al dialogo. Non si può in questa sede, non si può perchè bisogna rifletterci a lungo, e almeno a me non riesce farlo su due piedi.
@ Andrea
“Io avrò anche una quota di impulsi omicidi, ma questo non fa di me un assassino e non ho nessun inferno da affrontare.”
Ma certamente. Il fatto è che se vuoi descrivere un assassino devi per forza accedere a quelle quote. E qui viene il duro. Crediamo che sia facile, ma poi carta su penna si manifestano i blocchi descritti da Livio. Ora, forzare quei blocchi non è impossibile, ma sta di fatto che nella mia esperienza di allievo di scuole di scrittura (7 anni: dal 98 al 2005) ho quasi sempre riscontrato, in moltissimi casi, una certa pigrizia mentale, se non proprio un rifiuto, a sbloccarsi in quel senso.
Vuoi una prova? io ieri sera, nel post dell’esempiuccio del professore, ho scritto a un certo punto che “prende il compagno per il bavero e lo issa contro il muro”. E cazzarola non è così! solo adesso sto ricordando che non solo lo prende eccetera ma servendosi di quel bavero gli schiaccia i pollici sulle cicatrici ancora fresche sotto il mento. Una crudeltà incisa e direi non banale. Eppure io che l’ho scritta avevo dimenticato di riportarla. Ecco il blocco.
16 dicembre 2014 alle 14:33
Livio, scrivi:
Ma devo osservare:
– la moglie di Giuseppe Caliceti è un’autorità? Sì, lo so, è pugliese come te: ma questo ne fa un’autorità?
– ciascuno parla secondo la propria esperienza, e bisogna pur considerare che la moglie di Giuseppe Caliceti ha esperienza di Giuseppe Caliceti.
– infine, è evidente che citi la moglie di Giuseppe Caliceti perché non vuoi dirci che cosa dice tua moglie.
😉
16 dicembre 2014 alle 15:28
Giusto, elettrone e positrone, ovviamente – inizialmente volevo parlare dell’annichilazione della coppia protone-antriprotone, ma il processo è reso più complicato dalla formazione intermedia di mesoni, e ho preferito ripiegare sul più semplice caso di elettrone e positrone; nell’edit il protone è sfuggito alle modifiche.
Nella attuale time-line del big bang, la fase di creazione dei protoni (l’epoca degli adroni) inizia a partire da circa un microsecondo, quindi dopo un intervallo che è qualcosa come 37 ordini di grandezza più grande del tempo di Plank, quindi non è che vi siano particolari problemi al riguardo.
Il punto dell’inizio del tempo è invece più serio. Come tutte le grandezze fisiche, il tempo viene definito sulla base delle operazioni necessarie a quantificarlo: o attraverso misura o attraverso calcolo a partire da altre grandezze fisiche. Nel caso direttamente osservabile, nel caso di due metodi di misura diversi si hanno, strettamente parlando, due grandezze fisiche diverse: esse possono venire unificate in un’unica grandezza fisica soltanto nel caso che si possa dimostrare, per via teorica o sperimentale, che le due definizioni operative sono equivalenti, cioè che vi sono situazioni in cui entrambi sono applicabili e che in tutte tali situazioni entrambi diano luogo allo stesso valore (vedi il caso storicamente interessante di massa gravitazionale e di massa inerziale). Ora, allo stato delle nostre conoscenze attuali non è possibile dare una definizione operativa di tempo che sia equivalente alla definizione standard (contare il numero di periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra i due livelli iperfini dello stato fondamentale del cesio 133) che si estenda prima del big bang – o anche che si estenda ad una scala inferiore al tempo di Planck, se per questo.
Per questo motivo date le nostre conoscenze attuali è possible definire il tempo in modo accettabile per la scienza soltanto a partire dal big bang. Parlare di “prima del big bang” è speculazione filosofica, non è scienza.
P.S. Hawking sarà criticabile per altri motivi, ma la fisica la conosce bene, ed è ben conscio che divulgare non significa travisare.
16 dicembre 2014 alle 15:30
Uh, tempo di Planck con il ck, ovviamente.
16 dicembre 2014 alle 17:20
Pensieri Oziosi, a modesto avviso non è possibile dare una definizione di tempo neppure al momento esatto del Big Bang, figuriamoci prima. Il Big Bang è un punto singolare, in esso le leggi della fisica non hanno alcuna validità. Tralascio di spiegare che cosa sia un punto singolare. Primo perchè è roba da Analisi Matematica, poi perchè non interesserebbe a nessuno. Però scrivi molto bene. Hai formazione scientifica? così per la curiosità.
16 dicembre 2014 alle 18:02
(La mia ex faceva ricerca attorno alla creatività nei bambini. In ambito psi. L’idea di partenza: la creatività è per i bambini una specie di autodifesa dall’ansia. Detto in una frase. E intendendo per creatività ciò che bene o male dice il senso comune, anche perché la definizione di creatività è a livello teorico uno scoglio temibile. Comunque. Se non ricordo male, i primi risultati sperimentali sembravano dare forza a questa idea di partenza. Poi boh, ci siamo persi di vista appunto. Ma l’idea della creatività come una strategia inconsapevole per aggirare uno stato ansioso – o trasformarlo -, che poi diventa meccanismo acquisito, mi sembrava e continua a sembrarmi una bella suggestione. Non so come considerare il fatto che la mia ex era una molto ansiosa. La scienza d’altra parte non tiene mai bene da conto i conflitti di interesse).
16 dicembre 2014 alle 19:07
@Livio, Carlo.
Capito, grazie per le risposte
16 dicembre 2014 alle 19:17
Scusate se mi intrometto, ma non resisto alla tentazione. Voi sapete, immagino, che ci sono sempre più voci (autorevoli) che contestano la teoria del big bang? Che non ha più molto senso citarla come verità assoluta (quella del grande botto) su cui disquisire del prima o dopo?
16 dicembre 2014 alle 21:10
@ Carla
La teoria del multiverso postula che le brane fluttuino in uno spazio a 11 dimenioni. Ogni brana rappresenta un universo a 4 dimensioni. Accidentalmente due brane collidono, e nel punto di contatto si origina un big bang da cui nasce un nuovo universo.
E però la teoria delle superstringhe, malgrado sia matematicamente perfetta e elegante, non è stata mai dimostrata sul piano sperimentale. Dubito che lo sarà mai, visto che la nostra percezione non va oltre le 4 dimensioni. Figurarsi 11.
16 dicembre 2014 alle 21:36
E volete mettere il fascino di una teoria indimostrabile che contempla Tutto!
17 dicembre 2014 alle 02:31
@ Carlo
ho scritto che vacilla la teoria del big bang, non che sia stata dimostrata quella delle dimensioni multiple (!) o delle bolle o delle superstringhe…
17 dicembre 2014 alle 16:06
Giulio, sì, vero. Chi mi sta intorno pensa, a ragione, che io sia uno totalmente fuori di testa (metterei quel ‘totalmente’ in corsivo se sapessi come si fa, e aggiungerei uno smiley di ‘risatona’).
18 dicembre 2014 alle 15:41
OT doveroso
Roby, per la prima volta sono entrato nel tuo sito, scusami se non l’ho fatto prima, e ho letto Quattro Sogni. Al principio mi sono detto: “uffa, la solita menata blogettara”. Poi, come accade con gli scrittori di razza, sono stato preso (mi capita raramente).
Favoloso.
Ma chi sei, come ti chiami, che fai, dove stai?
18 dicembre 2014 alle 15:44
se ti va di rispondere alle mie domande, puoi scrvermi qui: cfmail@libero.it
18 dicembre 2014 alle 16:12
Mo’ pure dello scrittore di razza mi piglio! O Carlo Capone: io ti ringrazio per l’apprezzamento, ma mi pare decisamente esagerato. Non sono uno scrittore. Sono un elettrotecnico (l’ho detto almeno cento volte). Vabbè, un elettrotecnico che ha letto qualcosa di più della media degli elettrotecnici, ma insomma… (agli scrittori veri che dici?)
18 dicembre 2014 alle 16:57
Beh Roby, io sono un ingegnere chimico, eppure ho scritto e direi anche pubblicato.
Mi chiedi cosa dico agli scrittori veri. Ah, guarda, se mi aggradano tutto il bene, ma se non mi piacciono non dico proprio nulla. Non sta scritto da nessuna parte che uno scrittore “vero” lo sia per davvero. Almeno per me.
18 dicembre 2014 alle 20:47
@ Carla e @Carlo: ancora si parla di “dimostrazione”?
18 dicembre 2014 alle 23:16
No no, Deborah, io ho parlato di riscontro sperimentale. La dimostrazione attiene a un qualcosa di teorico. Dimostrare il teorema di Rouche Capelli, per dire, è un conto, riscontrare sperimentalmente la validità della teoria della Relatività Generale di Einstein, come fece Eddington nel 1919, è un altro.
19 dicembre 2014 alle 05:37
Carlo, P. O. ha una formazione scientifica: io conservo con devozione – dopo anni – l’articoletto dove spiegava come si calcola la superficie di un neonato.
19 dicembre 2014 alle 13:42
Confermo.
Giulio, sono commossa ed onorata. Saranno passati solo dieci anni, ma sembrano una vita intera.
Tornando a bomba (ah!), nell’analisi reale che un punto rappresenti una singolarità per una funzione o no dipende essenzialmente dal comportamento della funzione in un intorno del punto e non dal valore della funzione nel punto stesso [1]. Questo perché al centro della definizione di singolarità vi è il concetto di limite e nella definizione di limite il valore della funzione nel punto limite viene esplicitamente escluso.
Allo stesso modo, ciò che è importante del modello del big bang, non è l’istante iniziale, ma quello che succede dopo, e se l’istante iniziale del big bang è una singolarità lo si deve alle caratteristiche del cosmo nei momenti successivi. E’ per questo che molto spesso il termine big bang non indica soltanto la singolarità iniziale ma il processo che viene dopo: quando si parla, ad esempio, di Big Bang nucleosynthesis, cioè della formazione dei nuclei atomici nel big bang, si parla di una fase che inizia una decina di secondi dopo l’istante iniziale e dura per una ventina di minuti.
A differenza dell’analisi matematica, però, non è possibile avvicinarsi a piacere alla singolarità. Il tempo di Planck rappresenta un limite al nostro concetto attuale di tempo e la nostra conoscenza di quello che succede nel primo picosecondo, un periodo che è 31 ordini di grandezza più grande del tempo di Planck ed include inflazione e bariogenesi, rimane al momento piuttosto speculativa fintantoché non avremo ulteriori dati empirici (vedi le attese per la presentazione delle misure provenienti dalla sonda Planck) o sperimentali (provenienti dagli acceleratori di particelle).
Ciò nonostante, il modello del big bang ha un forte potere esplicativo: spiega bene la radiazione di fondo nelle micro-onde, la legge di Hubble sull’espansione dell’universo, la ripartizione degli elementi leggeri nell’universo. La teoria delle stringhe, che dopo più di vent’anni non sembra essere in grado di uscire dal campo della pura speculazione, non si pone come alternativa al big bang. Se lo fosse, dovrebbe produrre predizioni che si discostino da quelle del big bang ed al momento non è in grado di farlo.
In effetti al momento nessun altro modello è in grado di spiegare meglio i fenomeni citati sopra, e pur ricordando che tutti i modelli sono sbagliati ma alcuni sono utili, la teoria del big bang gode di ottima salute.
P.S. “voci autorevoli” e “verità assolute” non fanno comunque parte del lessico delle scienze.
P.P.S. Mi spiace per Livio che i commenti a questo pezzo si siano indirizzati verso temi che poco hanno a che fare con la sua formazione.
[1] Le singolarità che dipendono soltanto dal valore di una funzione nel punto limite, o dalla sua mancanza di valore in tal punto, sono chiamate singolarità eliminabili ed hanno scarso interesse: l’esempio canonico è x↦sin(x)/x, che non è definita per x=0 (a causa della divisione per zero) ma il cui limite per x→0 è 1. La singolarità viene rimossa introducendo una nuova funzione f tale che
f(x) = sin(x)/x se x ≠ 0
f(x) = 1 se x=0
Questo trucchetto non è possibile negli altri casi: la singolarità all’origine della funzione segno (che restituisce il valore +1 se il suo argomento è positivo, -1 se è negativo e 0 se è nullo) non si può eliminare introducendo una nuova funzione con un diverso valore all’origine.
19 dicembre 2014 alle 14:02
Perfin meglio di Wikipedia!
19 dicembre 2014 alle 16:19
Giulio, scrivi: “Carlo, P. O. ha una formazione scientifica: io conservo con devozione – dopo anni – l’articoletto dove spiegava come si calcola la superficie di un neonato.”
A me, 42 anni fa, all’esame orale di Chimica Fisica chiesero di calcolare l’entropia di un cadavere. Impiegai oltre un’ora, in calcoli di termodinamica, e presi 28. Peccato che nessuno me l’abbia pubblicato 🙂
19 dicembre 2014 alle 16:22
Termodinamica dei processi chimici, per l’esattezza.
19 dicembre 2014 alle 16:42
Eh, va bene, non credevo di avere a che fare con tanti professori di Fisica Teorica, scatenando la discussione su cosa ci fosse prima del Big Bang (si, lo so: sempre che ci sia stato, sempre che prima ci fosse il tempo, altrimenti non avrebbe senso parlare di prima, ecc. ecc.). Qualcosa comunque doveva esserci: se no, cos’è esploso? Quel qualcosa lo chiamavo “materia”, fra virgolette. Mi è scappato di dire che la “materia” è eterna? E va bene, ritiro l’aggettivo, per nulla necessario al ragionamento che facevo, mirante unicamente a criticare l’uso stucchevole – sui giornali, nei libri, nei corsi di scrittura – del verbo “creare” e derivati, dando a intendere che sia possibile fare qualcosa DAL NULLA. E invece, come ognun sa, il pittore, l’architetto, lo scrittore, lo scienziato, il pubblicitario ecc. tutto quel che fa lo fa a partire DA QUALCOSA. Magari, se ne ha voglia e capacità, introduce qualche variante significativa. Vogliamo chiamare “creatività” questa attitudine a introdurre varianti? Facciamolo pure. Ma avendo ben chiaro che è un “creare” da qualcosa, non dal nulla. Tutto qui. E la didattica va di conseguenza.
19 dicembre 2014 alle 20:35
Sì, Paolo, non ci piove hai ragione. C’era QUALCOSA, prima di: un romanzo, una poesia, una drammaturgia (c’era: una lingua, un soggetto, una storia personale, c’era…). Ma cosa, c’era di: quella poesia, quel romanzo, quella drammaturgia, PRIMA? prima non lo si sapeva – o propriamente quel QUALCOSA – non c’era…
20 dicembre 2014 alle 08:27
leggo che vengono citati i commenti
@P.O, perché affannarsi in questa sede a difendere una teoria speculativa non universalmente accettata o demolirne altre speculative non universalmente accettate? Perché attaccarsi all’uso di parole –peraltro pertinenti, nel caso di dimostrazione e voci autorevoli in quanto voci di cosmologi, o cos’altro mi hai contestato- quando si parla tra non-scienziati o comunque persone che non hanno la stessa formazione? Cosa ce ne viene, da queste formule scritte sotto a un articolo che parla di scrittura creativa? Perplessità queste, più che domande.
chiedo davvero scusa per l’ennesimo OT (e prometto di chiuderla qua) : )
21 dicembre 2014 alle 08:31
Poco affanno, Carla. Vi sono però alcune ragioni importanti per le quali il tempo impiegato a scrivere qui è ben speso. Adesso però sono in partenza. Se ne riparlerà dopo Natale, forse con l’anno nuovo.