Iva e libri / Un incentivo all’imprenditorialità

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iva_iva

di giuliomozzi

Ricevo, come tanti, una comunicazione da Amazon nella quale leggo tra l’altro:

…a partire dal 1° gennaio 2015, l’Italia ha varato una nuova legge. L’Iva applicabile per gli ebook venduti in Italia dipenderà dal fatto che tale titolo disponga o meno di un codice Isbn. Tutti gli ebook con Isbn presenteranno una tariffa con Iva pari al 4%, mentre gli ebook senza Isbn verranno prezzati con Iva al 22%.

In altri termini: per il fisco italiano, un libro è “quella cosa che ha un codice Isbn”, così come una persona umana è “quella cosa che ha un codice fiscale che comincia con delle lettere”, eccetera. Quindi, se per caso avete – come ho fatto io – pubblicato qualcosa in Amazon senza prendervi la briga di costituirvi in casa editrice, non avrete la possibilità di andare incontro alla vostra potenziale clientela abbassando il prezzo dei vostri libri.

Leggo che c’è chi si indigna:

…Un provvedimento semplicemente scandaloso che dimostra la falsità ideologica della campagna promossa dall’Aie: come al solito la tanto sbandierata parificazione dell’Iva non era affatto una mossa per far decollare il settore o per favorire i lettori, era semplicemente uno spudorato favore politico agli editori.
Un aiuto di stato scandaloso…

Che ci fosse falsità ideologica nella campagna unlibroèunlibro, a me pareva evidente da subito; trovo peraltro un po’ ingenuo l’atteggiamento di chi si aspetta che una lobby faccia qualcosa di diverso dagli interessi propri.

Comunque, la cosa si può prendere diversamente. Autori, selfpublisher, volete l’Iva al quattro per cento? Dàtevi una mossa. Organizzàtevi. Aprite una partita Iva, costituite una casa editrice, associatevi, uscite dall’isolamento. Prendete questa differenza di trattamento tra “libri” (= “cose che hanno un Isbn”) e “non libri” (= “cose che non hanno un Isbn”) come un’occasione per crescere; e la diminuzione dell’Iva come un incentivo.

18 Risposte to “Iva e libri / Un incentivo all’imprenditorialità”

  1. Andrea Di Salvi Says:

    Condivido per quanto riguarda la campagna unilibro. Montanelli disse un giorno “dimmi chi ti paga e ti dirò quello che mi dirai”
    Per il resto condivido il suo suggerimento.
    Aggiungo che puoi registrare una tua pubblicazione con isbn.
    Forse ricordo male, non sono un selfpub., ma c’è la possibilità di farlo. Pagando. Chi interessato dovrebbe controllare.
    Mia ulteriore considerazione: si corre ai ripari che non sia mai che anche in Italia qualche “grande nome” decida di arrangiarsi da solo, forte del nome appunto, che sarebbe già una soluzione per il marketing.
    Negli USA già succede.
    Un saluto. Buon proseguimento. La leggo sempre con piacere.
    Andrea

  2. Luan Says:

    In Italia i guadagni degli scrittori self-published sono ancora talmente ridicoli che il danno economico di questa legge ammonterà solo a qualche spicciolo. Costituirsi in casa editrice costerebbe molto di più e aggiungerebbe danno al danno. Così parlò Luciustra,

  3. Yuri Zalaffi Says:

    È stato applicato all’editoria un principio già ben presente in ogni altro settore dell’imprenditoria italiana: la fine della libera concorrenza a favore del liberismo. Il liberismo agevola e premia chi già è forte.
    Indipendentemente dal colore politico, siamo governati da imprenditori che introducono normative esclusivamente a vantaggio dei propri interessi. Nell’editoria l’esempio lampante è Mondadori.
    Questi post sono ottimi spunti di riflessione.

  4. Giulio Mozzi Says:

    Lucio Angelini (Luan): non solo in Italia, ma anche negli Usa (dove tutto è cominciato prima, ecc.) i guadagni degli autori autopubblicati tendono a essere risibili. Vi sono alcuni, non molti, autori di genere che guadagnano decentemente. Ogni tanto c’è un “caso”, ma proprio ogni tanto.

    La logica del mio discorso è molto terra-terra. Sette autori che vanno ciascuno per conto proprio sono una cosa; sette autori che si associano e (magari) riescono perfino a fare un piccolo investimento, sono un’altra cosa.

    Bisogna uscire dalla sindrome del genio incompreso, del fasso-tuto-mi, ecc. ecc.

    Credo.

    Andrea: i costi dell’acquisto di qualche codice Isbn, possono essere assai contenuti (vedi). Il regolamento non mi pare impedisca a singoli privati di dotarsi di codice (vedi).

  5. catenomarco Says:

    Ma questo vale anche ISBN americani attribuiti da LULU o altri?

  6. Libri: IVA al 4% anche per le auto produzioni? | afnews.info Says:

    […] si tira su le maniche e ci si procura l’ISBN. In una nota in coda ai commenti di un suo post (click qui) il blogger letterario Giulio Mozzi segnala con due link ad hoc come si fa: “… i costi […]

  7. claudio Says:

    http://www.isbn.it/LISBN/ILCODICEISBN/COMERICHIEDERLO.aspx
    Magari mi sbaglio ma qui si parla di codici singoli per selfpublishing.

  8. Guido Sperandio Says:

    L’ipotesi di costituire un’entità imprenditoriale dotata di partita IVA e composta da più scrittori mi sembra molto rischiosa. Significa costituire qualcosa che darà pretesto al Fisco di accertamenti e presunti guadagni, non solo, significa entrare in una giungla di carte e burocrazie e oneri senza fine e imprevedibili.
    Piuttosto, si dovrebbe costituire un bel movimento di protesta, questo sì, contro la discriminazione. L’unione tra scrittori non dovrebbe avvenire seguendo e quindi in definitiva supini proprio alle direttive discriminatorie, ma denunciandole. Il Re è nudo!, lo si dica.

  9. Guido Sperandio Says:

    Aggiungo: il problema di un’entità di più scrittori pone problema non solo giuridici ma anche fiscali, gli imprenditori in altri campi lo sanno tanto bene che non a caso da anni se appena possono delocalizzano all’estero. Se sono al Nord gli basta andare poco più in là in Austria, Slovenia, Svizzera…

  10. Giulio Mozzi Says:

    Chissà come mai, Guido, in Italia ci sono cinque milioni e mezzo di partite Iva attive (più un tre milioni circa di inattive). Forse non è poi così complicato.

    I numeri si trovano facilmente in rete; per un’illustrazione chiara vedi questo articolo, però vecchio.

    E vedi, sul piano propositivo, il Progetto Santiago.

  11. Guido Sperandio Says:

    Giulio.
    È noto che è diffusa la pratica, tanto da essere oggetto di critiche accese. I dipendenti che dovrebbero lavorare assunti a tempo indeterminato, per necessità, per avere “quel” posto, adottano su indicazione del datore di lavoro, la partita IVA.
    Il datore evita “legalmente” i contributi e tutte le pastoie legali-fiscali e sindacali.
    I numeri ufficiali…. ci puoi giurare, gatta ci cova.

  12. Giulio Mozzi Says:

    Guido, la “partitivizzazione” di massa dei lavoratori parasubordinati è una conseguenza della riforma Fornero (che è del 2012). Quindi roba di oggi, ieri.

    Milioni di partite Iva ce n’erano anche prima.

    L’idea che se uno apre una partita iva – o costituisce a es. un’associazione, una cooperativa, una società con altri – ciò “darà pretesto al Fisco di accertamenti e presunti guadagni”, mi sembra (anche per esperienza personale) piuttosto bislacca. Così come non mi risulta (anche per esperienza personale) che aprire una partita Iva significhi “entrare in una giungla di carte e burocrazie e oneri senza fine e imprevedibili”.

  13. Guido Sperandio Says:

    Giulio, milioni di partite IVA c’erano anche prima, certo.
    Tant’è vero che anch’io c’ero, e ci sono stato per decenni, come copy-freelance. Ma perchè era un’attività remumerativa da cui dipendeva il mio pane e burro: la mia sopravvivenza.
    Producevo (sì, era fumo, lo ammetto, fumo edulcorato, ma serviva se non non mi avrebbero pagato) e fatturavo. Fornivo un servizio, integrato a commercio e industria. Ma non scrivevo libri, che scrivere libri, poesie, ecc. e pubblicarli è un’attività economica?
    Forse negli USA. Per quella decina di firme famose organizzate con squadre di ghost writer, semi-aziende.

    Idea “bislacca”, dici? Il Fisco tassa dovunque ci sia presunzione di una fonte di reddito, e qui dico: giustamente. Ora, di fronte a una veste giuridica che si presenta come attività, logicamente il Fisco non può non considerare che da quell’attività si traggano dei redditi, tanto più che si parte regolarmente dall’idea che le dichiarazione dei redditi non siano fedeli. (Presunzione del resto convalidata quotidianamente dai fatti.)

    La tua esperienza personale è evidentemente differente dalla mia. Dipende dai frangenti e situazioni, evidentemente personali. In ogni caso, al di là del personale, concludo che, se il gettito non ha una minima consistenza e io dubito che lo scrittore medio italiano possa contarci, a meno che non gli piaccia di illudersi di conseguirlo – aprire una partita IVA o configurare forme che in realtà hanno ragione d’essere in altri campi, sia come andare a sparare ai passeri con l’artiglieria.

  14. Giulio Mozzi Says:

    Guido, provo a mettere un po’ d’ordine.

    Ovviamente, se uno avvia un’attività economica, dovrà pagare le tasse sui profitti ed essere preciso negli adempimenti.

    Descrivere questi due obblighi in forma iperbolica mi sembra fuori luogo. Non è che perché apri una partita Iva ci hai i finanzieri in casa un giorno sì e uno no, e un giorno no e uno sì ti presumono redditi esagerati eccetera. Non è che sia particolarmente complicato tenere una contabilità, registrare le fatture, fare le dichiarazioni trimestrali eccetera.

    Giustamente tu parli di proporzione. Certo, se pubblico il mio romanzetto online e ne vendo tre copie, costruire attorno a quelle tre copie tutta una struttura d’impresa è sciocco.

    Ti invito a rileggere quello che ho scritto:

    Dàtevi una mossa. Organizzàtevi. Aprite una partita Iva, costituite una casa editrice, associatevi, uscite dall’isolamento.

    L’invito è a fare qualcosa di più che pubblicare il proprio romanzetto online per venderne tre copie. E questo qualcosa in più, magari, se ben pensato, può ampiamente giustificare un certo investimento, il tempo dedicato, l’ingegno spremuto, eccetera, e magari anche la partita iva.

    A me pare strano che ci siano, mettiamo, mille persone che si pubblicano da sé, e a nessuno viene in mente che una qualche forma di associazione può portare almeno delle convenienze.

    Amazon iniziò l’attività nel 1995. Il primo bilancio in attivo fu quello del 2003. A volte è utile pensare che i guadagni possono arrivare nel tempo.

  15. Guido Sperandio Says:

    Giulio, hai scritto un pezzo ineccepibile.
    Messa così la cosa, non posso obiettare niente. Non solo, ma anzi devo prendermi la libertà di farti pure un elogio, perchè così posta la questione, diventa anzi un generoso contributo.
    Tanto che per coerenza, direi di partire proprio dalla tua base e compiere un ulteriore passo. Occorre cioè, che le dieci, cento persone non si mettano insieme alla rinfusa, ma bensì in base ad una “filosofia” di gruppo da perseguire nel tempo con costanza. Perchè a questo punto è indispensabile costruire di pari passo un’immagine. Una “company image” 🙂
    A partire da un logo, studiato con attenzione, e ad una promessa.
    Il risultato a cui addivenire?
    Esempio: se dico Iperborea, dico scrittori scandinavi e finlandesi.
    Se dico Adelphi, evoco una certa nicchia. Se dico Sellerio… benchè questi ultimi due, stiano un po’ allargando le maglie. Sellerio, quando c’era Elvira era meglio.
    (Oddio, sarà magari una mia discutibile impressione).
    Riassumendo, sono d’accordo con te, e anzi aggiungo: il passo dopo, nel costituire un gruppo, va già previsto all’atto della costituzione, per non fare un gruppo “product oriented” ma bensì “marketing oriented”. Altrimenti, al giorno d’oggi, nasci e muori.
    Tralascio per ovvi motivi di spazio un altro passo da contemplare a priori, altrettanto decisivo, determinante: prevedere e pre-organizzare la DISTRIBUZIONE.

  16. Giulio Mozzi Says:

    Guido, scrivi:

    …dieci, cento persone…,

    ma io ho il sospetto che il numero ideale sia più basso: tre, quattro.

    Certamente, qualunque sia il loro numero, le persone devono riunirsi attorno a un progetto; a un’idea di letteratura; a una rappresentazione di un pubblico da raggiungere; eccetera.

    Personalmente apprezzo di più le iniziative “product oriented”: credo che sia più divertente inventarsi qualcosa e proporla, facendo scoprire al pubblico bisogni e interessi che non sapeva di avere; piuttosto che (è il “marketing oriented”) partire da un’indagine di mercato e offrire al pubblico ciò che vuole già. Sono due logiche diverse: la prima più rischiosa e più inventiva, la seconda meno rischiosa e più conservativa.

  17. Guido Sperandio Says:

    X Giulio.
    Penso che un sano equilibro tra product e marketing sia il meglio.
    È giustificatamente umano avere il piacere di condividere le proprie fatiche oltre gli ambiti più vicini. E il marketing oriented si può intendere in tanti modi, come ogni cosa. Non si deve pensare necessariamente al detersivo che ha soppiantato il sapone o alla Coca Cola che ha soppiantato la gazosa con miglior fortuna peraltro di quanto la gazosa stessa riscuoteva.
    Ma, tornando a bomba, al tema, iniziale, beh, sì, certo, la tua proposta – come l’hai mano a mano illustrata – ha una sua vitalità (validità) degna di attenzione.
    È un messaggio, se vogliamo, generoso: un’idea che offri “agli uomini di buona volontà”. [perchè lo siano “di buona volontà” :- )]

  18. #UnLibroèUnLibro, ma alcuni sono più libri di altri - Finzioni Says:

    […] ogni buon conto, l'invito è di stare in campana: alcune fonti (ed altre ancora), tra cui Wired, testimoniano infatti come a conti fatti non sia cambiato proprio nulla con […]

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