C’è molto di vivo ma non ha vita facile

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di Daniele Giglioli

[Questo articolo di Daniele Giglioli è apparso nel quotidiano il manifesto il 18 agosto scorso. E’ il primo di una serie di “panorami letterari”. Nel sito del manifesto trovate ancora on line – per qualche giorno – gli articoli dedicati a Usa, Messico, Giappone. Nel quotidiano in edicola oggi tocca al SudAfrica. gm].

[Una dura critica a questo articolo da parte di Gilda Policastro, qui in Nazione indiana. In calce all’articolo una lunga discussione. Vedi anche una risposta a Policastro di Gianni Biondillo.]

Le recenti e sgradevolissime polemiche sul premio Strega mi hanno convinto a stendere questo panorama della narrativa italiana contemporanea senza fare neanche un nome. Si potrebbero invocare moventi e precedenti più nobili, dalla storia dell’arte senza nomi ipotizzata da Wölflin a quella della letteratura «senza che nemmeno un nome sia pronunciato» sognata da Paul Valéry, invece di affannarsi a protestare contro l’insopportabile tendenza a ridurre il discorso sulla letteratura a un chiacchiericcio malevolo a base di tabelline, classifiche, chi vince e chi perde, i promossi e i bocciati, chi è amico di quello e nemico di quell’altro. E come sarebbe bello poter dire invece: chi se ne frega, la letteratura è un’altra cosa. Non è così, purtroppo. Quella chiacchiera, quella nube di maldicenza, quel voyeurismo senile, quella foia delatoria («poche chiacchiere, i nomi, fammi i nomi», manco fossimo in questura) non è fuori dalla letteratura. È’ la letteratura, la letteratura in quanto istituzione, habitus, ambiente di vita, se non vogliamo ridurla a una mera esperienza di fruizione individuale (la «poesia» crociana, magari), cosa che la letteratura non è mai stata nemmeno al bel tempo che fu – quello di Dante, di Molière, di Calvino.

Con quella bussola sempre più si orientano e decidono coloro che sono preposti a far sì che un’attività in apparenza così privata e solitaria – scrivere un libro, leggere un libro – diventi un fatto pubblico, un segmento di cultura condivisa: editoria, giornali, premi, agenti letterari. E naturalmente anche gli scrittori medesimi; che non vivono sulla luna e non mangiano ambrosia, ed è una fortuna che sia così; ma che sono esposti al rischio costante di far penetrare quella chiacchiera nei loro testi prima ancora che siano stati pubblicati, scritti e perfino concepiti.

Ma se fosse solo un problema loro, beh, potrebbero anche arrangiarsi. È invece un problema di tutti, e non solo in quanto lettori, ma in quanto cittadini immersi in quello stesso miasma degradato che è ormai il nostro spirito pubblico. Sottrarsi al ricatto dei nomi, non cedere alle tentazione di sfruttare un qualunque spazio pubblico (come questa pagina) per partecipare alla giostra del chi sale e chi scende, non significa mancare di rispetto agli scrittori. Significa invece salvaguardare ciò che di più prezioso hanno da offrirci: opere da mettere in comune, e non faccine da impaginare in formato minimo a corredo dell’ultima polemica inutile. Dunque, sottrarsi al ricatto del chi c’è e chi non c’è ha il senso di una scelta politica, compiuta a partire dall’ipotesi che la letteratura, proprio perché sta ben piantata in questo mondo, può contribuire a renderlo altro, mentre le tabelline e le classifiche lo lasciano tristemente com’è.

I conti con il mercato

A uno sguardo d’assieme, la narrativa italiana degli ultimi anni appare come un panorama piuttosto mosso e frastagliato. Il che è di per sé un sintomo di vitalità: scrivono in tanti, esordire non è difficile, continuare nemmeno, e un zoccolo duro di pubblico c’è. Forse non è il momento dei grandi autori, delle alternative drammatiche, delle poetiche l’un contro l’altra armata, e nemmeno di quella caratteristica peculiare della letteratura italiana che è il fatto di avere sempre avuto in ogni epoca alcuni astri riconosciuti da subito, con intorno un pulviscolo di minori. Non è detto che quel tempo ritorni, né qui né altrove, anche perché le condizioni di produzione e ricezione sono radicalmente mutate e per molti aspetti ancora interamente nuove. Solo da poche generazioni gli alfabetizzati superano gli analfabeti, e gli italofoni coloro che si esprimono in dialetto. Mentre la letteratura, rispetto all’epoca in cui era un veicolo di formazione privilegiata per le classi dirigenti, ha sicuramente mutato statuto: è divenuta un’esperienza che si affianca ma che non prevarica più sulle altre forme di comunicazione. È un rischio da correre: la democrazia non sarà il «proletariato dei geniali» di cui cianciavano i futuristi, ma nemmeno necessariamente il cimitero dei mediocri lamentato dagli apocalittici. Da quel che si può vedere in Italia, al momento è piuttosto un vasto terrain vague dove si possono compiere esperimenti a partire dal dato di fatto di essere in minoranza: minoritari e necessariamente minori. I capolavori lasciamoli per ora alle università e agli uffici stampa, e occupiamoci di ciò che è vivo.

Di vivo c’è molto, anche se non ha vita facile. Venute meno le altre mediazioni (critica, scuola, accademia), gli scrittori si trovano a fare i conti quasi solo col mercato, il che rende ovviamente difficile sperimentare, anche in forma coperta, e non iconoclasta come le avanguardie. Bisogna guardarsi le spalle, contrattare, negoziare metro per metro. La letteratura che non fa compromessi è stato il sogno del moderno. Un buon compromesso è stato trovato per esempio nei due filoni che trovano oggi migliore udienza presso editoria e pubblico. Da una parte la sperimentazione compiuta intorno alla letteratura cosiddetta «di genere»: giallo, noir, thriller, fantascienza, romanzo storico. Dall’altra la vasta e scontornata galassia della non-fiction: reportage, autobiografia, autofinzione, saggistica a dominante narrativa. Entrambi i filoni sembrano promettere al lettore un forte investimento realistico. Ma vediamo meglio. La letteratura di genere aspira a costituirsi come una sorta di controstoria segreta della società italiana contemporanea. I media mentono, gli scrittori «alti» non se ne curano; noi vi daremo invece un’immagine veritiera – sia pure sotto le spoglie della narrazione fantastica – dell’Italia di oggi. Le cose non sono come sembrano, e tutto quello che sapete è falso. Mitologia dominante: il grande vecchio, il maestro venerabile della storia e delle storie, la centrale di poteri occulti che sanno e fanno e possono ogni cosa. Il che è un perfetto pendant di quella sensazione di mancata presa sulla storia (anche sulla propria), di quel sentimento di essere più spettatori che attori in cui risiede il senso comune diffuso di una società postdemocratica. Se non possiamo nulla è perché da qualche parte c’è qualcuno che può tutto. Più che mettere in scena l’ennesima versione della teoria del complotto, questi romanzi intercettano un senso di impotenza, di impossibilità, di destituzione di responsabilità. Se i veri responsabili sono sempre altrove, noi al più possiamo essere complici, o blandamente colpevoli, in sostanza innocenti. Il realismo di questa letteratura consiste in sostanza in una negazione: non dell’esistenza della realtà, ma della nostra possibilità di farci qualche cosa di diverso da quello che ci tocca.

Diverso sembrerebbe essere il caso della non-fiction. Lì autore e lettore stipulano un patto che li impegna a considerare il testo come emesso da una voce reale, da una persona concreta che risponde con nome e cognome. Dica o meno la verità non ha importanza, l’importante è che dica Io, che ci metta la faccia. La regola aurea della non-fiction recita: io so, io ho visto, io ricordo, io penso, io c’ero. Le percezioni sono mie, mie sono le idee, gli eventi, le ragioni, i torti, le vittorie, le sconfitte, e perfino le invenzioni, le menzogne e le falsificazioni. Viste da vicino, però, le cose sono più complicate. Nella maggior parte di queste opere viene inscenato un rapporto con la realtà in cui il soggetto più parla di sé e più sembra farsi da parte a stilare il verbale della sua marginalità, della sua impotenza, della sua inesistenza. Più che una narrazione di azioni, si tratta di un catalogo di atti mancati, non compiuti o impossibili da compiere. Il mondo esiste, «grande e terribile» come lo pensavano le generazioni novecentesche; solo che io non so che farmene, e così lui di me. Sotto ogni «io c’ero» dello scrittore si nasconde in realtà un «però potevo anche essere altrove, o non esserci del tutto»; cui corrisponde, da parte del lettore, un «io invece non c’ero, e temo di non esserci neanche nella mia vita fuori da questo testo, il che comunque non importa granché».

Ma tracce cospicue di questo strano realismo all’insegna del non essere sarebbe facile trovarle anche in tanta altra letteratura che non rientra per nulla in questi due filoni: nei romanzi «ben fatti» come in quelli scritti all’insegna dello sperimentalismo più spinto. Da qui all’ipotesi che sia questo il tessuto connettivo, il sostrato ultimo della narrativa italiana contemporanea, non c’è che un passo. Si esita a compierlo, ma è in qualche modo obbligato. Dietro ogni forma letteraria c’è una forma di vita, e che sia questa la forma di vita in cui si trova ad agire, se non tutta, almeno quella fetta di popolazione che si interessa alla letteratura, è di un’evidenza da cavare gli occhi. Sarà sgradevole ma è vero, e chi afferma di viverne un’altra o mente o non sa cosa dice. È da lì, piaccia o meno, che prende le mosse la letteratura che vale, quella cui dobbiamo essere grati di dirci chi siamo.

I contenuti sono fin troppi

Può sembrar poco ma è molto, e lo è proprio perché non arretra di fronte a quel poco. All’ inizio del ‘900 Benedetto Croce scrisse che il carattere dominante della letteratura italiana sua contemporanea era quello di essere una «industria del nulla». A parte il fatto che sbagliava e che la sua diagnosi era accettabile solo a patto di essere rovesciata, è vero però che sembra passato il tempo in cui la letteratura (e non solo lei) puntava risolutamente sul rosso o sul nero: aut aut, o Cesare o nulla. Non è questa la forma di vita che ci è toccata, nemmeno nella variante del nulla. Non l’apocalissi o l’estinzione ma una lenta e perplessa navigazione intorno a una realtà che preme e esiste e è dappertutto (ma non per noi) è la curva di destino su cui i narratori sono chiamati oggi innestare le loro storie. Non è un compito facile: non si tratta più di saltare di là dello specchio, ma di dar conto del fatto che sia o no un velo di Maya o di Matrix la realtà in cui viviamo immersi; non per questo essa cessa di procurarci emozioni, desideri, paure, intensità affettive che non sono solo nostre ma che fluttuano allo stato gassoso intorno a noi e costituiscono il nostro comune, il medio in cui possiamo incontrarci e comunicare. E ad assolverlo non servono, almeno per ora, gli dèi e gli eroi della letteratura di un tempo, ma una moltitudine di voci che traggono la loro verità proprio dal fatto di essere voci minori, sempre in un certo senso anonime (ed è per questo che si stenta a considerare pertinente come metro di giudizio lo stile individuale, e si ha piuttosto l’impressione di assistere all’esecuzione molteplice di una scrittura collettiva, di un prelievo da un serbatoio di potenzialità condivise in cui l’identità conta più della differenza).

Non lamentiamo dunque, come fanno molti, la povertà dei contenuti: ce n’è fin troppi. Né la scarsa innovazione formale: è tutta quella che riusciamo a sopportare. Che a leggerla come un insieme la narrativa italiana generi anche un senso di impazienza e una nostalgia di radicalità è senz’altro vero. Di fronte a una letteratura che parla essenzialmente di «quello che resta», è facile sbottare: e tutto ciò che non rientra in questo resto dove diavolo è andato a finire? Ma una radicalità senza radici è il peggio che ci si possa augurare per chiunque. Non è detto che lo stato di cose presenti duri in eterno, e nemmeno per molto. Ma è certo che, qualora si trattasse nuovamente di puntare sul tutto e sul nulla, riusciranno a farlo soltanto coloro che sono stati fedeli a quel poco di vero che gli era stato assegnato: a loro come a tutti.

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11 Risposte to “C’è molto di vivo ma non ha vita facile”

  1. vbinaghi Says:

    Buono. Anche se affronta solo uno dei due corni del dilemma, cioè il “milieu” culturale in cui la letteratura nasce e si diffonde: è evidente che non si possono scrivere “grandi” romanzi se non ci sono “grandi” vite da raccontare, e allora via con il minimalismo (magari anche di lusso) o l’immaginazione storica della fiction. Però, e non vorrei sembrare monotono, sento la mancanza dell’altra questione fondamentale, quella dell’io narrante. Perchè non basta dipanare una trama per scrivere sul serio? Perchè Faletti o Moccia potranno pure stravendere fino alla fine del secolo ma nessuno che cerchi davvero la letteratura riesce ad andare oltre le prime trenta pagine? Che cosa ha veramente da offrire lo scrittore al lettore, in termini catartici?

  2. Enrico Macioci Says:

    Condivido la tesi dell’articolo, ovvero che oggi in Italia domini un diffuso senso d’impotenza. Non sono altrettanto sicuro però che la letteratura (sia nella forma della fiction che in quella della non-fiction) non si ribelli a tale situazione, invece. Accanto a opere “rassegnate”, ne leggo anche di “ispirate”. Forse quello che ci manca è un INFINITE JEST, un’opera che riedifichi il mondo partendo dal mondo stesso e dall’io, quindi mescolando fiction e non-fiction (il libro di Wallace mi pare anche una grandiosa analisi sociale del mondo americano-occidentale odierno, oltre che una spassosissima, straboccante storia d’invenzione). Forse il nostro INFINITE JEST non può che essere GOMORRA? Confesso però di non aver ancora letto I CANTI DEL CAOS, che da molte parti ho sentito descrivere come l’opera/mondo di cui lamento l’assenza.

  3. lucianopagano Says:

    “A uno sguardo d’assieme, la narrativa italiana degli ultimi anni appare come un panorama piuttosto mosso e frastagliato. Il che è di per sé un sintomo di vitalità: scrivono in tanti, esordire non è difficile, continuare nemmeno, e un zoccolo duro di pubblico c’è.”
    Ottimo il discorso teorico che affronta linee, tendenze; malgrado alcuni punti risultino punti di vista. La scrittura è un pluriverso per definizione, di conseguenza non può, forse, un’opera/mondo fare la differenza (@Macioci). Le periodiche ‘sistematizzazioni’ del discorso favoriscono l’aggregarsi di opinioni. Sto rileggendo, in questi giorni, il Tristam Shandy, di Sterne, lo porto come esempio di un’opera che a distanza di 250 anni è contemporanea, scritta ‘osando’, a volte di difficile comprensione. Bisognerebbe cercare di indagare un filone simile, di letteratura che intende squarciare il velame e attraversare i secoli, magari ponendosi in un’ottica centenaria? Altro esempio a caso, anno 1964, “Il male oscuro” di Berto, Rizzoli. Elenco a caso i testi pubblicati (45 anni fa) nei paraggi temporali del testo:

    L’Uomo che pareva un cavallo – R. A. Martinez
    Dietro la vasca – C. Audry
    La donna al punto – E. Bartolini
    Il colombo d’argento – A. Belyi
    La califfa – A. Bevilacqua
    La vita agra – L. Bianciardi
    L’artefice – J.L. Borges
    La scimmia sulla schiena – W. Burroughs
    Berlin Alexanderplatz – A. Doblin
    Vanagloria – R. Firbank
    Il papa – G. Saviane

    diciamo che a essere spietati ci sono una manciata di titoli che lo ‘zoccolo duro’ non ha mancato di leggere. Forse la vicinanza al periodo impedisce, guardando le cose troppo da vicino, di stabilire con esattezza l’entità degli oggetti osservati.
    L’impressione che ho leggendo le critiche (positive, negative e così così, Pent, Barilli etc.) dei romanzi pubblicati di recente dai nati negli anni ottanta è che siano ironici, a volte troppo, sarcastici, a volte troppo etc. etc. Proprio Pent, a proposito dell’ultimo di Archetti, chiedeva una prova, un passo adulto, un romanzo quasi che ciò debba essere imposto dall’editore…boh

  4. lucianopagano Says:

    aggiungo la virgola mancante “un romanzo, quasi che ciò debba essere imposto dall’editore…boh”

  5. vibrisse Says:

    Enrico, chiedi un Infinite jest. Io direi che, ad esempio, un Quinto Evangelio (di Marco Pomilio) sia un libro tranquillamente paragonabile. E in tempi recenti credo che Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei sia un libro tranquillamente paragonabile.
    Mi ricordo ancora – non dimenticherò mai – quando un recensore tra i più stimati, al termine di una conversazione nella quale aveva molto lodato appunto Infinite jest, mi comunicò di non avere intenzione di leggere Il suicidio di Angela B. in quanto… troppo lungo.
    Naturalmente Infinite jest è lungo circa cinque volte Il suicidio di Angela B..
    A volte certi libri non vengono letti per curiose ragioni.

    gm

  6. Enrico Macioci Says:

    Giulio, leggerò i due libri che hai citato. Ti ringrazio per le dritte. Ultimamente oscillo fra libri lunghi-lunghissimi e raccolte di racconti brevi (Hemingway, Flannery O’Connor). In effetti, tirarsi indietro per la lunghezza di un libro non è esattamente un colpo di genio.
    @pagano
    Sì, direi che è giusto che la letteratura osi. Non mi ricordo chi diceva che artista è colui il quale convive perennemente col rischio del fallimento. Trovo anch’io, poi, che la critica italiana attuale denoti un tasso di acidità eccessivo, e che dietro ironia o disincanto si nasconda alle volte l’incapacità d’una analisi seria del tempo – letterario e umano – che viviamo.

  7. Mauro Pianesi Says:

    Articolo molto interessante. Le osservazioni di Giglioli mi trovano “in linea”, anche volendo fare riferimenti e analogie fra la letteratura e la società italiana. Ecco la gran voga editoriale e commerciale dei gialli-noir-thriller ecc. in cui “i veri responsabili sono sempre altrove” e che confermano i nostri alibi a non fare verso il cambiamento. “Mancata presa sulla storia (anche sulla propria) … sentimento di essere più spettatori che attori” molto postdemocratico, secondo Giglioli, ma sarebbe istruttivo fare paralleli con le altre letterature e le società che le esprimono. Tesi confermata dall’analisi della non-fiction, in cui “il soggetto più parla di sé e più sembra farsi da parte a stilare il verbale della sua marginalità, della sua impotenza, della sua inesistenza”. Belle anche le note sull’anonimia: “si stenta a considerare pertinente come metro di giudizio lo stile individuale, e si ha piuttosto l’impressione di assistere all’esecuzione molteplice di una scrittura collettiva [c’entra qualcosa il boom dei siti dedicati a questa disciplina, S.I.C. eccetera?], di un prelievo da un serbatoio di potenzialità condivise in cui l’identità conta più della differenza”. Allora:
    Una scrittura fortemente influenzata dalla cultura televisiva?
    Una scrittura in buona parte impotente e “guardona”?
    Un’overdose di contenuti tacciata del suo contrario, e viceversa?

  8. Enrico Macioci Says:

    @pianesi
    Io credo che il rischio che la cultura televisiva influenzi la scrittura, appiattendola, banalizzandola, devitalizzandola, esista e sia serissimo. George Steiner definisce stampa e tv come “galleria del vento dei pettegolezzi”, entro cui anche la scrittura molto valida rischia di smarrirsi, di non venire riconosciuta quando si materializza. Non voglio essere apocalittico, ma ho anch’io questa sensazione di scrittura collettiva che mi sembra vagamente stalinista, da lager culturale. Ho letto ad esempio con discreto sconcerto, alcuni mesi fa, il saggio NEW ITALIAN EPIC: mi è parso un recinto preventivo avente come paletti date e fatti abbastanza gratuiti, e non abbastanza serio per tracciare una nuova e decisiva frontiera nell’ambito della narrativa italiana attuale, come pretende di fare. Ciò non toglie che lo scrittore, nella propria irriducibile singolarità, quando ha sufficiente coscienza di sé, continui ad essere libero: libero di scrivere ciò che vuole, anzi ciò che sente di dover scrivere.

  9. Mauro Pianesi Says:

    Basterebbe (o, meglio, “occorrerebbe”, visto che non so se quanto sto per dire sarebbe sufficiente a risolvere le cose) occorrerebbe che si stabilissero bene gli ambiti di pertinenza di ciascun settore, di ciascun media. Scendere in campo lancia in resta contro la televisione tout-court mi sembra impresa disperata e abbastanza inutile. Bisognerebbe però “convincere”, indurre la tivù a trattare, ad esempio, di arte (letteratura, musica, arti figurative ecc.) in spazi dedicati, con linguaggio e in un contesto appropriati, magari anche per bocca di gente che ne sa qualcosa e, soprattutto, sappia comunicare. Il problema dei problemi, insomma, non è tanto la televisione in quanto elettrodomestico, ma la televisione come linguaggio e visione del mondo totalizzante: “tutto deve essere fatto come si fa in tivù; tutto deve essere rapportato a ciò che si vede in tivù”. E cosa si vede in tivù? Sempre le stesse quattro misere cose, purtroppo. Si ascoltano sempre gli stessi idiomi stentati, i congiuntivi abrasi, il luogo comune rampante ecc. Eppure questo elettrodomestico avrebbe molto da offrire per la promozione della cultura, per l’informazione, per l’educazione. Usando, dicevo, il linguaggio e le modalità comunicative specifiche delle materie di cui si va a trattare. La vera battaglia non si gioca nell’antinomia (irrisolvibile? o soltanto inutile a risolversi?) cultura/televisione, ma in una vera e propria “guerra di liberazione” del mezzo televisivo dal qualunquismo in cui è stato sprofondato. Forse le pay-tv (ma non sono esperto della materia) potrebbero aiutare in questo processo, non fosse altro per il fatto che sono a pagamento e si rivolgono a pubblici dedicati.

  10. nico Says:

    Caro Mozzi, quando lei paragona Infinite Jest al libro di Casadei è serio? Ha davvero letto, lei, E.F. W.? Siamo tutti imbecilli? Abbiamo vicino casa un grandissimo libro e non ce ne siamo accorti? Potrebbe spiegarci per che cosa Il suicidio di Angela B. è tranquillamente paragonabile? Non trova questo modo di parlare di libri parecchio … arbitrario, suopponente, snob, ecc. ecc. ?

  11. vibrisse Says:

    Eh sì: abbiamo vicino casa un bellissimo libro e non se n’è accorto quasi nessuno. Succede. Questo non significa che “siamo tutti imbecilli”.

    Una rassegna stampa su questo libro è nel sito dell’editore:
    http://www.sironieditore.it/sezioni/archarticolo.php?ID_libro=978-88-518-0010-9&ID_collana=X

    gm

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